Un vescovo spagnolo: ci sono ragazzini che provocano i pedofili
Family day a Madrid: parte la campagna elettorale della Chiesa contro Zapatero
di Franco Mimmi
Ormai apertamente trasformata in un partito politico (di destra, naturalmente), la conferenza episcopale spagnola ha portato una volta di più la gente in piazza per protestare contro il governo di José Luis Zapatero, considerato colpevole, in quanto laico, di dirigere il Paese «alla dissoluzione della democracia».
Lo ha affermato, nel corso della manifestazione «Per la famiglia cristiana» convocata ieri a Madrid, il cardinale Agustín García-Gasco, arcivescovo di Valencia, per il quale «la cultura del laicismo è una frode», che «solo porta alla disperazione per il cammino dell’aborto, del divorzio express e delle ideologie che pretendono di manipolare l’educazione dei giovani». Nulla ha detto, invece, della cultura religiosa del suo collega Bernardo Álvarez, vescovo di Tenerife, il quale, a proposito della pederastia, giorni prima aveva commentato: «Ci possono essere minori che consentono gli abusi, vi sono adolescenti di 13 anni che sono minori e sono del tutto d’accordo e in più lo desiderano, e anzi, se non stai attento, ti provocano».
Migliaia di persone, quasi un milione, sono scese ieri in piazza (con tanto di collegamento tv con il Vaticano per trasmettere l’Angelus) per rispondere all’appello della Chiesa più retriva, che agli ordini del cardinale Rouco Varela, arcivescovo di Madrid, sta valicando tutti i limiti della convivenza e del rispetto per le idee altrui in vista delle elezioni generali del 9 marzo prossimo. Il grande nemico è il governo di Zapatero, sotto il quale, ha dichiarato Rouco, «l’ordinamento giuridico spagnolo ha fatto marcia indietro rispetto alla Dichiarazione Onu dei diritti umani».
I movimenti cattolici più radicali - dall’Opus Dei ai Legionari di Cristo (il cui fondatore, il sacerdote messicano Marcial Maciel Degollado, fu discretamente allontanato perché accusato di pederastia), dal Movimiento Camino Neocatecumenal ai Voluntarios de Misión – sono il braccio che la Conferenza episcopale arma contro il governo socialista, accusato di «sette peccati capitali»: aborto, divorzio, eutanasia, cellule staminali, matrimonio omosessuale, educazione e finanziamento della Chiesa. Opinioni a parte, nella maggior parte dei casi è pura menzogna. Per esempio, il governo nulla ha cambiato (nè pensa di cambiare, in parole dello stesso Zapatero) della già esistente legge sull’aborto, ma i movimenti antiabortisti sono stati scatenati in una serie di manifestazioni davanti a cliniche dove si pratica l’interruzione di gravidanza. Neppure rientra nel programma del governo una legge sull’eutanasia. E quanto alle «banche» di cellule staminali, che il governo ha voluto non a fini di lucro, la cattolicissima Esperanza Aguirre, presidente della regione Madrid, si è invece preoccupata di favorire la creazione di «banche» private in vista degli affari che ne deriveranno. Insegnamento della religione: è stata soppressa l’obbligatorietà (che il governo di destra di Aznar aveva reintrodotto con una legge più retriva di quella vigente ai tempi del franchismo), ma è rimasta obbligatoria l’offerta della materia, e i 15 mila professori di religione, che l’episcopato sceglie (e a volta licenzia, contro lo statuto dei lavoratori) a suo piacimento, sono pagati dallo Stato. Quanto al finanziamento, il governo ha elevato dallo 0,52 allo 0,70 la quota Irpef che il contribuente cattolico può destinare alla Chiesa.
Insomma: allo stesso modo del Partido popular, votato a una opposizione senza argomenti ma a tutto campo, anche la Chiesa spagnola è avviata verso una pericolosissima radicalizzazione che può portare, questa sì, «alla dissoluzione della democracia». Ovviamente non è tutta la Chiesa, però, come ha detto Carlos García de Andoin, coordinatore di Cristiani Socialisti, «il nucleo più conservatore sta ottenendo la nomina di giovani vescovi neotradizionalisti, e già vi sono prelati della Conferenza episcopale che formano parte di Comunione e Liberazione». Il problema, sottolinea Gregorio Peces-Barba, uno dei padri della Costituzione spagnola del 1978, è che «non accettano la distinzione pubblico-privato che sta nell’articolo 27 della Carta Magna, e nel fondo continuano a pensare come nel XIX secolo, quando dicevano che la libertà di coscienza era un errore pestilente».
l’Unità 31.12.07
Anno 2008: conosceremo l’origine dell’universo?
di Pietro Greco
I FISICI si attendono grandi cose da LHC. l’acceleratore di particelle più grande del mondo che tra qualche mese entrerà in funzione al Cern. E la rivista Science consiglia di tenere d’occhio la macchina...
La notizia scientifica più attesa per il 2008 è, certo, quella che verrà - tra maggio e giugno - da Ginevra, non appena sarà entrato in funzione LHC, l’acceleratore di adroni. O, detta fuori dal gergo dei fisici, la macchina più grande e potente mai costruita dall’uomo.
Il gigantismo tecnologico ha certo il suo fascino. Alla macchina del Cern (l’Organizzazione europea per la ricerca nucleare) da 7 TeV (migliaia di miliardi di elettronvolt) e da qualche miliardo di euro, lavoreranno alcune migliaia di esperti provenienti da 111 diversi paesi. Confermando all’Europa una primazia importante, in un mondo della ricerca scientifica sempre più ricco e multipolare. Tuttavia l’attesa maggiore è per i risultati scientifici che la Grande Macchina produrrà. Il più atteso è il rilevamento del «bosone di Higgs» l’unica particella prevista e non ancora trovata dal Modello Standard della Fisica delle Alte Energie. Se verrà trovata, come tutti si aspettano, avremo capito cos’è che conferisce una massa alla materia e trovato l’ultimo tessera mancante nel puzzle che ha unificato l’interazione debole e l’elettromagnetismo, ovvero due delle quattro forze fondamentali della natura.
La filosofia della Grande Macchina è piuttosto brutale. Accelero particelle grasse, come protoni o addirittura ioni pesanti; le faccio sbattere a una velocità molto prossima alla velocità della luce le une contro le altre, le annichilo e dal «grande vuoto» nascono, come comanda la meccanica quantistica, sciami di nuove particelle. Incluso il «bosone di Higgs», alla cui caccia si scateneranno sofisticati rivelatori che dovranno visionare in tempi rapidi una quantità enorme di tracce. Il che, per inciso, ha obbligato i fisici del Cern a escogitare nuove diavolerie informatiche per aumentare la memoria e la velocità dei loro computer.
Se poi la caccia si dovesse rivelare infruttuosa, beh allora - questo è il bello - alcuni decenni di ricerca di successo in fisica teorica sarebbero da riscrivere. È per questo, forse, che tutti mostrano grande fiducia: il «bosone di Higgs» c'è ed LHC, la prossima primavera, lo troverà.
La gran parte degli esperti, anzi, pensa che LHC saprà andare «oltre il Modello Standard» e troverà le prove decisive della cosiddetta «supersimmetria», che consentirà un ulteriore passo in avanti verso l’unificazione delle forze, con la scoperta della particelle supersimmetriche (ogni particella nota ha una particella supersimmetrica). Se questo si verificherà avremo la prova sperimentale della fondatezza della teoria che unifica l’interazione elettrodebole e l’interazione forte.
Al test partecipano, con una certa trepidazione, anche i cosmologi. Già, perché se proviamo l’esistenza delle particelle supersimmetriche abbiamo buone possibilità di rispondere alla domanda che riguarda l’universo intero: perché il cosmo pesa più della materia nota che contiene? La risposta in questo caso sarebbe: perché contiene altra materia che finora non abbiamo visto. Una risposta che appagherebbe anche i teorici, consentendo loro di salvare un altro Modello Standard, quello della cosmologia.
Ancora una volta, se LHC non dovesse trovare prove dell’esistenza di SUSY (la supersimmetria) dovremmo rimettere mano a molte pagine della fisica scritte negli ultimi anni e persino negli ultimi decenni. Non sarebbe un disastro, per i fisici. Non per quelli dei nostri giorni, almeno. Perché la ricerca in questa che è considerata la disciplina fondamentale delle scienze naturali ripartirebbe alla grande. Cosicché non sono pochi coloro che sperano che LHC fallisca: o meglio, che non trovi l’atteso. E magari scovi l’inatteso.
Diciamolo subito, questa eventualità è difficile che si verifichi. Anche se, ovviamente, non impossibile.
Molto più controversa è, infine, l’ultima missione affidata alla Grande macchina: fornire la prova sperimentale della validità della cosiddetta «teoria delle stringhe», nota anche come «teoria del tutto», perché unificherebbe in un solo e unitario quadro teorico tutta la fisica, unificando la gravità con le altre tre forze fondamentali della natura. Secondo alcuni LHC potrebbe trovare un certo modo di diffondersi di alcune particelle, note come bosoni W, quando colpiscono un oggetto che è previsto dalla teoria ultima. Il test potrebbe essere l’unico modo, in questo momento, per falsificare nei termini previsti da Popper una teoria che è molto sofisticata dal punto di vista matematico. Non tutti concordano sulla adeguatezza del test. Per cui anche se LHC certamente non metterà la parola fine alla ricerca della «teoria del tutto», certo accenderà la discussione. Il che, a ben vedere, non è davvero poco.
Repubblica 31.12.07
Pablo Picasso. Le mille vite di un genio
È uscito negli Stati Uniti l'ultimo volume della biografia di Richardson
Intervista di Antonio Monda
NEW YORK. L´uscita del terzo volume della monumentale biografia di Picasso ad opera di John Richardson è stato accolto negli Stati Uniti come un grande evento culturale: alla copertina del New York Times Book Review, a cui è stato dato il titolo "The Colossus", ha fatto seguito un lungo saggio sul New York Review of Books, una serie di articoli su tutte le principali pubblicazioni americane, ed infine una recensione osannante a firma di un critico ostico come Michiko Kakutami sul New York Times. Il nuovo testo, a cui farà seguito nei prossimi anni un volume conclusivo, è stato pubblicato da Knopf (pagg. 592, $ 40) ed ha per sottotitolo The Triumphant Years 1917-1932. Nel periodo in cui conviveva con il critico e collezionista Douglas Cooper, Richardson ha frequentato regolarmente Picasso, ed in questo nuovo capitolo della biografia utilizza al meglio il suo rapporto privilegiato: l´importanza del testo è nella perfetta miscela di un´erudizione autentica con il piacere dell´aneddoto e della testimonianza personale.
Richardson è uno scrittore di piacevolissima lettura, felice di essere uno degli ultimi depositari di una miniera di vicende passate alla storia, che ha scelto di importare il suo approccio divulgativo sulla leggerezza ed il riferimento per pochi eletti. Mi accoglie nella sua sontuosa casa nella parte Sud della Quinta Avenue, dove, tra le molte opere di Picasso, c´è il ritratto dell´artista scelto per la copertina del libro. «E´ una foto scattata da Valentine Hugo», racconta mentre si aggira tra le opere d´arte nel suo studio tra le quali campeggia anche un suo ritratto a firma di Lucien Freud. «Era la nipote dello scrittore, che ebbe una relazione con Picasso e lo immortalò in questa immagine sulla quale lui ha aggiunto dei disegni simili a quelli di Guernica».
In una conversazione con Francoise Gilot, Picasso definì Dio come un artista, che ha creato animali bizzarri come la giraffa e l´elefante, senza un vero e proprio stile.
«E´ evidente che Picasso parli implicitamente di se stesso, aggiungendo, a proposito del Padreterno, che "continua a tentare cose diverse". Picasso era consapevole di essere un genio. Ed era un artista anche sentiva l´esigenza di cambiare e sperimentare continuamente. Si considerava in primo luogo uno sciamano ed un esorcista, e chi lo conosciuto di persona sa quanto fosse capace di atteggiamenti sorprendentemente contraddittori».
A cosa si riferisce?
«Ad esempio alla differenza di atteggiamento che aveva nei confronti delle donne e degli amici. Con le donne è stato ripetutamente crudele, mentre con gli amici si è distinto spesso per lealtà e generosità. Ma questo è un elemento da approfondire: nei quadri in cui dipingeva la prima moglie Olga voleva a mio avviso esorcizzarne la malattia mentale. Combatteva il male con il male, utilizzando immagini crudeli che sono rimaste sulla tela».
Nel suo libro racconta di numerosi gesti di arroganza e crudeltà anche nei confronti di Cocteau.
«Si tratta di un caso particolare: a mio avviso Cocteau aveva nei confronti di Picasso un rapporto che sfiorava il masochismo e sembrava che facesse di tutto per irritarlo e scatenare in lui reazioni violente. Me lo ha confermato anche Claude Arnaud, che su Cocteau ha scritto una splendida biografia. Ho assistito a scene terribili, ma il bello è che dopo pochi giorni i due tornavano ad essere amici come se nulla fosse».
Lei attribuisce al viaggio in Italia fatto dai due amici una fondamentale importanza per l´arte futura di Picasso.
«E´ il viaggio in cui Picasso rimane affascinato dalle grandiose figure classiche e si trova costretto a confrontarsi con il classicismo. E´ dopo il soggiorno a Roma e a Napoli che elabora un passaggio in avanti rispetto al cubismo, forma espressiva con la quale ha raggiunto risultati straordinari e nella quale tuttavia cominciava a sentirsi limitato in particolare per via delle dimensioni.
Uno dei capitoli più appassionanti è quello che riguarda il rapporto con Diaghilev e Massine all´epoca di Parade: ritiene che queste frequentazioni nel mondo del balletto abbiano avuto un´influenza sull´arte di Picasso?
«Non direi. Pensando a quel periodo mi viene in mente semmai la relazione artistica con Stravinskj. Entrambi cercavano di rivoluzionare nello stesso periodo il loro mezzo espressivo, riflettendo sul classicismo. Il periodo del matrimonio con Olga rappresenta anche il momento più borghese della vita di Picasso. Visse quegli anni, che definì "Il Periodo Duchessa" con sincerità, e, per un breve tempo, anche con un senso di appagamento. Esistono delle foto dell´epoca sorprendenti che lo ritraggono come un perfetto signore che esibiva un cappello elegante e perfino delle ghette. Picasso aveva conosciuto la povertà ed ora, improvvisamente, si trovava ad avere un castello con maggiordono, autista, cuoco. Ma durò poco: il richiamo della vita artistica e del fascino bohemienne riapparvero nello stesso periodo in cui si innamorò a 45 anni della diciassettenne Marie Therese Walter. Fu una passione dionisiaca che si oppose alla relazione più tradizionale ed apollinea che aveva con Olga».
Va aggiunto anche che in Picasso queste due anime rimasero vive sino alla fine, anche se nel suo studio di Parigi fece scrivere «Je ne suis pas un gentleman» e raccontò di preferire un pasto di fagioli allo champagne e al caviale.
«Si tratta di una delle sue tante contraddizioni, che a livello artistico diventarono una caratteristica del suo genio. Altri personaggi chiave della sua biografia sono Gerald and Sara Murphy. Si tratta dei due personaggi che ispirarono Scott Fitzgerald per Tenera è la notte». Insieme a loro Picasso convinse il proprietario dell´Hotel Du Cap a tenere l´albergo aperto anche d´estate consacrando la moda della Riviera. Nei Murphy Picasso vedeva degli spiriti liberi, ed un´affascinante impersonificazione del modernismo americano, così diverso dalla rigidità della classe intellettuale parigina. Era conquistato dal loro atteggiamento da bohemienne chic, e ritrasse Gerald nella Dance, ma nego, come hanno raccontato in molti, che fosse innamorato di Sara».
Dal suo libro risulta evidente che invece non amasse troppo Scott e Zelda Fitzgerald, né Hemingway.
«Il problema principale era quello alcoolico. La sua preferita era Zelda, ma al di là della stima che poteva avere per gli scrittori, non sopportava il fatto di trovarli sempre ubriachi, e vederli lasciarsi andare a scenate imbarazzanti».
La biografia affronta anche il rapporto con il surrealismo.
«Ritengo che Picasso inorridirebbe all´idea che sono state organizzate mostre sul suo periodo surrealista. Cercò sempre di resistere al tentativo di coinvolgimento da parte di Breton e visse quella breve esperienza come un modo per dare alle immagini un grado più elevato di realtà. Del surrealismo non digeriva il rapporto con il mondo onirico e con le teorie di Freud e Marx. In quel momento della sua vita Picasso era apolitico, e potrà sorprendere scoprire che nel 1934 partecipò ad un banchetto in suo onore organizzato dai Falangisti su invito di Jose Antonio Primo de Rivera. Scoprì quasi immediatamente che tentavano di strumentalizzarne la presenza, ma la sua attenzione ritornò unicamente alla libertà dell´arte».
Corriere della Sera 31.12.07
Su «l'Unità»: Bondi e le lodi a Reichlin «Avrei scritto le stesse cose»
ROMA — Sandro Bondi si complimenta con Alfredo Reichlin sulle pagine dell'Unità. Giovedì scorso il presidente della commissione per la Carta dei valori del Partito democratico aveva parlato, sul giornale diretto da Antonio Padellaro, della «impresa di dar vita non a un altro partitino, ma a un grande inedito partito della nazione, cementato da una comune idea dell'Italia e del mondo del 2000».
Ieri l'Unità ha pubblicato la lettera del coordinatore di Forza Italia: «Avrei voluto scrivere le stesse cose parlando del nascente movimento politico del Popolo della libertà, che rappresenta il corrispettivo del Pd sul versante del cosiddetto centrodestra». Consonanza ma anche differenze: «Questo non significa — scrive Bondi — che siamo d'accordo sulle soluzioni da dare ai problemi del Paese. Vuol dire però che siamo d'accordo sulla necessità di edificare una democrazia forte e vitale».
Corriere della Sera 31.12.07
I segreti di Caravaggio rivelati da Federico Zeri
di Stefano Bucci
Quarantaquattro capolavori «letti» dal genio, trasgressivo e raffinato, di Federico Zeri (1921-1998) ovvero uno dei più grandi storici dell'arte italiani. Non esattamente lezioni da accademia, ma conversazioni registrate per la radio tra il 1997 e il 1998 (Zeri morirà il 5 ottobre dello stesso anno); un tono colloquiale per raccontare i segreti del Compianto sul Cristo Morto di Giotto, della Danza di Salomè di Filippo Lippi, della Morte della Vergine del Mantegna, dell'Autoritratto di Schiele, delle Muse inquietanti di De Chirico. La nuova edizione curata da Marco Carminati (riveduta, corretta, amplificata) restituisce il fascino di un divulgatore ironico e al tempo stesso appassionato che di ogni personaggio e di ogni opera riesce a ritrovare il particolare o la curiosità capace di conquistare l'ascoltatore.
Ecco così che, nelle parole di Zeri, Caravaggio viene paragonato a Pasolini (cattolico ed eretico al tempo stesso), David viene bollato come «peloso adulatore di Napoleone», Michelangelo diventa responsabile di un errore (nella disposizione dell'intonaco) che danneggerà irreparabilmente la «sua» Sistina mentre in tempi più recenti la Danza di Matisse rivela il segreto della sua forza («i colori erano così vivaci perché dovevano illuminare una casa troppo scura e dovevano essere visti dal giardino»). Zeri è sempre capace di guardare ben oltre l'immagine: tanto che, grazie a lui, Gauguin diventa con quel suo rifiuto della società occidentale, addirittura «il primo alfiere delle culture minori».
Federico Zeri, Abecedario pittorico Longanesi pp.298 e 25
il Riformista 31.12.07
Il Pci dialogava con la Chiesa da pari a pari
di Paolo Franchi
Il cardinale Tarcisio Bertone teme che nel nascente Partito democratico i cattolici vengano mortificati, e ricerca il tempo perduto. «Il Pci di Gramsci, Togliatti e Berlinguer», sostiene, «non avrebbe mai approvato le derive (laiciste, ndr) che si profilano oggi». Sulla mortificazione cui rischierebbero di andare soggetti i cattolici nel Pd, trasecolo ma mi guardo bene dal commentare: ognuno giudichi per quel che vede, sa e può. Sul rimpianto di Sua Eminenza per il vecchio Pci, invece, qualche parola vorrei spenderla.
Gramsci, dice il cardinale. E ha perfettamente ragione. Spesso, non saprei dire perché, lo si dimentica. Ma il citatissimo articolo di Gramsci non si intitola, guarda caso, “La quistione cattolica”. Si intitola: “La quistione vaticana”. La differenza non è di poco conto. Sta a significare che cattolici, e più in generale cristiani, ce ne sono sotto ogni cielo di Europa: con la loro fede, con le loro chiese (in minuscolo, al plurale), con i loro rapporti più o meno risolti con lo Stato. E che invece in Italia, solo in Italia, c’è il Vaticano. Che il nostro, solo il nostro, è il Paese della questione romana. Che da noi, solo da noi, chi intenda porre mano alla costruzione di una grande forza nazionale, capace di esercitare egemonia, dovrà andare a scuola da Santa Madre Chiesa.
Togliatti, dice il cardinale. E ha ancora più ragione. Perché da Gramsci Togliatti (il Togliatti che torna in Italia da Mosca, nel ’44, a fondare il “partito nuovo”) ha appreso che senza una attenta «ricognizione della questione nazionale» non si va da nessuna parte, e che della questione nazionale la questione vaticana è parte rilevantissima. Il Pci vota l’articolo 7 della Costituzione perché considera un rischio gravissimo per la sua politica «turbare la pace religiosa degli italiani», e non deflette da questa posizione neanche negli anni successivi, nonostante papa Pacelli, nonostante la scomunica. Nel ’63, nella (allora) bianchissima Bergamo Togliatti individuerà nella lotta contro il pericolo atomico e per la pace un possibile terreno d’intesa per il lungo periodo tra marxisti e cattolici.
Berlinguer, dice il cardinale. E ha ragionissima. Il compromesso storico, il tentativo disperato di evitare il referendum sul divorzio, la lettera a monsignor Bettazzi: non c’è dubbio alcuno che, anche al netto dell’influenza di Franco Rodano e del cattocomunismo, al dialogo con i cattolici Berlinguer assegna un ruolo determinante nella battaglia per «salvare l’Italia» (anche dai pericoli della secolarizzazione) e portare a compimento «la seconda tappa della rivoluzione democratica e antifascista».
Ricapitolando: Bertone ha ragione da vendere su Gramsci, Togliatti e Berlinguer. Ai tre più eminenti leader del comunismo italiano, e di conseguenza al Pci, nulla fu più estraneo del laicismo. Eppure, con tutte le sue ragioni, Bertone ha torto. Perché azzarda un paragone tra il Pci e il Pd che, mi perdoni Sua Eminenza Eccellentissima, da qualunque parte lo si riguardi non sta letteralmente in piedi. Il Pci, nonostante le molte fesserie che si dicono in proposito, tutto era fuorché una setta. Vi aderirono molti cattolici, sia, sfidando la scomunica, negli anni della guerra fredda sia, in misura assai maggiore, nella stagione conciliare e postconciliare. Ma era un partito comunista: il più originale e “diverso” dei partiti comunisti, ma un partito comunista, nel quale, ovviamente, a nessuno poteva saltare in mente di mettersi in cerca di un comun denominatore sui valori sui princìpi tra laici e cattolici: con la Chiesa si dialogava, quando si crearono le condizioni per dialogare, con attenzione e rispetto, certo, ma da potenza a potenza. Di tutto questo (del comunismo italiano, ma pure della Chiesa giovannea, quella che distingueva tra l’errore e l’errante) ormai non c’è più traccia. Adesso al mio vecchio amico Alfredo Reichlin, tocca cercare mediazioni, per dire, tra la Binetti e Odifreddi: ne ha viste tante, non si spaventa. Personalmente non credo che la cosa sia possibile, e neanche particolarmente desiderabile. Ma gli faccio lo stesso gli auguri più affettuosi. Nella speranza che, se mai il suo tentativo andasse in porto, il cardinale possa trovare il risultato raggiunto all’altezza della lezione di Gramsci, Togliatti e Berlinguer.
Aprile on line 30.12.07
La sinistra che vorrei
di Carlo Patrignani
Dibattito. "Ho diffidenza verso le certezze infallibili che danno origine a veri e propri clericalismi, non importa se teologici o laici, e necessitano sempre - era la tesi di Lombardi - di un corpo, un organismo, o un uomo reclamanti l'infallibilità nell'interpretare il corso ‘vero' della storia"
Crollate le due fedi dottrinali del XX° secolo, l'Urss stalinista ‘patria' del socialismo realizzato e la Grande Crisi, il 1929, sempre dietro l'angolo come agonia finale del capitalismo mondiale, la sfida per la ‘Sinistra Arcobaleno' è creare la nuova Utopia, l'Umanesimo Socialista del XXI° secolo, mettendolo al riparo dalle varianti degenerative e patologiche: il nazional-socialismo e il comunismo.
E' un errore ritenere che l'avvento di Stalin sia stato un caso sfortunato, un incidente di percorso, che si sarebbe anche potuto non verificare o evitare. Stalin, non può esser disgiunto dal comunismo, fermo restando che si può sempre sperare nel futuro. Ed in questo sta la differenza tra comunismo e nazional-socialismo, o altrimenti nazi-fascismo: i disastri provocati da fascismo e nazismo esprimono, sono una fine, una chiusura; quelli provocati dal comunismo, certamente non minori, anzi per durata e natura maligna maggiori, possono esprimere un'apertura, un nuovo cominciamento, possono essere una promessa per l'avvenire.
In attesa allora di sciogliere il dilemma se debbano cambiare prima gli individui per poi cambiare la società o viceversa, si tratta di formare una ‘massa critica', un numero sufficiente di persone in sintonia ‘con e per' determinare il cambiamento della società: ad innescare processi di riforma e/o di rivoluzione culturale, del resto, non sono state mai le forze al potere ma quelle oppositive, della società civile, dei movimenti, delle realtà territoriali. Spinte dal basso che, per esser indispensabili al cambiamento, vanno non solo approvate, incoraggiate, registrate ma incanalate e realizzate: almeno, per coerenza, ci si provi fino in fondo per non deludere.
Voglio dire che se si è approvata la lotta contro la base militare Dal Molin manifestando con la popolazione di Vicenza, non si può, per coerenza, non votare contro l'avvio dei lavori. In ballo ci sono grandi valori insopprimibili: la pace opposta alla guerra, la non violenza alla violenza, il rispetto al sopruso, il dialogo alla prevaricazione. Poi altri, l'impatto e la sicurezza ambientali.
Ancora: sette giovani sono morti per gravi ustioni nell'acciaieria Thyssenkrupp il cui ad Harald Espenhahn è indagato ora per mancato rispetto di norme riguardanti la sicurezza sul lavoro: erano alla 13esima, 14esima ora di lavoro. Che coerenza è commemorare la morte dei sei giovani, per il settimo morto proprio oggi non c'è stato tempo, e contemporaneamente approvare con il protocollo sul welfare le misure che incentivano il ricorso allo straordinario avendo abolito la sovracontribuzione sulle ore di straordinario? Che coerenza passa tra la giusta constatazione del Presidente della Camera Fausto Bertinotti che la politica si è separata, staccata dalla vita e togliere la sovracontribuzione alle ore di straordinario che in sostanza significa permettere alle imprese di ricorrere più facilmente agli straordinari per gli assunti a termine, invece di fare nuove assunzioni? Se ne ricava che le ragioni, produttività, profitto, del più forte, l'impresa, prevalgono sulle ragioni, sicurezza del e sul lavoro, per il più debole, il lavoro e i lavoratori. Se si può, allora, essere d'accordo che lo sviluppo non c'è senza il capitalismo, è vero anche che non c'è sviluppo, umano, senza l'anticapitalismo, senza cioè porre un freno alla logica delle ‘mani libere' su tutto, anche sulla ‘vita' delle persone. Per cui ci si deve porre nell'ottica di "cambiare i pezzi del motore senza fermare la macchina: non si può immaginare di fermare, neanche per un momento, la macchina produttiva per farne una diversa, ma dobbiamo modificarla mantenendola in vita". Non c'è da dichiarar guerra al capitalismo, ai ‘big-players' dell'economia e della finanza, ma accrescere il controllo pubblico, che non è statalismo, ma, come si tentò negli anni '60, programmazione economica, pianificazione delle risorse, selezione delle produzioni tra beni di uso collettivo (università, scuola, ospedali) e di uso privato, come i beni di consumo (auto, telefonini, computer) che sin autoalimentano.
"Essere di sinistra e socialisti significa innanzitutto essere galantuomini", diceva un inascoltato riformatore oggi tornato d'attualità. Irrefrenabile nella passione politica, alto, magro, un po' curvo, la testa incassata fra le spalle ossute, l'ingegner Riccardo Lombardi contestava "l'esistenza di una razionalità della storia, di una storia cioè eterodiretta da un elemento che le da' significato e ne assegna la finalità: sia che il suo corso sia indirizzato verso la pienezza dello stato costituzionale per gli hegeliani; verso il comunismo per i marxisti; verso il regno per i cristiani; nulla toglie alla comune radice idealistica e platonico-cristiana: tali considerazioni - notava - non sono affatto esercitazioni intellettualistiche su astrazioni, esse hanno implicazioni di grandissimo momento sulla pratica giacché se si crede che la storia sia guidata da una sua risposta ragione verso una sua finalità considerata salvifica e se si reputa tale corso e finalità siano scientificamente fondati, siano cioè non un'ipotesi ma la certezza, ci vorrà bene qualcuno corpo, uomo, partito, chiesa, abilitato e legittimato a interpretare il corso della storia". E siccome questa, evidenziava, è la radice teorica di ogni dispotismo, la ‘Sinistra Arcobaleno' ha un vantaggio: sa da cosa deve guardarsi per non cadere in quella trappola mortale per cui si condanna Stalin e lo stalinismo ma si salva o almeno si tenta di salvare quel comunismo. "Ho diffidenza verso le certezze infallibili che danno origine a veri e propri clericalismi, non importa se teologici o laici, e necessitano sempre - era la tesi di Lombardi - di un corpo, un organismo, o un uomo reclamanti l'infallibilità nell'interpretare il corso ‘vero' della storia", e rivendicava "una pratica politica democratica: democratica perché egualitaria, non elitaria, non gerarchica, e non contraddittoria con il principio autentico della scienza, cioè il processo per tentativi e per errori, una pratica non soltanto tollerante perché riconosce ai dissenzienti il diritto all'errore, ma perché rivendica per sé stessa il diritto di sbagliare".
Rosso di Sera 30.12.07
La Sinistra alla prova di un anno cruciale
Walter De Cesaris, Piero Di Siena, Pietro Folena e Rocco Giacomino
Scelte impegnative, passaggi difficili, la pace nel mondo, il lavoro e l’ambiente, la costruzione di un nuovo soggetto politico unitario
A fine anno si ricorre agli oroscopi. Ci sono perfino calendari spcializzati. Poi c’è una miriade di maghe e maghi che dagli schermi delle tv commerciali, locali, di strada, a pagamento raccontano il nostro futuro. Non c’è bisogno di tutto questo. Basta guardare l’eredità che ci consegna l’anno che se ne va, una eredità terribile segnata dall’assassinio di Benazir Bhutto, per definire le linee di marcia di una Sinistra che ha bisogno di ricostruire una sua unità, per affrontare i compiti gravosi che la situazione richiede. L’anno in arrivo viene definito in molti modi: difficile, pesante, tremendo, decisivo, cruciale. A noi sembra che la parola cruciale ben si adatti alla vera e propria sfida cui si trovano di fronte le forze della sinistra , Rifondazione, Sinistra democratica, Verdi, Comunisti Italiani, che hanno deciso di dar vita ad una federazione, insieme a movimenti, associazioni fra le quali Uniti a Sinistra, Rossoverdi - Sinistra europea, Associazione per il Rinnovamento della Sinistra. Un passaggio importante per la costruzione di un nuovo soggetto politico unitario. Ad esponenti di queste forze abbiamo chiesto di guardare al 2008.
Walter De Cesaris
Coordinatore segreteria nazionale Rifondazione Comunista-SE
Siamo chiamati ad affrontare un anno tremendo, per noi, per la sinistra italiana, quella che vogliamo unire. Un anno decisivo nel quale dare corso agli impegni che ci siamo presi, dare concretezza a quello che ci siamo detti, in particolare nell’assemblea dell’8-9 alla Fiera di Roma. Il contesto internazionale, con l’assassinio di Benazir Bhutto, non facilita certo il nostro compito. Lo rende più gravoso, ma ci deve anche dare una spinta a fare sempre più forte e più unitaria la lotta per la pace. In questo scenario, ripeto, tremendo per la drammaticità dei problemi aperti, nella situazione italiana si intrecciano grandi questioni non più rinviabili, questioni economiche e questioni sociali, salario e sicurezza sul lavoro. Un operaio, un lavoratore deve avere la certezza che va a lavorare e non a mettere a rischio la propria vita. Un giovane non può diventare anziano passando, nel migliore dei casi, da un posto di lavoro ad un altro, sempre precario. Ci sono due grandi punti interrogativi, due grandi problemi irrisolti, che esigono una risposta. Si chiamano questione sociale e complessiva riforma del paese. Si era accesa una grande speranza che non si è realizzata. La battaglia per noi non è chiusa. Questa sinistra, con il soggetto politico e unitario che vogliamo costruire, non va da nesuna parte se non si affrontano questi problemi, se non si pone al centro della nostra politica, della nostra iniziativa la questione del lavoro. Siamo in presenza di un mondo fatto di milioni di operai e di lavoratori, che non ha una sponda politica all’altezza dei problemi da affrontare e risolvere. Noi, la sinistra che si vuole unire, deve porsi l’obiettivo di rappresentare questo mondo, di esserne il referente politico. Questa è la sfida che ci attende nel prossimo anno. Auguriamoci di esserne all’altezza.
Piero Di Siena
Presidente Associazione Rinnovamento della Sinistra
Un anno che si annuncia con il terribile assassinio di Benzir Bhutto, non può che essere cruciale per la pace nel mondo. Si impone una svolta o una catastrofe sarà inevitabile. Non è più rinviabile da parte della comunità internazionale la presa di coscienza che è necessario lasciarsi alle spalle il periodo aperto dall’11 settembre e dalla guerra senza fine dichiarata da Bush.Si tratta di un obiettivo indifferibile se vogliamo che il mondo non sia travolto da una inarrestabile spirale di violenza.
L’ombra lunga di questo infausto periodo della storia mondiale ha lasciato dappertutto le sue tracce.Anche nel nostro Paese l’esperienza di governo del centrosinistra si è trovata come di fronte a tanti nodi giunti al pettine e si è infranta di fronte a uno spirito pubblico e a condizioni materiale di vita che sembrano non essere in grado di investire sul futuro. Si è come prodotta una sorta di corto circuito che ha interrotto la “ coesione sentimentale” tra politiche democratiche e Paese. Populismo e xenofobia ne sono i figli degeneri. Per tutto questo è indispensable che nel 2008 la Sinistra mantenga la promessa fatta al suo popolo l’8-9 dicembre di quest’anno, che ci lascia dando vita ad un nuovo soggetto politico unitario. Non si tratta solo di un bisogno immediato di sicurezza, di retribuzioni dignitose, moralità pubblica. Si tratta anche di ritrovare il bandolo, che a volte sembra smarrito, di un percorso di invilimento fondato sulla libertà di tutte e di tutti. E solo una sinistra nuova può dare il contributo decisivo per rintracciarlo.
Pietro Folena
Presidente associazione Uniti a Sinistra
Tre buoni propositi che il governo dovrebbe fare per il nuovo anno:
1) Affrontare con serietà i problemi del lavoro: sicurezza, precarietà, salari. Non è più consentito a nessuno alcun ritardo. Se non si dà una risposta a questo, è meglio dichiarare il fallimento del governo per incapacità;
2) Non tagliare neppure un centesimo a scuola, università e ricerca, ma anzi aumentare i fondi. Si tratta di investimenti strategici per il futuro. Ma vedo che a pochi interessa. Vogliamo essere un paese del Terzo Mondo in piena Europa?
3) Fare la legge di riforma della tv. Senza di quella non possiamo neppure degnamente sedere tra i Paesi liberi.
Rocco Giacomino
Portavoce associazione Rossoverde-SE
Spero che l’anno nuovo ridia speranza e fiducia ai tanti che sentono l’urgenza di un mondo migliore e più giusto. Dopo decenni di conquiste e di nuovi diritti, le ragioni del lavoro sembrano cancellate e negate. Superato il compromesso sociale che era stato fattore di civilizzazione per tanti popoli europei, il capitale impone le sue politiche neoliberiste ed il lavoro, precarizzato e ridotto a merce, appare muto e privo di un'adeguata rappresentanza politica. Il nostro pianeta ha superato il suo limite di carico e non regge più uno sviluppo ad altissimo tasso di inquinamento e in crisi energetica per via dell’esaurimento delle fonti fossili. Ridare dignità e valore al lavoro, progettare un modello economico e sociale in armonia con gli equilibri naturali, è questa la missione per una sinistra nuova del terzo millennio, per il socialismo del ventunesimo secolo. Spero che nel 2008 questa sinistra diventi più concreta, un progetto credibile e praticabile. Intanto buon anno a tutte e a tutti.
Liberazione 30.12.07
Valore del lavoro al centro, unità senza esitazioni
Ingrao: «La fine del mio Pci e la Sinistra di domani...»
di Corradino Mineo*
Questa intervista, gentilmente concessa dall'autore, è andata in onda venerdì 28 dicembre, su RaiNews24 nella trasmissione "Il Caffé" in onda ogni giorno, dal lunedì al venerdì, alle 7 del mattino, su satellite, digitale terrestre e su Rai3 . La versione video è vedibile su www.rainews24.rai.it
Un'intervista di "RaiNews24" con l'ex-presidente della Camera e grande leader della sinistra che racconta le ragioni della fine del Pci, gli errori di Occhetto,
il moderatismo del Pd di Veltroni, la necessità per i giovani e la Sinistra di mettere al centro il lavoro e di unirsi, in maniera rigorosa, senza mezze misure
Marco Revelli qualche giorno fa diceva che gli operai sono diventati invisibili e che ci accorgiamo di loro solo quando esplode un'acciaieria a Torino e muoiono cinque operai. Come mai? Cosa è successo? Perché il mondo del lavoro è diventato così poco importante?
Perché c'è stata una sconfitta. Una grande sconfitta di fine secolo del movimento operaio. Perché questo è stato, io credo, il crollo dell'Urss. In Urss il punto in cui la sconfitta è stata attiva e palese è stato l'Afghanistan è lì che la crisi che già c'era a lungo precipita e presto si arriva alla sconfitta. E' abbastanza singolare che in italia questo si ripercuote un po' più avanti ed è la faccenda di Occhetto...
Però, dalla Bolognina in poi e dalla decisione di cambiare il nome del partito e non tanto la ragione sociale, da lì comincia una strana transizione italiana. Ricordo una cosa che dicevano i dirigenti del partito comunista, non lei, a quel tempo. Dicevano che il partito era come una piramide rovesciata, la base era più lontana dal popolo italiano di quanto non fosse il vertice, questo tipo di descrizione del vertice vicino al sentire del popolo italiano che poi ha animato la svolta, non è tipico di un certo modo di essere del Pci?
La considerazione può essere valida e contiene elementi importanti, però io sto per il modo in cui vissi anche tutta la questione a una spiegazione più elementare: è troppo stretta la vicinanza tra il crollo di Mosca e contemporaneamente l'operazione che viene fatta in Italia che era forse già preparata, perché insomma dietro la mossa di Occhetto c'erano tutte una serie di relazioni che lui aveva avuto allora con il mondo diciamo di Scalfari, per fare un nome esemplificativo. Però l'origine principale era già palese, la fine era dichiarata e aveva camminato lentamente. Ad esempio in quel promemoria di Togliatti che scrisse quando stava a Yalta c'erano le premesse e non furono affrontate, si lasciò aggravare la frattura con la Cina e con tutto l'enorme mondo dell'Asia e non utilizzò nemmeno tutta la comunicazione che si era creata con il mondo occidentale.
Ingrao è stato dirigente del partito comunista e talvolta critico nei confronti dell'Unione Sovietica. Probabilmente anche Togliatti si rendeva conto degli errori e degli orrori staliniani... Ma voi eravate comunisti?
Sì. Le parole poi bisogna prenderle per quelle che sono, è stata una grande parola. Sappiamo anche l'autore, chi l'ha scritta, quel tale Carlo Marx...
Però poi nei decenni che il sistema socialista realizzato portasse con sé una profonda ingiustizia è cosa che voi vedevate, non avete tardato molto a rompere i legami?
Noi lo vedevamo ma non avevamo la forza. La strada, mi sembra, che aveva tentato e preso Togliatti con luci e ombre era quella di mantenere e marcare dentro questo legame con il grande iniziatore sovietico una autonomia e una differenza.
Come la scelta di Occhetto di chiudere l'esperienza del periodo comunista interagisce con la sconfitta del movimento operaio?
Secondo me è una delle conseguenze di quella sconfitta e anche della controffensiva che viene dal mondo borghese occidentale. Non bisogna dimenticarlo. C'è l'Afghanistan e la sconfitta dell'Urss con il crollo del mondo sovietico e questo senza dubbio è il fatto essenziale. Contemporaneamente in occidente comincia di fatto la Trilateral ovvero l'offensiva della borghesia occidentale. Il grande capo italiano della Fiat ne ha a che fare in modo diretto. Diciamo che si sono dati da fare. Si era arrivati al punto dello scontro delle armate contro le armate.
Lei citava Marx, Lenin, non è che si può riproporre quel mondo, quali sono i valori secondo Ingrao che possono permettere ai giovani di contare di più agli operai di non essere invisibili, insomma una ripresa di quel movimento o uno sviluppo delle forze produttive che non sia angusto perché anguste sono le regole che gli si impongono.
Il valore del lavoro. Il valore del lavoro.
Dopo la Bolognina, dopo la nascita del Pds comincia una strana transizione italiana che in questi giorni si dice non solo incompiuta ma caratterizzata da errori di fondo, come la scelta del maggioritario per far funzionare ciò che non andava della repubblica ereditata dal '48. Questi ultimi quindici anni come li vede, una transizione incompiuta, un grave errore?
Prima di tutto c'è stato il modo disastroso, senza fare alcune offesa, con cui Occhetto ha condotto la rottura, quello ha pesato molto...
Alcuni dei collaboratori di Occhetto dicono che la colpa fu di Ingrao perché minacciando una rottura del partito comunista gli impedì di fare quello che avrebbe voluto fare ossia qualcosa di simile al partito democratico che nasce oggi.
Ma la questione parte prima. L'iniziativa è proprio di Occhetto e senza fare nomi, di quel mondo che lo stimola in quella direzione. Citiamo un giornale, Repubblica, quellaè la fonte che lo spinge e lo porta alla Bolognina, Occhetto è convinto - aveva avuto molte varianti, ce l'ha ancora adesso - lui è convinto che Berlinguer purtroppo si è spento. C'è una curiosa situazione, un curioso impatto allora in Italia e io lo vissa da lontano. Intanto scompare Berlinguer e questo incide su un corpo come il partito comunista italiano, poi c'era Craxi, era dilagata la sua iniziativa con la combinazione con la destra democristiana. Noi disperatamente e ostinatamente avevamo cercato di impedire questa operazione, avevamo soprattutto cercato di scartare puntando sulla "carta Moro" che si era spinta molto avanti io mi ricordo i colloqui che non solo Botteghe oscure ma che io stesso ebbi con Moro con il suo mondo da cui veniva sempre la risposta, "è troppo presto, bisogna andarci piano, bisogna aspettare". Noi allora eravamo orientati con Berlinguer e dopo la frase sul compromesso storico, a trovare il contatto con il mondo cattolico o democristiano, quel contatto che avevamo avuto in modo molto frammentato prima ma mai in modo compatto. Mentre Craxi e Forlani si mettono subito d'accordo.
Oggi, c'è questo tentativo avviato di costruire il Pd che ha nel gruppo dirigente alcune persone che sono cresciute nella storia del Partito comunista italiano ed altri che sono cresciuti nell'ambito della Democrazia cristiana, questo in fondo si potrebbe presentare come un intesa fra comunisti o post comunisti e sinistre democristiane ma tutto è cambiato intanto o no?
Se parliamo di D'Alema e Veltroni, leviamole queste parole, non solo non sono comunisti, ma hanno rotto da tempo il legame e sdono anche nella loro dislocazione storica sono dei moderati che hanno compiuto il passo che volevano compiere, può essere che trattano anche con Berlusconi, questo non lo so dire come andrà, ma diciamo che sono una forza moderata che si schiera. Poi c'è in questa vicenda tutta un'ala e una componente come Mussi, Bandoli e tanti altri che non accetta questo chiaro passaggio sulla spunta moderata.
Ingrao consiglierebbe o no di discutere con Silvio Berlusconi per avere una riforma elettorale che permetta di riprendere il cammino del nostro percorso costituzionale che si è interrotto 14 anni fa con il maggioritario che era diverso dallo spirito della Costituzione del '48; lei sarebbe a favore di questo confronto con Berlusconi o no?
Io con Berlusconi non so che dirgli. Con lui no, non solo perché è il classico reazionario, non so immaginare un'operazione con un reazionario come lui, non mi fido nemmeno, non mi dà certezza... e mi pare che la cosa è confermata anche dal fatto che con la coalizione che si era creata con Fini con Casini la crisi sia palese ed evidente. Non so rispondere alla domanda... A me interessa di più quello che fa la sinistra.
E allora parliamone, della "cosa rossa"...
C'è un'ala che viene dal ceppo antico comunista, facciamo un esempio, Veltroni, che è un moderato, legittimamente un moderato, e quindi fa la sua iniziativa politica ha i suoi rapporti con tutto un mondo che riguarda anche la chiesa cattolica da cui spera molto, e poi c'è una parte che si dice di sinistra di centro sinistra, che ha detto di no ed è Mussi, Bandoli eccetera. E' anche una costellazione. Non possono tardare e prolungare a lungo e in modo così faticoso l'operazione che bisogna fare che è quella di unirsi a sinistra. Volere i partitini, i mezzi partiti, i partiti che hanno solo un leader e neanche un iscritto - e non voglio fare nomi, li puoi immaginare - mi sembra poca cosa rispetto a realizzare l'intesa chiara, limpida e netta con Rifondazione comunista.
I suoi nipoti, i giovani di oggi come li vede. Mancano di ideali?
Non è vero che mancano di ideali né di passioni, sono delusi e non hanno accettato e non accettano una cosa che invece la mia generazione accettò, che cambiare il mondo che hanno intorno, o fanno quello che vedo fare anche intorno a me, si prendono un mestiere cercano di guadagnare dei soldi... se vogliono incidere sul mondo e sui valori c'è poco da fare, hanno bisogno di organizzarsi e di organizzarsi a livello di massa in modo abbastanza rigoroso.
*Direttore RaiNews24
Liberazione 30.12.07
Le "sfere separate" e la politica come mediatrice
Cosa è di Cesare e cosa di Dio. Il vero "nomos" della laicità
di Fausto Bertinotti
"A Cesare quel che è di Cesare, a Dio quel che è di Dio". Dietro l'apparente semplicità di questa risposta del Cristo, c'è non solo una straordinaria complessità, ma anche una difficoltà di interpretazione delle sue parole. Se non si parlasse del Cristo, si potrebbe dire che nella sua risposta c'è una malizia.
Forse allora non si può dire così, ma certo è evidente che c'è un elemento difensivo, un elemento con il quale egli si propone di non cadere in una trappola tesagli da parte di chi, e del resto è Luca a scriverlo, intendeva consegnarlo all'autorità e al potere del governatore.
Quindi si può dire che la trappola era così manifesta da essere evidente al testimone. Non cadere nella trappola era dunque la molla primitiva della risposta che, tuttavia, la trascende. La trascende in una formulazione che credo dissimuli, mentre rivela, e costringe perciò ad un grosso lavoro interpretativo.
Il lavoro interpretativo è tanto più impegnativo perché investe certo non quel che viene detto, ma anche ciò che su quella base accadrà all'interno della storia del cristianesimo e del rapporto tra il cristianesimo e la politica. Si può infatti aggiungere che non solo ci sono possibili interpretazioni diverse delle frase, ma ci sono stati tempi storici diversi nei quali si sono prodotte interpretazioni diverse.
Tempi diversi rispetto al rapporto tra religione e politica hanno influenzato il prevalere, per quel determinato periodo, di una interpretazione su altre di questa stessa formula così ricca e complessa.
Vi chiedo scusa perché, approfittando dell'amicizia e del luogo, azzarderò, come sentirete, delle cose di cui non mi sento affatto sicuro, anche per la modestia dei miei canoni interpretativi. È davvero l'azzardo di un lettore qualunque, non di chi possiede, in termini approfonditi, l'intelaiatura teologica necessaria.
Proporrei di liberarci subito, lo dico perché faccio questo di mestiere, da un uso troppo corrente della formula, cioè della sua precipitazione hic et nunc nella politica, e in particolare in uno dei suoi aspetti, la questione delle tasse. Penso che i problemi del fisco, delle tasse, non abbiano bisogno per essere risolti nella sfera della politica di ausili esterni, né della fede né del ricorso a Dio. Non c'è bisogno alcuno, per questo versante, della religione. La questione delle tasse è certo una questione fondativa della politica moderna, dai coloni americani si può dire che la questione si è legata a quella così impegnativa della cittadinanza. Per difendere vecchi interessi, antichi e nuovi privilegi, si possono sostenere anche tesi grossolane altrimenti indicibili, ma rimane il fatto che non si dà lo Stato moderno senza una politica delle tasse. Non si dà uno Stato moderno senza lo Stato sociale, senza la costruzione dello Stato sociale e senza un'idea di redistribuzione della ricchezza che si proponga, almeno, di attenuarne le diseguaglianze più impresentabili socialmente e senza che, almeno nelle dichiarazioni, si proponga di lenire, fino a ridurre, eliminare le povertà. Con tutta evidenza, la tassazione è un elemento necessario alla costruzione dello Stato sociale, un elemento di tutela della cittadinanza ed è un elemento di redistribuzione della ricchezza in termini di giustizia e di tutela dei più deboli. Almeno configura una possibilità che così accada.
Come abbiamo imparato nella realtà, per esempio del nostro paese, la tassazione medesima ha invece incorporato un elemento di ingiustizia con cui ha addirittura, essa stessa, aggravato le disuguaglianze. Ma il suo fondamento, ciò che la giustifica socialmente, resta legato a quei due elementi. L'articolo 3 della Costituzione italiana non potrebbe essere stato scritto senza l'assunzione piena di una equa politica fiscale proprio laddove recita che è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli che si frappongono al libero sviluppo della personalità umana. Liberare lo sviluppo della personalità umana da questi ostacoli vuol dire avere una capacità di intervento anche economico oltre che legislativo in grado di determinare il perseguimento dell'obiettivo. Si potrebbe dire che il terreno delle tasse - così chiudiamo questa breve parte - si configura come un terreno della organizzazione della solidarietà statuale. E vorrei ricordare a questo proposito la brillante formula di padre Marie-Dominique Chenu, che diceva essere la solidarietà un punto di congiunzione tra l'idea di carità (cristiana) e l'idea di eguaglianza (marxiana). Appunto, la solidarietà come cardine della società richiede una determinata politica fiscale, essa stessa coerente con questo assunto e capace sia di intervenire sul terreno del prelievo, su chi pesare e come, sia di intervenire sulla direzione della redistribuzione della ricchezza. Ma, ripeto, su questi problemi francamente non dovremmo scomodare Gesù Cristo.
L'autonomia della politica
Ci sono invece molte altre questioni assai rilevanti che si pongono proprio in rapporto alla politica nella formula che siamo chiamati a discutere. Io penso che siano giuste le cose che ha scritto nella presentazione di questa iniziativa Nino Fasullo. E cioè che, nello sviluppo della tradizione, la fase caratterizzata dall'ispirazione messianica, non solo non comprende l'intera storia delle relazioni tra cristianesimo e politica, ma anzi ne racchiude parti assai limitate. Ciò che la tradizione nel suo sviluppo, dunque in un lungo periodo di tempo, ha fissato nella formula "date a Cesare quel che è di Cesare e date a Dio quel che è di Dio", è la qualità stessa della politica moderna, cioè la laicità. Per dirlo un po' più forzatamente: nella formula c'è il principio fondativo dell'autonomia della politica. Anche nell'autonomia si può avere bisogno dell'altro, come si sa. Ma è un bisogno che si manifesta in termini che non possono mai essere sostitutivi della tua autonoma capacità di darti conto di quello che fai, del suo senso generale e di fondare la progettazione del tuo agire in una sfera autonoma che, se non mi piace chiamare di valori, è certamente di grandi coordinate etiche e politico-programmatiche. La stessa costruzione delle costituzioni moderne nasce così. Il processo costituzionale è l'ambizione della politica a costruire la sua autosufficienza, che, naturalmente, non vuol dire autarchia, non vuol dire incapacità di relazione, di dialogo. Il processo costituente è l'idea che un soggetto, il popolo, conquista la sua sovranità attraverso la costituzione di una propria soggettività, come entità storica, fondata su una determinata idea di organizzazione sociale e civile rispondente, a sua volta, ad un preciso rapporto tra i principi e la prassi. In questo processo costituente la libertà e la responsabilità umane costituiscono le fondamenta della costruzione storica della repubblica, i suoi principi irrevocabili e non sostituibili.
I due poteri
In questo senso penso che l'alta formula di cui discutiamo chiede in primo luogo di non confondere le cose che sono di Cesare con le cose che sono di Dio. E so bene che si può obiettare che non è facile stabilire il confine tra le une e le altre e che neppure si può, per le ragioni prima ricordate, far ricorso ad una cattedra per stabilirlo. E tuttavia si tratta di un "tendere a", di un disporsi a fare "come se" per determinare, sulle cose di Cesare, una sovranità degli uomini. Riconosco, nella tradizione c'è l'affermazione del tempo lungo contro il tempo breve. Questo è il tempo della secolarizzazione, accettata dallo stesso percorso religioso, anche se, come vediamo bene in moltissime insorgenze attuali, si verifica la tentazione proprio in questo nostro tempo di mettere in discussione questa conquista che si esprime nel moderno. Non vedo niente di buono in questo mettere in discussione l'idea della laicità dello Stato. So che è un'idea che richiede l'accettazione della modestia del tempo lungo a cui non va contrapposta la grandezza, che può farsi esponenzialmente crescente, del tempo dell'avvento, del tempo breve che resta. Fuori da quest'ultimo occorre organizzare una convivenza tra due poteri, due poteri di natura diversa, ma sempre poteri. A meno di non voler ricorrere all'idea attribuita a Stalin secondo cui ci si sarebbe dovuti fare la domanda su quante divisioni disponesse il pontefice. Se si esce dalla rozzezza di questa interpretazione, bisogna pensare necessariamente a due poteri di influenza, e quindi alla costruzione dell'autonomia per evitare un conflitto distruttivo. E come Fasullo ha ricordato correttamente, tra questi due poteri c'è sempre la possibilità del dominio, precisamente del dominio dell'uno sull'altro (e di entrambi sulla persona e sulla società). Oppure si può dare una capacità egemonica, per usare un termine in questo contesto discutibile, che lascierebbe l'apparenza dell'autonomia ma ne corroderebbe la sostanza. E' possibile, cioè, che si determini una condizione nella quale le apparenze sono quelle della convivenza dei due poteri, ma la sostanza è quella della manomissione dell'uno a vantaggio dell'altro. Nella storia nostra tante volte è accaduto. Penso che questa condizione, quando si determina, sia una perdita per entrambe le sfere.
Le intuizioni di Giovanni XXIII
Credo che il punto più alto che abbiamo conosciuto in questo sviluppo della civiltà dei due, o dei molti, poteri e culture conviventi sia stata la stagione del Concilio Vaticano II. Non mi riferisco soltanto a ciò che ha determinato nell'ecclesia, ma alla stagione tout court. Penso che quello sia stato il punto più alto del dialogo. Non sempre, come sappiamo, la storia procede per evoluzioni, anzi quasi mai. Bisogna arrendersi all'idea che si può arretrare drammaticamente, che gli scacchi che subisce la storia, nel processo di costruzione del progresso sociale e della civiltà, possono essere così rilevanti da indurci ad abbandonare la stessa nozione di progresso come possibilità interpretativa del corso della storia. Il Concilio Vaticano II secondo me è stato il punto più alto di una storia. E lo è stato, scusate se mi addentro in terreni che davvero non mi sono propri, anche di più dal punto di vista di una rottura nella storia della Chiesa e nella costruzione teologica. Non c'è bisogno di essere particolarmente esperti per riconoscere a due intuizioni di Giovanni XXIII il significato di una straordinaria invenzione di futuro, di una geniale invenzione di futuro. Una è la formula degli "uomini di buona volontà", rottura epistemologica, di linguaggio, di cultura che per la prima volta ci fa toccare con mano l'idea che non ci sono mondi separati tra credenti e non credenti e tra le diverse fedi, ma che invece gli uomini si affratellano secondo la buona volontà. Torneremo poi su questo punto che a me sembra essenziale.
Il secondo elemento è l'ingresso nella teologia della categoria di "popolo", connesso a quelli degli "uomini di buona volontà", e la ricostruzione, anzi la considerazione di un popolo, del popolo, come fondamento anche della ricerca di Dio e della fede. Si è posta così una revisione, se posso usare questo termine preso in prestito dalla politica, nella teologia di grandissimo rilievo e si è avviata la fondazione di una teologia politica aperta a un incontro di umanità, nell'orizzonte di un nuovo umanesimo, se si può usare con una formula così mal definita.
In esso il cristiano non si separa, ma si propone come lievito, come sale della costruzione di una nuova umanità. C'è qui una rottura radicale, con ogni propensione integrista e integralista, intendendo per integrismo, nel rapporto interno al fenomeno religioso, quel che gli dà la propensione a ritenere la sua proposta indispensabile al prodursi della buona politica, e per integralismo il comando della religione che viene organizzato sulla politica medesima. C'è una rottura grande su entrambi i terreni. E c'è la promozione, da parte della Chiesa, dell'umano come orizzonte comune, per il credente e per il non credente, in una condizione in cui il fine della promozione umana, fino al suo compimento terreno, può essere il compito degli uomini di buona volontà, sia credenti che non credenti. C'è lì l'idea più alta, secondo me, elaborata dentro la Chiesa cattolica, del rapporto tra fede, religione e politica, ed essa, a sua volta, incontra uno dei punti più alti della politica. Senza che questo determini la statica appartenenza ideologica, la fissità di un modello di trasformazione, penso anch'io come Franco Rodano che la politica ha toccato il suo punto più alto con la nozione di rivoluzione, se per rivoluzione si intende l'assunzione della prospettiva di liberazione delle donne e degli uomini da ogni forma di sfruttamento e di alienazione.
Il balzo di tigre
Capisco che con ciò la politica, anch'essa, si espone alla possibilità del passaggio dal tempo lungo al tempo breve. Nel momento in cui la politica si porta su questo terreno, che è quello della sua più grande ambizione, che è appunto la rivoluzione, anch'essa entra in contatto con un orizzonte escatologico. E anch'essa può interpretarsi non più secondo i tempi e il ritmo del tempo che scorre, bensì sulla base dell'attesa del tempo che resta, del tempo che resta all'avvento rivoluzionario. Proprio su questo Walter Benjamin scrive le sue pagine più travolgenti, secondo me assolutamente straordinarie nella storia del pensiero. Nelle sue famose tesi l'elemento messianico torna costantemente come un punto di svolta. In esso si colloca ciò che chiama il "balzo di tigre", cioè quel tornare indietro sui punti, sugli snodi della storia, dove gli uomini che volevano un destino diverso hanno perso per ritrovare nella storia dei vinti i brandelli possibili di un futuro. Ricordate bene l'immagine così intensa di quell'angelo, l' Angelus Novus , che viene sospinto dai venti della storia del progresso in avanti, mentre il volto si torce a vedere le macerie di cui è disseminata la storia dell'umanità. Bene, lì c'è tutta la più grande esposizione a un tempo difficile e cruciale. Riconosco che persino in Karl Marx, che ha posto il tema nella storia moderna, questo problema è irrisolto. Nel senso che ci sono due Marx (come in tutti i grandi, di possibili letture ce ne sono sempre almeno due). Ce n'è uno, quello maturo, quello del Capitale, quello dei Gründisse, che ha ben presente il limite della politica. La sua concezione della rivoluzione non è rivolta alla fine della storia, non è la creazione di un ordine altro fuori dalla storia e di un uomo nuovo totalmente altro da quello che abbiamo fin qui conosciuto. Un'idea prometeica che invece c'è nel Marx giovane, in alcuni passi del Marx giovane, in cui sembra che la politica si configuri come una potenza illimitata, ponendosi così al confine con certe ispirazioni presenti nella teologia politica, quasi proponendo una liberazione che pone l'uomo fuori della storia. Nella versione maturata sulla critica allo sfruttamento e all'alienazione dell'uomo nel capitalismo, nella secolarizzazione della ipotesi di Marx in lotta di classe, nella versione secondo cui la politica alta è quella della rivoluzione, quella che rimuove la causa, il capitalismo che impedisce lo sviluppo della personalità umana, (una concezione che quindi ha presente il confine nella storia e il limite dell'uomo), in quella concezione che assegna alla rivoluzione il compito storico di eliminare la causa dello sfruttamento c'è la possibilità di incontrare precisamente quella teologia politica rivista, di cui parlavo riferendomi al Concilio e a Giovanni XXIII, che non casualmente proclama che il più grande peccato dell'umanità è "lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo".
La teologia di Paolo
Queste convergenze, pur nell'autonomia delle sfere, possono configurare un'idea della laicità che a me sembra quella più alta e più adeguata di quella della semplice separazione delle sfere. Un'idea che andrebbe riproposta o, almeno, reindagata. Secondo questa concezione, la politica può svolgere da sola il suo compito, anche quello più alto, quello della promozione dell'umano. A questo stesso compito possono concorrere, come lievito e sale, fedi e religioni che, al di là del compimento di questo compito storico e mondano, trovano il loro cammino proprio proponendo all'umanità la liberazione trascendente e definitiva dell'uomo dal peccato nell'incontro con Dio. Su questo limite comincia un'interrogazione su cui finisco il mio intervento, e che mi affascina molto. Il Paolo di cui qui si parlava è interno alla esegesi, alla lettura che qui dibattiamo del "date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio", oppure va oltre? La teologia politica di san Paolo, specie quella che emerge nella Lettera ai Romani, credo vada al di là di ciò che pure concorre a determinare, cioè, la migliore delle letture della formula del Cristo. È sulla base di questa ispirazione che lavora a rimuovere, intervenendo sulla causazione ideale, le basi dell'antropologia signorile, per metterle in discussione fin nelle sue fondamenta.
C'è un sovrappiù, credo, rispetto alla formula "date a Cesare quel che è di Cesare e date a Dio quel che è di Dio", c'è qualcosa che lì non è compreso. Quando nel tempo lungo della storia e nella dimensione del nostro vivere quotidiano, dunque anche nella povertà oltre che nella grandezza dell'ambizione di questo essere umano, si fa strada la dimensione messianica ed escatologica, e il tempo che resta prende il posto del tempo che passa, allora la teologia politica di Paolo si colloca contro Cesare, la sua teologia politica si erge contro Cesare. Jacob Taubes dice a questo proposito, secondo me, delle cose molto convincenti. Mi appello a un'autorità per dare forza alla tesi che sostengo, me ne scuso, però Taubes dice cose davvero molto convincenti. La teologia di Paolo è contro la legge. Siccome spesso viene usata contro questa interpretazione del suo pensiero, il realismo di Paolo, debbo dire che l'osservazione non mi sembra efficace. Quando ci si riferisce alla lettera con cui Paolo dice del ritorno dello schiavo alla sua condizione: non si può non vedere l'essenziale, la già citata demolizione della sua legittimazione. C'è la questione della mancata sollecitazione alla rivolta contro l'impero romano. Secondo me c'è una risposta molto convincente che spiega questo atteggiamento, che non è per nulla, come diremmo oggi con il linguaggio della politica, opportunistico. Se uno ritiene che l'apocalisse è prossima, che l'ora della verità si avvicina, se il tempo che resta è breve, perché dovrebbe impicciarsi dell'impero romano? Perché dovrebbe perdere il suo tempo, che è breve, a occuparsi di una cosa così circoscritta e mondana quando il problema che si pone drammaticamente e con urgenza spasmodica è quello della liberazione dell'uomo dall'alienazione originale, non dall'alienazione congiunturale, storica, definita, bensì da quella primigenia e fondativa? Del resto l'universalità e la storicità di Paolo c'è pure, la vedo anch'io, ma passa per il crocifisso, e non anche, ma interamente e solo per il crocifisso.
Quando Paolo di Tarso dice che il nomos non è l'imperatore ma chi è crocifisso, non alza una temperata critica alla legge, propone il rovesciamento del paradigma della legge. La legge non è più l'imperatore ma il crocifisso: è la fuoriuscita dall'imperatore e dalla legge. Non ci potrebbe essere rovesciamento più radicale. Ed è con questo rovesciamento, che diversamente da Mosè, il quale accetta la continuità del popolo ebraico, che Paolo rompe con essa e fonda l'idea della costruzione del nuovo popolo. Perché sceglie il Cristo risorto piuttosto che l'insorgere contro il malvagio impero romano. C'è lì una scelta di fondo, che non è né una scorciatoia né un approccio opportunistico. Ma allora qui, secondo me, possiamo vedere una diversità, non col messaggio evangelico di Cristo, ma tra la formula "date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio" e questa lettura paolina. C'è, a me pare, una differenza. Il "date a Cesare quel che è di Cesare", secondo me, non casualmente, semina i germi che danno luogo alla migliore tradizione del rapporto, nella storia, tra la religione e la politica ai tempi lunghi, alla laicità. Laddove la formula, la teologia politica di Paolo propone l'irruzione nella storia del momento messianico come rottura e lacerazione della storia medesima, come sradicamento da quella storia e come precipitazione apocalittica nella sua versione di attesa dell'evento e della resurrezione. E così si propone una comunità terza che è fuori dalla comunità etnica del popolo ebraico ma è fuori anche dall'ordinamento giuridico romano. Si tratta, secondo me, lo ripeto ancora per dare concreto senso del mio limite di conoscenza, di una teologia politica negativa. Negativa non vuol dire che porta con sé un segno di negatività. Teologia negativa nel senso di essere portatrice della contestazione che scardina ogni ordine terreno, che mina la funzione della legge come ordinamento politico ed ecclesiastico naturale, perché nega in principio la legge in quanto ordinamento, perché la parola messianica, la sospensione del tempo storico, prende il posto della storia. Il "date a Cesare quel che è di Cesare e date a Dio quel che è di Dio", che è anche la maliziosa risposta di un uomo che prima di risorgere viveva totalmente la sua umanità, viene superata dalla crocifissione che può dar luogo anche al superamento di quella formula in una teologia politica contro i Cesari, cioè contro tutti i poteri.
*Questo testo, che pubblichiamo per concessione della rivista "Segno", è tratto da un intervento del Presidente della Camera pronunciato durante le "Settimane Alfonsiane" a Palermo