Andare "oltre Rifondazione" e non condannarsi a restare sempre minoranza
Lo insegna la storia del Pci ed è il compito storico dei comunisti tutti
A un Pd a vocazione maggioritaria si risponde con una più grande vocazione della sinistra
di Sandro Curzi
Premetto che sono state, in particolare, la "lettera da Genova" e la "lettera a Fausto" di Ramon Mantovani, pubblicate martedì da Liberazione , a spingermi a intervenire nel dibattito che da settimane, anzi da mesi, anima il nostro partito. Il tema centrale ("andare oltre Rifondazione", anzi, come dice Bertinotti, "siamo già oltre Rifondazione", con il conseguente "fare presto e subito un nuovo partito di sinistra") è evidentemente di quelli che mette in discussione alla radice la nostra militanza, qui ed ora. E quindi necessita, insieme, di riflessioni personali, di sincere testimonianze individuali o di gruppo, e di un franco dibattito pubblico. Pensavo di starmene ancora un po' a riflettere e a confrontarmi con i compagni - di Rifondazione e non - con i quali mi capita quotidianamente di discutere. Del resto i segnali di frantumazione, di disorientamento e complessivamente di precarietà che ci arrivano dal sistema politico, dalla coalizione politica di centro-sinistra con la quale abbiamo vinto alle ultime elezioni generali e dalla stessa variegata sinistra (e qui intendo partiti, correnti, movimenti, forze sindacali, giornali d'area, ecc.) sono tali da suscitare insieme confusione e necessità di chiarezza, angoscia e istinto di contrattacco, delusione e nuove speranze.
In questo quadro, dico subito che mi pare stravagante, prima ancora che sbagliato e riduttivo, definire "politicista", come fa Mantovani, la proposta di un compagno (nella fattispecie, Bertinotti) che si interroga sul che fare. Come mi pare difficilmente contestabile che, con la costituzione del Partito Democratico, si "apre un vuoto". E ardito contestare il "profilo riformista" di Veltroni.
Difatti - e introduco così, nel testo che avevo già abbozzato, le prime impressioni suscitate in me dal discorso pronunciato da Walter al Lingotto di Torino accettando la candidatura a segretario del Pd - Veltroni si conferma, ad ogni sua uscita e atto politico (compresa la sua difficile ma felice esperienza di sindaco di Roma), un convinto e convincente riformista. Il suo discorso mi è sembrato provvidenziale acqua sul deserto della politica, così come concretamente praticata negli ultimi tempi in Italia dai partiti dello stesso centro-sinistra. Conteneva, di fatto, un robusto programma di governo. Apriva oggettivamente grandi possibilità al Pd, a condizione che esso sappia tirarsi fuori da una politica flebile e invadente, inadeguata e arrogante, e dalle sabbie mobili dei giochino di potere e dei veti incrociati in cui rischiava (e rischia tuttora) di sprofondare la stessa esperienza del governo Prodi. Il punto che mi è piaciuto di più del discorso è stato ovviamente quello della lotta alla precarietà, dell'aiuto concreto da assicurare ai giovani per affrontare la paura del futuro. In conclusione, ritengo che dal punto di vista della sinistra-sinistra, se essa per prima saprà mettere in campo una presenza politica forte e non massimalista, Veltroni si riconfermi un progressista con il quale si potrebbe fare molto cammino insieme, in favore degli ultimi, dei meno abbienti e di tutto il Paese.
Detto questo, ho molto apprezzato la franchezza e la "sfida" lanciata da Mantovani, con l'onestà intellettuale che tutti gli riconosciamo. E non si può non essere d'accordo sulle sue conclusioni: "la discussione congressuale sia chiara".
Dichiaro qui, con estrema chiarezza, che sono perfettamente d'accordo con quanto chiaramente esposto nella lettera genovese firmata da Haidi Giuliani e decine di altri compagni. In sintesi: 1) in questa fase dello sviluppo capitalistico, della globalizzazione e della vita politica, sempre meno sensibile al contatto diretto con i rappresentati, i loro interessi effettivi e in particolare i bisogni degli ultimi, "la storia e le ragioni della sinistra rischiano di essere messe ai margini" e "il mondo del lavoro rischia di scomparire dalla scena politica"; 2) "bisogna rispondere a queste difficoltà ancora una volta rinnovandosi. Costruendo un'organizzazione adeguata ai tempi"; 3) "noi vogliamo un partito diverso dagli altri… una formazione politica arcobaleno… una grande Sinistra di massa senza steccati e fondamentalismi, capace di coniugare rappresentanza e reale partecipazione". In definitiva, il soggetto dotato di adeguata "massa critica", di cui ha parlato Bertinotti.
Conosco personalmente solo Haidi fra quei firmatari. Eppure non avrei potuto esprimere meglio di quanto non abbiano fatto loro il mio stesso sentire: "Siamo disposti, da ora, a lavorare per questo". E ho la sensazione che sia, questo, un sentire e siano, queste, un'analisi e una volontà molto diffuse fra le nostre compagne e compagni, fra i ragazzi del movimento, fra i militanti (preoccupati quanto noi) del Pdci e dei Verdi, e fra i delusi e sconcertati compagni Ds che si sono rifiutati di seguire D'Alema, Fassino e Veltroni sulla strada che li sta conducendo a fare un partito con Prodi, Rutelli e Marini.
Dunque: andare oltre Rifondazione? E che altro fare, mentre tutto si muove e insidia alla radice la nostra concreta possibilità di opporre, al montante liberismo e alla crisi della politica, un'alternativa credibile e una via d'uscita? Chi non è interessato solo alla manifestazione del proprio pensiero critico o alla mera testimonianza della propria militanza "alternativa", non può far finta di niente se il gruppo dirigente del Pci-Pds-Ds distrugge definitivamente quello che era rimasto di una grande storia, annullando ogni residua organizzazione politica e presenza istituzionale che si rifaccia, in termini quantitativamente rilevanti, alla sinistra. Personalmente credo che quello a cui stiamo assistendo sia un grande, incomprensibile suicidio in progress. Credo che la "carta Veltroni" sia una carta buona ma anche un po' l'ultima carta a disposizione: potrebbe servire a ribaltare la situazione e sopravvivere per un po', potrebbe rivelarsi un'inutile tentativo prima della sconfitta definitiva. E forse in questo senso Veltroni avrebbe potuto cercare e trovare lumi nella lezione di Gramsci sulla formazione dei gruppi dirigenti, anche per citarlo in quel suo seguitissimo intervento nella città di Gramsci e di "Ordine Nuovo".
Una cosa mi pare certa: l'"ex Pci" non esiste più (nemmeno in formato Botteghino) e la sinistra è orfana di una rappresentanza parlamentare anche quantitativamente all'altezza della sua tradizione e delle sfide da affrontare. Allora, non possiamo chiuderci, impauriti o appagati, fra le quattro mura della nostra alterità. Qui mi viene personalmente in soccorso tanti anni di militanza nel Pci. E ricordo a me stesso e a Mantovani: noi ci occupiamo di politica per dare corpo alla rappresentanza degli ultimi, dei sottopagati, dei senzalavoro, dei senza casa, dei disoccupati, dei meno abbienti. Dare corpo a questi interessi significa - oggi più che mai - non solo enunciarli, conclamarli, gridarli, ma cercare di risolverli. La politica serve a risolvere i problemi. E quindi non debbo avere paura di sporcarmi le mani. Mi debbo porre la questione del governo. "La rottura con il governo non è un tabù". Certo, ci mancherebbe altro, ma non può tornare ad essere un tabù nemmeno la partecipazione al governo. "La vocazione del nuovo partito deve essere l'alleanza strategica con il Pd": e chi lo ha mai detto, nelle nostre file? Ma nemmeno si può dire che la nostra vocazione dovrebbe escludere a priori l'alleanza con il Pd. Condividere la "vocazione governista" del Pd? Nessuno di noi mi sembra che l'abbia mai proposto.
"Una sinistra di governo, come dice Mussi" per Mantovani "sarebbe la morte del nostro progetto più che decennale". Mantovani avrebbe ragione se quella "vocazione governista" fosse meccanicamente trasferibile dal Pd alla Sinistra Democratica e se a qualcuno fosse venuto in mente di trasferirlo anche al nuovo soggetto della sinistra. In campo, per ora c'è solo il "partito a vocazione maggioritaria", che è l'illuminante e sconfortante autodefinizione al quale sono affezionati alcuni dirigenti del Pd. Dunque è questo esplicitamente un partito di governo. Ad esso dovremmo forse opporre una forza, uguale e contraria, "a vocazione minoritaria", anti-governativa per definizione?
Io vengo dal Pci, partito di lotta e di governo. Un partito che si sforzò di organizzare le masse e difendere i diritti, e contemporaneamente di muoversi come "partito di governo", nonostante i notori divieti da guerra fredda. Ritengo che, se c'è una cosa che la sinistra non possa fare, a quasi vent'anni dalla caduta del Muro, è quella di regalare a reazionari, conservatori e "riformisti" il monopolio della "cultura di governo", dell'aspirazione e della possibilità di accedere direttamente al governo del Paese.
Come donne e uomini che vogliono, con ostinazione e coerenza, "cambiare il mondo" abbiamo il dovere, direi il compito storico, di resistere alla tentazione di una inequivocabile autocollocazione rigidamente alternativa ma minoritaria, e di operare in concreto nelle piazze, nei luoghi di lavoro, nelle istituzioni, nello stesso sistema mediatico e, se possibile, nel governo, per la redistribuzione del reddito e delle opportunità, e per un'Italia che possa fare la propria parte non a fianco ma contro una politica e un establishment internazionale che produce e si nutre di guerra e di sottosviluppo.
Liberazione 30.6.07
Caro Ramon, non sono d'accordo. Nell'appello di Bertinotti non c'è politicismo. Al contrario, indica la strada necessaria e possibile per una alternativa di società
Il socialismo del XXI secolo, sviluppo logico per Rifondazione
di Nicola Cipolla
Il compagno Ramon Mantovani ha scritto, su Liberazione di martedì 26 giugno, un articolo dal titolo: "Caro Fausto non sono d'accordo". Io non solo non solo d'accordo con i ragionamenti di Mantovani ma ritengo, come altri compagni dentro e fuori Rifondazione Comunista, che il messaggio contenuto nell'intervento di Fausto all'Assemblea della Sinistra Europea sia un grande contributo allo sviluppo logico di un'azione di "rifondazione" del partito sotto la sua guida che è cominciata con la rottura con il governo Prodi, inadempiente agli impegni presi (senza la quale io personalmente non mi sarei mai posto il problema di tesserarmi a Rifondazione pur avendola sostenuta dall'esterno) la scelta dei movimenti No Global, da Genova a Firenze, la scelta della dimensione europea che lo ha portato alla presidenza della Sinistra Europea come socio fondatore ed infine la partecipazione critica e determinante all'attuale fase di governo nel nostro paese.
L'appello rivoltoci si iscrive perfettamente in questo percorso e indica una strada necessaria e possibile per una alternativa all'attuale deriva sociale, politica e culturale dominata dalle forze neoliberiste. Il socialismo del XXI secolo è un obiettivo a cui possono lavorare «forze che vengono da storia comunista, socialista, democratico radicale, di cattolicesimo sociale, nuove culture di movimento avendo già incontrato tutte queste le grandi culture del femminismo e dell'ecologismo critico».
«L'obiettivo di un soggetto plurale ed unitario della sinistra in Europa e in Italia è irrinviabile».
«La sinistra europea può essere l'occasione per cambiare tutto ciò. Un passo cifrato lo state facendo altri più decisi passi vanno fatti». Bisogna considerare la SE «come l'apertura di una porta da spalancare verso la costruzione di una sinistra più ampia, plurale, forte in Europa e in Italia». «Per fare ciò occorre cogliere il momento, l'attesa che si produce. Non tutti i momenti sono uguali, lo sappiamo bene, se si suscita un'attesa come si sta suscitando in questo momento, allora si può organizzare un'emozione collettiva. Una forza nuova non la si fa soltanto con la ragione ma con la passione… ».
Questa è l'essenza del messaggio. Come si fa a parlare di una mossa politicista, oppure come si fa a dire che oltre a Rifondazione non c'è quasi nulla? Alla prima conta delle adesioni il movimento promosso da Mussi si presenta forte di personalità certamente non accusabili di politicismo come Giovanni Berlinguer, Giulietto Chiesa, Pasqualina Napoletano e Claudio Fava del Parlamento Europeo. Mi ha fatto meraviglia che persino Angius abbia rinunciato a partecipare alla formazione del Partito Democratico e abbia aderito a questa nuova formazione della sinistra. Per chi, come me, ha vissuto la lotta politica interna al Pci da posizioni di sinistra ed ambientaliste l'adesione a questa formazione politica di personalità come Fulvia Bandoli, lo stesso Mussi mi ricordano la grande battaglia ambientalista contro il nucleare condotta contro la maggioranza della direzione e con l'appoggio della stragrande maggioranza degli iscritti al Congresso di Firenze. Ma il distacco dall'avventura del Partito Democratico non riguarda soltanto i compagni che provengono dall'esperienza della sinistra del Pci; riguarda anche, come nel caso di Claudio Fava, nuove acquisizioni del Pds di personalità autonome con forti legami di massa cementati in lunghe battaglie contro la mafia e il consociativismo, per la pace (Sigonella), per l'ambiente. Questi legami gli hanno permesso di superare all'interno della lista unitaria DS-Margherita, alle elezioni europee, sia i candidati della destra della Margherita sia quelli della Cisl. Ma è forte anche il radicamento nel sindacato. In Sicilia hanno aderito alla formazione di Mussi anche dirigenti sindacali come la segreteria regionale della Fiom e il segretario regionale della funzione pubblica e tantissimi altri dirigenti della Cgil, il che può consentire alla nuova formazione unitaria della sinistra un rapporto con il mondo sindacale che si era, nella nostra Isola specialmente, quasi vanificato. Del resto dal mondo sindacale in Sicilia viene anche il deputato regionale Cantafia che fino a pochi mesi, prima delle elezioni regionali, dirigeva la Camera del Lavoro di Palermo la più grande struttura sindacale dell'Isola. Ma anche tra i Comunisti Italiani nella mia regione esistono forze decisive per il rinnovamento, a cominciare da Rosario Crocetta, sindaco di Gela (la quinta città della Sicilia, centro industriale dominato nel bene e nel male dall'Eni di cui lo stesso Crocetta è dipendente), che ha vinto nelle ultime elezioni con il 65% dei voti in virtù di una grande lotta di massa contro la mafia che ricorda il coraggio e lo spirito di Li Causi e di Pio La Torre (Crocetta vive una vita blindata per le minacce alla sua vita più volte manifestatesi). Ed anche nel settore dei Verdi si sono avute significative affermazioni nel trapanese e soprattutto ad Agrigento città dove il candidato dei Verdi si è presentato alle elezioni amministrative in contrapposizione sia con il candidato delle destre sia con il sindaco Zambuto fuoriuscito dalla CdL e appoggiato dalla Margherita e dai Ds. L'11% abbondante ottenuto nella prima tornata ha permesso poi nel successivo ballottaggio di sconfiggere in modo determinante il candidato delle destre. In Sicilia Rita Borsellino ha rinunciato all'invito di partecipare alla direzione del Partito Democratico ed anche Orlando ha una posizione fino a questo momento interlocutoria. Invece l'effetto positivo delle prime mosse unitarie a sinistra a livello nazionale: l'Assemblea dei 150 parlamentari lo si avverte in Sicilia anche in alcune manifestazioni recenti di lotta. Un esempio: è stato facile a Legambiente, Wwf e al Cepes di Palermo convocare in tre giorni in questa afosa stagione una grande assemblea per protestare contro il via libera dato da Prodi a Cuffaro per gli inceneritori in Sicilia già oggetto di una lunga resistenza popolare che ha visto uniti cittadini ed anche amministrazioni comunali con risultati positivi che già cominciano a vedersi ad esempio contro l'inceneritore di Casteltermini.
A questa assemblea erano presenti non solo i militanti delle organizzazioni ambientaliste e di sinistra e dei centri sociali di Palermo e rappresentanti del sindacato ma anche parlamentari nazionali di Rifondazione, dei Verdi e della Sinistra di Mussi e Rita Borsellino che hanno deciso di svolgere un'azione comune anche attraverso la Commissione Parlamentare di Inchiesta sui rifiuti. Questa iniziativa si collega con l'altra promossa dai sindacati contro la beffa del sindaco Cammarata che all'indomani delle elezioni ha fatto recapitare ai cittadini di Palermo le bollette della Tarsu aumentate come minimo del 75% con migliaia di errori che superano questa stessa percentuale e che promuoveranno assieme ai movimenti ambientalisti una manifestazione il 2 luglio al momento dell'insediamento del Consiglio Comunale palermitano.
Certo le prime iniziative politiche unitarie che già si svolgono a livello nazionale facilitano enormemente lo sviluppo delle azioni unitarie di base. Ma questo non basta di fronte alla minaccia di un accordo bipartisan per modificare il sistema elettorale italiano secondo i modelli americano e francese estranei alla cultura del nostro continente e soprattutto alle tradizioni proporzionaliste della sinistra socialista da Erfurt in poi e dello stesso movimento popolare cristiano che renderebbe molto difficile se non impossibile la presenza di un arco di forze imponenti (tutti parlano di un 15% dell'elettorato a sinistra del Partito Democratico) dentro le istituzioni parlamentari italiane. Non basta rinviare tutto ad un accordo puramente elettorale, questo sì politicista, che non permetterebbe neanche la sommatoria dei voti delle singole minuscole formazioni.
Anche qui l'esempio della Sicilia è purtroppo illuminante. Tre anni fa, due anni prima della scadenza della legislatura regionale, cominciarono le grandi manovre tra Cdl, destra Ds e Margherita per introdurre in Sicilia vincoli tali da eliminare all'Ars, con lo sbarramento del 5% a livello regionale, le forze di sinistra; Rifondazione, Comunisti Italiani e Verdi. Invece di rispondere subito con un accordo politico forte ci si ridusse all'ultimo momento a costituire liste con contrassegni sconosciuti, assieme a forze politiche chiaramente estranee allo schieramento di sinistra e persino equivoche. Questa improvvisata formazione prese nelle elezioni regionali meno voti di quelli che un mese prima alla Camera ed al Senato la sola Rifondazione aveva ottenuto in Sicilia con il suo simbolo e con il suo collegamento con le scelte politiche nazionali. Alle elezioni nazionali, un mese prima, Rifondazione, Comunisti Italiani e Verdi avevano ottenuto ben più del 7% e quindi avrebbero potuto validamente e da soli unite tempestivamente in un programma ed una formazione comune superare facilmente l'ostacolo del 5%. Ma non c'erano le condizioni politiche perché ancora durava l'ostracismo dei gruppi dirigenti siciliani del Prc nei confronti dei Comunisti Italiani e soprattutto dei Verdi, rei di avere accolto nelle loro file elementi che erano stati per motivi amministrativi allontanati dal partito della Rifondazione Comunista.
Con la formazione della Sinistra Democratica di Mussi, che in Sicilia ha ottenuto percentuali congressuali superiori alla media nazionale, ora la situazione è profondamente cambiata direi in meglio. Anche sulla base di questa esperienza occorre fare presto a costituire una formazione politica unitaria capace di accogliere tutte le componenti della sinistra. Bertinotti dice che «l'obiettivo di un soggetto plurale ed unitario della sinistra in Europa e in Italia è irrinviabile». In Sicilia, per le sue caratteristiche, avrebbe dovuto essere avviato almeno tre anni fa. Del resto il discorso di Veltroni e il suo elogio del sistema francese e le accoglienze positive che questo discorso ha avuto da parte di Luca di Montezemolo spingono non già a confronti congressuali interni ed a nuove divisioni ma ad una azione comune per far sì che di questo necessario processo di unità a sinistra Rifondazione sia con tutti i suoi militanti all'altezza del momento, dei pericoli e delle opportunità che oggi si presentano al nostro movimento ed a tutta la sinistra.
Liberazione 30.6.07
Siamo tutti cittadini uguali, la questione di genere non c'è come ogni conflitto
Walter e la sintesi dei contrari ovvero come il leader tiene a bada le donne
di Lea Melandri
In un articolo pubblicato su L'Unità col titolo "Due o tre cose che vorrei dire al candidato Veltroni", Vittoria Franco scriveva: "L'obiettivo ambizioso, e per noi irrinunciabile, è forgiare un partito di donne e uomini, un partito segnato dalla presenza femminile, presenza numerica e culturale, di contenuti e proposte. Per la prima volta cofondatrici del nuovo Partito". E aggiungeva: "Vogliamo partecipare, avere voce, influenza… portiamo in dote un patrimonio enorme di competenze, di capacità amministrative, di concretezza. Non è rivendicazionismo ma affermazione del principio di cooperazione fra i generi nella costruzione della democrazia".
Le metafore che si usano per esprimere un'idea non sono mai casuali, e le parole "dote", "cooperazione", "competenza" sono inequivocabilmente legate a quel "matrimonio dei contrari" -intelligenza/sensibilità, teoria/pratica, ecc. - o se si preferisce, a quella "alleanza tra i sessi" di cui aveva scritto Ratzinger prima di diventare Papa, indicandola come fondamento "naturale" della famiglia. L'idea di un "patto" tra uomini e donne, capace di conciliare uguaglianza di diritti e "differenze" psicologiche, culturali tra loro complementari, non è certo estranea al femminismo, così come la certezza di poter essere, per una politica in crisi, una "forza di innovazione". Far riconoscere nella loro valenza positiva attitudini ritenute tradizionalmente segno dell'inferiorità femminile, ha costituito, rispetto al conflitto tra i sessi e alla radicalità con cui si è espresso negli anni '70, un'uscita di salvezza, una specie di quadratura del cerchio - quello che, con un ossimoro veltroniano, si potrebbe definire un orientamento "che non nasce dal nulla, ma che è del tutto nuovo", un modo per "conservare innovando".
Non c'è perciò da meravigliarsi se nel discorso con cui ha proposto la sua candidatura alla guida del Pd a Torino, Veltroni ha potuto, con inattesa brillantezza, inaugurare il suo "meraviglioso viaggio collettivo" all'insegna di una compagnia paritaria di uomini e donne, una faticosa conquista femminile, è vero, ma assunta e concessa paternalisticamente da chi sa di poter contare ancora a lungo sul consenso a rappresentazioni del mondo e della politica prodotte storicamente dal sesso dominante. Se questa è la risposta alla richiesta di "democrazia paritaria", che viene oggi da più voci del femminismo, credo sia necessario sgombrare il campo dagli equivoci che una formulazione riduttiva del "50 e 50" può avere indotto, facendola passare come la strada di una possibile pacificazione o ricongiungimento dei due rami divisi dell'umanità, la forza rigeneratrice che le donne non hanno mai mancato di dare al "triste fratello" nei passaggi più difficili della sua storia privata e pubblica.
Un riconoscimento fatto dall'alto e smentito nei fatti dall'assenza di candidature femminili alla guida del Pd - fatta eccezione forse per Rosy Bindi, contraria al 50 e 50, ma non alla valorizzazione delle capacità femminili - conferma quanto si poteva temere: l'indisponibilità di molti uomini a mettere in discussione il fondamento sessista della politica, nel momento in cui si limitano ad "aprirsi" a nuovi soggetti.
E non è un caso che nel discorso di Veltroni le donne vengono associate a "giovani", "cittadini", "movimenti", "federalismo". Se la pòlis , con le sue istituzioni, i suoi saperi, resta quella che si è costruita storicamente sul dominio di un sesso solo, la cittadinanza piena concessa al sesso escluso non è che la conferma dell'esistente e può approdare all'esito opposto: togliere la parola a chi non si riconosce in questo tipo di "integrazione".
La presenza numerica paritaria risponde a un principio elementare di civiltà, è l'applicazione dell'articolo 51 della Costituzione italiana, che, come tale, non avrebbe dovuto comportare umilianti trattative di "quote". Ma la «presenza culturale, di contributi e proposte», di cui parlava Vittoria Franco nel suo articolo, richiede una ridefinizione ben più radicale dell'economia, della politica, del rapporto tra privato e pubblico, tra individuo e società. Ha bisogno, prima di tutto, che si faccia luce sul razzismo inconsapevole che ancora impedisce alla cultura dominante, nel nostro Paese in particolare, di vedere le donne come persone, corpi pensanti, esseri dotati di volontà, responsabilità, capacità intellettuali e morali. Il divario tra uomini e donne passa fondamentalmente attraverso la divisione dei ruoli sessuali, la considerazione del lavoro di cura come "naturale"donatività femminile, l'esercizio acrobatico per conciliare casa, figli e lavoro esterno come problema riguardante le politiche famigliari; passa vistosamente attraverso la violenza di cui le donne sono vittime quotidianamente, sia quando vengono maltrattate o uccise, sia quando sono costrette a subire, vergognandosene, le conseguenze di una sessualità imposta: è il caso dell'aborto.
Ma di tutto questo, nel lungo discorso di Veltroni, pur così "generoso" di elargizioni all'altro sesso, non c'è traccia. La questione "donne" si potrebbe tranquillamente espungere e trattare a parte, collocata com'è nell'incipit e nel finale, due inserti ad effetto a cui non fa seguito nessuna implicazione, come se, accolto l'ospite alla propria tavola, i commensali riprendessero a parlare dal punto in cui ero rimasti. Come si può prendere sul serio l'affermazione di apertura - che l'«irruzione della soggettività femminile» sarebbe «un'esperienza decisiva» per il neonato partito democratico -, quando tutto il corposo panorama della «grande forza riformista» descritto dal suo aspirante leader parla una lingua ineccepibilmente neutra? Dopo la breve apparizione iniziale, e subitanea scomparsa, le donne riemergono in chiusura, trasformate in "esempio" o "parabola" edificante, una forma di riconoscimento a cui non aveva resistito nemmeno il Presidente della Repubblica nel suo saluto di fine anno. Veltroni racconta di una giovane amica che avrebbe espresso la volontà, due mesi prima della morte, avvenuta a soli 15 anni, di adottare un bambino africano, colpita dal sapere che in molti paesi del mondo i bambini muoiono di povertà e di fame, e non solo di malattia.
Solo la sottile misoginia che passa talvolta inavvertita sotto le apparenze di una compassionevole celebrazione, poteva associare la "differenza femminile" - come elogio della sensibilità, dell'abnegazione, delle doti sacrificali della donna - alla morte prematura di una adolescente.
Ma, a guardare bene, non è così vero che il "matrimonio dei contrari", nella visione veltroniana della politica, riguardi solo il rapporto tra i sessi. Nel tentativo di tenere insieme realtà che si contrappongono in modo evidente, la figura retorica che viene ripetutamente in soccorso è la "sintesi". «Non per furbizia» - si affretta a dire Veltroni -, ma per sincero amore del dialogo, dello scambio, del rispetto reciproco. E' così che, per "voltare pagina", mettere a tacere insulti, logiche di guerra, scontri violenti, si finisce per bandire la conflittualità tout court. E quella che si dipana nel lungo affresco del programma riformista è una sequenza fatta di accoppiamenti immaginari - lotta alla povertà senza toccare la ricchezza, "libertà e giustizia sociale", "integrazione e legalità", "multiculturalità e sicurezza", "ambientalismo e conquiste tecnologiche", lavoratori precari e imprese, accoglienza e rigore, giovani e anziani - sintesi di facciata messe a copertura di un pragmatismo fatto di certezze molto meno favolistiche e seduttive: l'impresa, il mercato, la crescita economica, la sviluppo tecnologico, la mobilità sociale verso l'alto lasciata al talento individuale e a qualche benevola "opportunità", la stessa "pari opportunità" che permetterebbe oggi alle donne di entrare nella grande "casa" pubblica degli uomini.
Liberazione 30.6.07
Il problema non è l'"oltre" ma il "come" si lavora all'unità a partire da noi
Prc, che fare? Cambiare l'ordine del discorso e uscire da sé senza perdersi
Stiamo attraversando un momento difficile; lo sta attraversando il nostro paese, le nostre città, la sinistra, i movimenti, noi. Soprattutto la politica.
Siamo di nuovo di fronte a un "che fare" che ci incalza e a cui dobbiamo rispondere con quanta più chiarezza ed efficacia possibili. Lasciamo, per brevità, il campo delle complesse analisi sociali e delle elaborazioni culturali e limitiamoci ad alcune problematiche che sono entrate con forza nel nostro dibattito e che, se non affrontate con chiarezza, possono farci perdere la bussola.
Crisi della politica
E' il tema più accattivante e insidioso, uno schermo che può coprire le cose negative più diverse ma anche offrire alla vista le opportunità del presente: per esempio l'occultamento di responsabilità politiche individuali e collettive di cui non si voglia più dar conto ai soggetti di riferimento oppure la voglia di scorciatoie politicistiche, ricercate per far fronte alle dinamiche che attraversano oggi tutti i ceti politici e spiazzano la scena pubblica. O, ancora, l'autoreferenzialità e l'autotutela dei gruppi e delle lobby di potere e altro ancora. Ma anche l'occasione per guardare al futuro con rinnovata passione politica, con libertà di giudizio e di ricerca, scoprendo e sperimentando nuove pratiche e nuove dimensioni dell'agire politico, nuove relazioni tra i soggetti, i luoghi del conflitto, le idee di cambiamento, stando dentro ai processi di liberazione e libertà umana nell'epoca della globalizzazione.
Niente si inventa dal niente e i vizi tipici dei ceti politici, ma anche dei gruppi dirigenti più responsabili, nell'epoca dell'esposizione mediatica fine a se stessa, non troverebbero soluzione invocando i rischi epocali di una nostra dispersione e/o ininfluenza. Possono, debbono quelle forze - noi per primi - fare tutto il possibile per lavorare e sperimentare insieme, per unire le risorse con pratiche innovative che non ci imprigionino di nuovo nelle trappole dell'appartenenza, nelle filiere dell'autotutela così tipiche dei ceti politici in crisi, condividendo invece con coraggio scelte e responsabilità. Ma, anche, lavorando col senso del limite e il realismo dell'esperienza, che ci fanno dire che oggi bisogna certo aprire percorsi e avviare processi, e compiere anche tutte le forzature possibili ma sottraendoci a ogni retorica dell'unità salvifica del "fare in fretta", e dunque senza disperdere risorse e patrimoni, coinvolgendo tutte e tutti e verificando con attenzione tutte le difficoltà sul cammino prima di compiere un altro passo.
L'oltre, il come e il dentro
Non ci aiuta per esempio la retorica dell'"oltre". "Oltre" tutto - il ‘900, le forme della politica, la rappresentanza democratica - e oggi, si parva licet, per qualcuno oltre Rifondazione. Il problema non è l' "oltre" ma oggi il "come" Rifondazione nei mesi che abbiamo di fronte possa contribuire al meglio delle sue forze e della sua esperienza al processo di unità a sinistra. Proponiamo di contrastare la retorica dell'oltre, sperimentando, nella ricerca e nella sperimentazione dei percorsi unitari, la pratica del "dentro" le cose, fatta con spirito di osservazione, di ascolto, di intelligenza, come ci viene da alcune delle esperienze più vive della nostra vicenda politica, dei movimenti altermondialisti, della storia delle donne.
Cogli l'attimo?
La scelta dei Ds di costituire il Partito Democratico ha liberato alcune importanti energie, donne e uomini che hanno scelto di stare a sinistra. E' importante costruire con loro e con tutti i soggetti che si richiamano alla sinistra (anche senza aggettivi) un confronto molto stretto, un programma di azione unitaria, non solo a livello parlamentare, ma sia a livello nazionale che nelle regioni, con iniziative politiche e programmatiche, un percorso vero, democratico, senza scorciatoie politicistiche. A volte l'ansia di cogliere l'attimo fuggente può essere causa di corta visione, persino di strabismo. Meglio cogliere l'occasione e costruire le condizioni perché non si esaurisca o rimanga inerte.
Un governo così così? Fino a quando?
Abbiamo scelto di far parte di un governo eletto sulla base di un programma condiviso, in maniera più o meno convinta, da una coalizione. Questo governo è condizionato, all'esterno e all'interno, da forze disgregatrici che tirano a destra l'impostazione politica e programmatica.
A fronte di alcuni innegabili risultati concreti, ci sono grossi rischi: inefficacia, confusione, diminuita autorevolezza e credibilità, sia sul terreno delle condizioni materiali dei settori sociali meno abbienti, sia sui diritti e le libertà individuali (con i condizionamenti pesanti del "partito del Vaticano"), sia sul terreno della cosiddetta sicurezza ( a questo riguardo, amministratori eletti col nostro voto vorrebbero città blindate, chiuse a migranti e persone in disagio), sia infine sul terreno della partecipazione alle cosiddette missioni militari e della militarizzazione del territorio.
Non è indifferente, per noi e per gli impegni unitari che dobbiamo sviluppare con il resto della sinistra radicale, chiederci e chiedere: come, perché, con che pratiche di ascolto e verifica "dentro i sentimenti popolari" possiamo continuare a essere parte di questo governo?
E noi?
Il nostro partito è immune, per la grande maggioranza, da intrallazzi; non è immune dalla corsa alle istituzioni e dalla tenace ambizione a restarvi.
La Conferenza di Carrara è stata impostata con un documento che elencava molte manchevolezze e difetti. Si aggiungano la scarsa democrazia interna, la vita di partito dominata dalle cariche istituzionali, anzi gli incarichi dirigenziali nel partito per lo più considerati tappe per raggiungere le istituzioni. Giacché si conta se si appare. E' come se esistesse una lista d'attesa in cui gli uomini del partito - in una visione tutta patriarcale della politica , da cui talvolta non siamo immuni nemmeno come donne - si sostengono a vicenda in attesa dei turni.
Innovare, innovare
Occorre porre mano ad applicare i deliberati di Carrara, innovare e cambiare, incidere sulla forma partito ancora burocratica e gerarchica, tutta maschile nelle pratiche, con investiture dall'alto: spesso luogo di scontri di potere all'ultimo sangue. Rendere trasparente e sottoporre all'attenzione pubblica una scelta di questo genere, l'impegno a tutti i livelli del partito per un passo così importante di rinnovamento, sarebbe un contributo essenziale anche al processo unitario a sinistra che ha bisogno come dell'aria di contenere e sconfiggere le logiche da ceto politico che l'attraversano.
La formazione della Sinistra Europea è una grande occasione: il confronto permanente con associazioni e movimenti, reti nazionali e nodi locali, problemi del territorio e questioni internazionali, ci aiuta nello scambio con pratiche lontane dalle nostre, con soggetti con cui abbiamo in comune la convinzione che un altro mondo è possibile e dipende da tutti e tutte pensarlo, costruirlo, praticarlo a partire dalle nostre vite, dai nostri corpi, dalle nostre relazioni.
Un grande impegno
La Sinistra Europea è un nostro impegno, anche alla luce dell'esito positivo della grande assemblea del 16-17 giugno, un vero e proprio successo ancora più significativo dopo l'amaro esito delle elezioni amministrative e il tragico errore della piazza anti-Bush del 9 giugno. Errore di autosufficienza, di separatezza, di automoderazione. Stare nei movimenti, senza cedere ai calcoli politicistici delle convenienze di governo e dei condizionamenti dell'establishment: questa deve essere la nostra pratica costante, a cominciare dal grande sussulto di laicità e libertà del Gay Pride, ai movimenti che chiedono un pianeta libero da speculazioni, fame, miseria, guerre, ai movimenti delle donne.
Ma andiamo all'oggi
E' in atto un tentativo strisciante di cancellare e liquidare Rifondazione Comunista, la sua storia, la sua ricerca, la sua sperimentazione, con le sue contraddizioni, le sue aperture ad esempio sulla nonviolenza e sulla democrazia di genere. E' in atto un processo, ora dichiarato, ora camuffato, di chiudere questa esperienza nell'archivio delle residualità del '900.
Riteniamo che questi tentativi vadano criticati e, dove necessario, fermamente contrastati a tutti i livelli, dai gruppi dirigenti nazionali e quelli territoriali. Subito, per tempo. Soprattutto ci sembra arbitrario qualsiasi uso proprietario, privatistico, personale di questo luogo politico che è davvero un bene comune e non può dipendere dalle opzioni di questo o quell'esponente politico del partito.
Si aprirà a breve la fase congressuale, che immaginiamo dura e difficile: non intendiamo affrontarla in termini identitari, difensivi, conservativi. Quando parliamo di identità, non parliamo di dogmi o ideologie, parliamo di un punto di vista di analisi e letture dei processi sociali, materiali, simbolici. Insomma di uno sguardo sul mondo diverso, di quell'anomalia che Rifondazione ha rappresentato nel quadro politico italiano ed europeo e che rende oggi possibile mettere in cantiere l'ambizioso progetto dell'unità della sinistra radicale.
Intendiamo mantenere aperta la rifondazione comunista come parte integrante, per tutto il tempo che sarà necessario, della più generale impresa di rifondazione della sinistra, contrastando i tentativi di rottamare la nostra storia e il nostro presente in una sorta di vuoto presentato come "sfida", una sorta di dissoluzione per consunzione, per esaurimento di ruolo, per scarsa utilità, appunto la dismissione. "Uscire da sé senza perdersi" intitolammo un documento del 2006.
Continuiamo a pensare che occorra uscire da sé, e in molte l'abbiamo fatto e lo facciamo, ma che appunto non bisogna perdersi. E, per non perdersi oggi nella morta gora dei calcoli e dei giochi politici che non portano da nessuna parte che interessi veramente la stessa prospettiva di una nuova sinistra, bisogna intanto cambiare l'ordine del discorso: Rifondazione Comunista è utile, anzi è necessaria.
La prospettiva unitaria e il forte impegno che la rifondazione della sinistra richiede hanno assoluto bisogno di Rifondazione Comunista, della sua forza organizzata, dei suoi nuclei territoriali, di quella ricerca teorica e sperimentazione innovativa che sta procedendo ancora troppo faticosamente, anche per incertezze di prospettive, ma a cui dobbiamo dedicarci con sempre maggiore cura se davvero vogliamo contribuire a partire da noi alla nuova impresa.
Prime firmatarie
Imma Barbarossa, Elettra Deiana, Titti De Simone, Rita Corneli, Stefania Brai, Daniela Dioguardi, Linda Santilli, Eleonora Forenza
l’Unità 30.6.07
Per la prima volta nel ’61 divenne pubblico il tema delle responsabilità togliattiane nelle purghe contro gli italiani
Così si chiudono i conti con la storia
di Roberto Roscani
Era il 10 novembre del 1961. A Mosca era finito da poco il XXII congresso del Pcus. No, non il XX, quello famoso del rapporto segreto di Krusciov e dell’emergere in piena luce dei crimini staliniani. Eppure quel successivo e meno ricordato XXII congresso poteva essere ancora più esplosivo almeno per le sorti del Pci. Infatti quel 10 novembre del 1961 il caso esplose dentro all’austero e di solito riservatissimo comitato centrale. La questione esplosiva era proprio la sorte di centinaia di comunisti italiani e i esuli antifascisti finiti nei gulag insieme a milioni di russi. Il tema più controverso era il ruolo del partito e quello di Togliatti. Esplose nelle stanze di Botteghe Oscure il caso di Paolo Robotti, operaio torinese genero e collaboratore strettissimo di Togliatti finito anche lui nelle mani Kgb e ripreso per i capelli prima che finisse in un campo in Siberia. Togliatti non mosse un dito per Robotti, e forse Robotti era stato arrestato per colpire indirettamente Togliatti. Quella storia venne raccontata per la prima volta in quell’assemblea e fu pubblicata sull’Unità stavolta clamorosamente senza i freni e autocensure..
Era una grande occasione: le carte erano in tavola, il partito spaccato, Amendola all’attacco di Togliatti e l’ingraiano Natoli che chiedeva il congresso straordinario. Il comitato centrale fu chiuso da Togliatti. Ma quel discorso (caso unico nella storia del Pci) non venne mai pubblicato, non ve n’è traccia neppure all’Istituto Gramsci tra le carte di allora. Conteneva - per quel che sappiamo dai testimoni - una rivendicazione del suo ruolo negli anni duri. Dentro c’era anche qualche minaccia politica: se volete fare un partito antisovietico allora io ne farò uno mio. Disse più o meno.
Ecco, oggi a Levashovo, Piero Fassino è andato a chiudere quella storia. Il muro non c’è più da 18 anni, l’Urss è un ricordo, il Pci chiuse la sua vicenda nell’inverno del 1991. In questi anni molti conti son stati fatti, tanti giudizi cambiati, tanti errori rivisti. Fassino a San Pietroburgo rende omaggio agli italiani (comunisti e antifascisti, esuli in quella Russia che doveva essere il paradiso dei lavoratori e che divenne la loro prigione e la loro tomba) uccisi e riconosce le colpe e le responsabilità »della delazione dei loro stessi compagni e della colpevole connivenza di quei dirigenti che - pur autorevoli come Togliatti - non ebbero il coraggio di sfidare la macchina oppressiva della dittatura». No, certamente Togliatti quel coraggio non l’ha avuto anche se nella Mosca degli anni Trenta, nel cima avvelenato delle purghe, quel coraggio non lo ebbero in molti. Fassino chiude quel capitolo non senza ricordare chi «non si sottrasse alla propria responsabilità morale e politica. Tra chi non si piegò anche Antonio Gramsci che si battè per sottrarre i suoi compagni ad un destino tragico». È la storia di Gino De Marchi amico di Gramsci ingiustamente accusato di essere una spia e scagionato dallo stesso fondatore del Pci, ma poi ucciso nelle purghe.
Qualcuno si chiederà perché Fassino abbia voluto compiere anche quest’ultimo passo. Mancano cento giorni più o meno alla data di nascita del Partito democratico che sarà - formalmente o meno - anche la data che chiuderà la storia dei Ds. Tra cento giorni non ci sarà più il partito che - con tutte le sue rotture - porta l’eredità nella storia italiana del Pci. Questa era in qualche modo l’ultima occasione per rendere omaggio a quegli italiani uccisi dallo stalinismo e di distinguere tra chi ebbe il coraggio e chi no. Veltroni l’altro giorno al Lingotto ha parlato del Pd come di un partito non ideologico. Nuovo, come spogliato di ogni storia che può permettersi di non esser mai estremista o moderato per legittimarsi. Fassino prima di passare al partito nuovo che fortissimamente ha voluto compie un gesto che chiude, senza lasciare nodi irrisolti alle spalle, la storia dei Ds.
il manifesto 30.6.07
Titti Di Salvo, di Sd: «Accelerare? Non si può puntare solo alla somma di quel che c'è. Partiamo dal territorio e dai fatti concreti»
«No ai recinti. Unire la sinistra compreso lo Sdi»
di Micaela Bongi
L'inizio dell'era Veltroni, il segretario di Rifondazione, Franco Giordano, che preme sull'acceleratore dell'unità a sinistra proponendo un'assemblea a luglio con vertici dei partiti, sindacati, associazioni e movimenti. E la Sinistra democratica di Fabio Mussi come risponde? La capogruppo a Montecitorio di Sd, Titti Di Salvo, rilancia la proposta fatta alla riunione del 23 giugno: una fondazione di tutte le sinistre, compreso lo Sdi.
Giordano, che punta anche a un simbolo comune per le amministrative del 2008, non vi convince?
Noi abbiamo proposto una fondazione per rielaborare la cultura politica della sinistra. L'interpretazione critica del passato è la parte più semplice. Più complicato è interpretare e proporre strategie in un mondo profondamente cambiato. Noi nasciamo per contribuire a cambiare l'Italia. Per essere una sinistra di governo. Di fronte all'accelerazione rispondiamo che siamo nati proprio per unire la sinistra, è nei nostri geni Ma occorre una profonda elaborazione politica, non si può semplicemente puntare alla somma di quel che c'è. La nostra scelta è quella di fare massa critica insieme ad altri su appuntamenti decisivi come il Dpef, la precarietà... Con lo Sdi abbiamo deciso di non partecipare alla conferenza del governo sulla famiglia. Insomma, scelte operative avendo chiaro l'obiettivo. Scegliamo il terreno del fare. La proposta di Giordano è più generale: mettere insieme nel giro di 15 giorni una serie di soggetti.
Ma lancia l'assemblea per avviare una campagna sui contenuti.
Sì, ma noi percorriamo un'altra ipotesi, che punta ai fatti concreti. Quello che dice Giordano ha più significato se parte dal territorio. A livello nazionale ha controindicazioni in più, è una soluzione più fredda. Noi abbiamo scelto concretamente di lavorare all'unità della sinistra, ma anche con lo Sdi sulla laicità per dimostrare che ci interessa una unificazione della sinistra seria.
Al vostro interno si discute se privilegiare il rapporto con lo Sdi o con Prc, Pdci e Verdi. Bertinotti dice che la candidatura di Veltroni alla guida del Pd favorisce la nascita della Cosa rossa e da Sd Angius risponde che la Cosa rossa non esiste...
Io penso che la Cosa rossa sia uno slogan giornalistico utilizzato contro la potenzilità politica e culturale di un soggetto nuovo. La sinistra non ha recinti. Noi pensiamo a un movimento popolare, aperto, largo. Lo Sdi dovrebbe chiarirsi, ma non è questo il punto. Il nostro progetto non può essere tirato come un elastico, non ci sono due poli, lo Sdi da una parte e il Prc dall'altra con la Sinistra democratica che deve decidere se ingrossare una cosa o l'altra. Si dice che dopo la candidatura di Veltroni bisogna accelerare. Io dico fare presto, ma anche bene. Naturalmente il Pd è interlocutore e alleato di questa proposta politica.
Ma allora, l'assemblea di metà luglio non vi interessa?
La proposta è stata letta con interesse, naturalmente. Valuteremo, senza chiusure. Riconosciamo la volontà di mettere sul terreno un altro fatto politico rispetto al Pd, includendo anche altri soggetti, non solo i quattro partiti della sinistra. L'intenzione è positiva, ma appunto credo che il processo sarebbe ancora più positivo a livello territoriale.
Parli dei fatti concreti. Come la lettera dei quattro ministri sulla politica economica. Ma se Prc e Pdci ripetono che lo scalone va abolito, Mussi è apparso più possibilista sull'allungamento dell'età.
In quella lettera c'è scritto che si deve trovare l'accordo con il sindacato. La proposta messa sul tavolo quando si è rotto, quella dei 58 anni con tre anni per sperimentare, è importante. 58 anni è l'età in cui realisticamente si va in pensione.
Hai detto che il Pd è interlocutore e alleato. Veltroni, a Riotta che gli ha chiesto se la sinistra sarà scaricata, ha risposto che le coalizioni si formano in ragione degli assetti istituzionali e se la legge elettorale consentirà di scegliere coalizioni omogenee, si potrà vedere.
Ah. Non corrisponde a quanto ha detto al Lingotto. In ogni caso la sinistra avrà un riconoscimento elettorale molto alto. Non penso si potrà prescidere dalla sinistra.
Veltroni alla guida del Pd vi preoccupa? Potrebbe attirare anche una parte di Sd o dei suoi elettori.
Ha carisma, una capacità di ascolto che lo rende un dirigente politico apprezzato da tutti. Intrepreta nel modo migliore il Pd, è il leader autentico per un progetto moderato. Il Pd non sceglie sulla laicità, e non scegliendo sceglie. Non sceglie sul lavoro e sul socialismo europeo. Veltroni resta un interlocutore importante.
Potrà essere anche il leader dell'Unione?
Il leader non lo sceglie il Pd, lo scelgono le primarie. Naturalmente Veltroni ha un profilo che gli consente di esserlo.
Repubblica 30.6.07
Sinistra e Cgil di fronte al bivio
di Eugenio Scalfari
Il Veltroni-day di mercoledì scorso, il Dpef di giovedì, la trattativa sullo «scalone» e l´età pensionabile ancora in bilico, il livello di gradimento del Partito democratico subito dopo la candidatura del sindaco di Roma, la deposizione di Vincenzo Visco, accusato dal generale Speciale di abuso d´ufficio, dinanzi alla Procura di Roma: tanti fatti politici (anche l´imputazione del viceministro delle Finanze lo è) raccolti in un brevissimo arco di giorni dimostrano che la politica è in pieno movimento e non è affatto andata in ferie. E dimostrano un´altra cosa ancora, di notevole importanza, e cioè che l´agenda dei temi in discussione non è più – come da qualche tempo era – nelle mani dell´opposizione ma è ritornata in quelle del governo e della maggioranza: risultato importante per il centrosinistra che tra l´altro tre giorni fa ha colto un´altra vittoria al Senato nella votazione delle mozioni sulla politica fiscale.
Siamo forse arrivati a quella famosa «svolta» tanto auspicata dopo un anno di caduta del consenso, di inarrestabile impopolarità di Prodi e di Padoa-Schioppa, di secessione politica del Nord e di recupero del berlusconismo tra i ceti produttivi sempre più tentati dalla scelta – eversiva negli effetti se non nelle intenzioni – dello sciopero fiscale?
È ancora presto per dare la svolta come avvenuta. Gli ultimissimi sondaggi, effettuati dopo l´accettazione di Veltroni della candidatura a segretario del costruendo Partito democratico, registrano un robusto segnale positivo nelle intenzioni di voto verso il nuovo partito ma contemporaneamente un crollo ulteriore del consenso nei confronti del governo, disceso ad un livello minimo. È vero che si tratta di sondaggi effettuati prima dell´approvazione del Dpef, ma il giudizio negativo del campione interrogato (i dati compaiono oggi su questo giornale) è di tale severità da render quantomeno impervio il cammino della ripresa e quindi l´efficacia della svolta.
Il percorso sarà dunque ancora per lungo tempo in salita. La tenuta del governo e l´arrivo in campo di Veltroni sono due elementi strettamente interconnessi che non possono fare a meno l´uno dell´alto. Al di là delle intenzioni dei protagonisti questo reciproco condizionamento è un dato oggettivo che dev´esser tenuto ben presente da tutti gli interessati. Ogni errore ed ogni scarto da questo strettissimo sentiero di recupero della fiducia collettiva potrebbe esser fatale; ogni iniziativa che non tenga conto di quel legame rischia di far deragliare il convoglio che si è faticosamente rimesso in moto. Protagonisti e comprimari debbono sapere che non c´è più spazio per improvvisazioni, per retropensieri, per ricerche di visibilità e per fughe in avanti o all´indietro.
Il centrosinistra può recuperare la sua forza iniziale soltanto se sarà compatto; altrimenti cadrà in tutte le sue componenti, nessuna delle quali scamperà dal naufragio.
* * *
Berlusconi ha definito il programma esposto da Veltroni dalla tribuna del Lingotto un "compitino"; Fini, Casini e Bossi un libro dei sogni. Tutti e quattro hanno chiesto comunque che Prodi e il suo governo si tolgano immediatamente di mezzo. Poi si vedrà.La tattica è quella di colpire l´anello debole del convoglio avversario, la strategia consiste nel bruciare Veltroni ai nastri di partenza prima che il vettore del Partito democratico sia entrato in orbita.
Tutto ciò è molto chiaro ma non nasconde, anzi rivela una forte preoccupazione nelle file del centrodestra. Se il Partito democratico decollerà con le primarie del 14 ottobre, da quel momento in poi sarà molto difficile bloccare il recupero del centrosinistra e si porrà invece con forza il principale problema che affligge da tempo la destra italiana: come disfarsi di Berlusconi. I possibili eredi sperano in un governo interinale che faccia esplodere il centrosinistra e riduca Veltroni ad un crisantemo appassito.
Si dirà che queste marce e contromarce sono puro politichese e non interessano i cittadini alle prese invece con altri e assai più concreti problemi. Verissimo.
Ma è altrettanto vero che tutti quei problemi sono stati individuati ed elencati nel programma di Veltroni e ne è stata indicata anche la soluzione. Non è affatto un libro dei sogni. Le soluzioni sono a portata di mano per quanto riguarda il precariato, la politica fiscale, la sicurezza e la legalità, le infrastrutture, l´ambiente, la riforma del Parlamento, i poteri del "premier".
Resta ancora insoluto il tema della legge elettorale, che non è cosa da poco.
Quanto al tema della laicità, una forza politica forte non ha ragione di temere divisioni su questo punto: la Chiesa, anzi le Chiese, hanno pieno diritto di esprimersi nello spazio pubblico liberamente usufruibile da tutte le associazioni portatrici di valori, fermo restando il principio che nessuno di quei valori può sovrapporsi alla laicità dello Stato democratico, custode delle libertà e del pluralismo delle opinioni.
I cattolici democratici che hanno scelto da tempo il centrosinistra hanno avuto il merito di segnare il confine non valicabile tra il magistero della Chiesa e l´indipendenza delle istituzioni, laiche per definizione. Da questo punto di vista il tandem Veltroni-Franceschini rappresenta plasticamente questo positivo connubio ed è abissalmente lontano dalla sudditanza dimostrata dal centrodestra di fronte alle irruenze d´un magistero troppo spesso tentato da pulsioni fondamentalistiche.
* * *
Commentando il discorso-programma del Lingotto molti analisti hanno richiamato l´esempio di Blair. I più acuti hanno osservato che Blair ha avuto successo dalla sua politica sociale ed economica perché prima di lui era toccato alla Thatcher di fare il "lavoro sporco". Veltroni invece – hanno scritto – il lavoro sporco dovrà farlo lui e non sarà fatica da poco.In ogni paese e in ogni epoca c´è un lavoro sporco da fare. Nell´Italia dei primi anni Novanta il lavoro sporco lo fecero Giuliano Amato e poi Carlo Azeglio Ciampi, scongiurando una crisi finanziaria di dimensioni inedite, ancorando la lira ad un cambio stabile nel sistema europeo dei pagamenti e avviando la concertazione con le parti sociali. Lo proseguì Lamberto Dini varando una riforma delle pensioni di buona qualità.
Venne poi la volta del governo Prodi-Ciampi e il lavoro sporco (per dire un lavoro impopolare ma indispensabile per aprire la via al futuro) fu quello di portare l´Italia in Eurolandia chiedendo al Paese pesanti sacrifici e aprendo il mercato del lavoro alla flessibilità con le leggi Treu.
Dopo il quinquennio berlusconiano, trascorso in un profluvio di leggi che non hanno innovato nulla nella struttura economica ma hanno, in compenso, dilapidato le risorse della pubblica finanza, il lavoro sporco lo hanno fatto Prodi, Padoa-Schioppa, Bersani, Visco, riportando in un anno la finanza pubblica dentro ai parametri di Maastricht e recuperando un avanzo primario di bilancio da zero al 2.5 per cento del Pil.
Veltroni – se e quando verrà il suo turno – avrà anche lui un lavoro sporco da compiere e sarà quello di indebolire le corporazioni e portare avanti la liberalizzazione dell´economia. Contemporaneamente occorre governare il presente ed è ciò che il governo attuale ha cominciato a fare con il Dpef approvato giovedì: l´aumento del potere d´acquisto delle pensioni più basse, aiuti alle famiglie e ai giovani, finanziamento delle infrastrutture a cominciare dalla Tav, detassazione dell´Irap, detassazione dell´Ici, avvio del federalismo fiscale.
Veltroni ha delineato le tappe successive e innovative: lotta al precariato, diminuzione delle aliquote delle imposte sul reddito di pari passo con la lotta contro l´evasione e il sommerso.
Questo non è un libro dei sogni ma quanto già in parte avvenuto e potrà avvenire per realizzare un Paese unito, non più diviso tra Nord e Sud, tra giovani e anziani, tra lavoratori dipendenti e autonomi, così come indica il programma del Lingotto.
* * *
Nella settimana che viene ci sarà il round, si spera definitivo, tra governo e sindacati sull´età pensionabile, una "soap opera" che va avanti ormai da troppo tempo e che a questo punto si deve chiudere.A noi sembra che esistano tutti gli elementi per arrivare ad un accordo nel rispetto degli interessi delle parti e della compatibilità con i parametri di bilancio, cioè con le risorse versate allo Stato dai contribuenti.
E´ auspicabile che sulle proposte "ultime" che il governo presenterà ci sia l´accordo dei sindacati, molte rivendicazioni dei quali sono già state accolte.
Al di là delle proposte ultime il governo non può e a nostro avviso non deve andare. Se la Cgil riterrà di proclamare uno sciopero generale, è suo diritto e avrà le sue ragioni. Uno sciopero del genere non comporta la crisi di governo, a meno che non sia provocata dal ritiro di alcune componenti della coalizione.
Si assuma ciascuno le sue responsabilità, dopo avere ben meditato sulle conseguenze politiche, ma vorrei qui dire storiche, alle quali può portare un gesto inconsulto suggerito da esclusivi interessi di partito.
Anche di questo ha parlato Veltroni a Torino incitando i sindacati a non chiudersi nella difesa pur legittima dei loro associati senza tener presenti gli interessi dei giovani e dell´intera comunità nazionale. Il sindacato è stato forte ed essenziale alla stabilità della democrazia quando ha operato nel quadro delle compatibilità nazionali, debole invece e disutile quando ha assunto le forme d´una corporazione. Sarebbe grave se oggi imboccasse questa strada che non ha né sbocco né ritorno.
Corriere della Sera 30.6.07
Il pensatore del Seicento, lontano dalla religione ma tentato di negare il mondo
Spinoza, Dio e il Nulla
Il paradosso del grande filosofo: un legame segreto lo avvicina a Cristo
di Emanuele Severino
La filosofia nasce volendo essere libera: indipendente da miti, fedi, religioni, opinioni, istinti, costumi sociali, oltre che da ogni costrizione e comandamento che provengano dall'esterno di ciò che essa porta alla luce, chiamandolo «verità». Ma lungo la sua storia la filosofia si è posta sempre in rapporto con tutte queste forze, da cui essa non intende farsi guidare, per indagarne il significato e la consistenza: soprattutto con le religioni monoteistiche (e con il potere politico) — e in particolare col cristianesimo. All'interno della grande epoca della tradizione filosofica, cioè del pensiero che pone l'Eterno al di sopra o nel cuore del Tempo, e al suo fondamento, Spinoza è certamente il più lontano dal mondo religioso. Si può dire che quello di Spinoza sia addirittura «il più radicale e alternativo sistema della storia filosofica dell'Occidente dopo la venuta di Cristo»? Lo sostiene Filippo Mignini, che con grande perizia e acume ha curato la prima edizione italiana di tutte le opere del filosofo, con la collaborazione di un'altro specialista, Omero Proietti, per i Meridiani di Arnoldo Mondadori editore: Spinoza Opere; quasi duemila pagine, ottime traduzioni inedite; un evento culturale importante.
Sono note le vicende di questo grande, probo e pacifico pensatore ebreo, cacciato dalla Sinagoga e condannato, oltre che dagli ebrei, dai cristiani, protestanti e cattolici, e dagli Stati. Nonostante l'ammirazione di un ristretto circolo di amici, lo si considera «l'uomo empio e pericoloso di questo secolo», come scrive Arnauld, approvato da Leibniz (che però nel 1671 invia a Spinoza, a cui riconosce «insigne perizia nell'ottica», il proprio scritto Notizia sui progressi dell'ottica, per averne il giudizio). Anche Boyle, il grande precursore della chimica moderna, indirettamente in contatto con Spinoza, contribuisce a denunciare l'empietà. «Ateo, fatalista, materialista, dissacratore della Scrittura e di ogni religione, corruttore della morale e dalla stessa convivenza umana»: queste, ricorda Mignini, le accuse principali rivolte al filosofo.
Ma il giorno di Natale del 1784 Herder dona a Goethe gli Opera Posthuma di Spinoza: «Rechi oggi il santo Cristo in dono di amicizia il santo Spinoza», scrive; «Spinoza sia sempre per voi il santo Cristo». Odiato o dimenticato per un secolo, a partire dagli ultimi lustri del XVIII secolo il pensiero di Spinoza viene riconosciuto in tutta la sua potenza. Jacobi, Fichte, Schelling, Herder, Goethe, Schiller, Lessing, Hegel, Schopenhauer, Nietzsche, Borges, Einstein, tra gli artefici e i testimoni di questa rinascita. Che anche oggi è attuale — soprattutto per le tesi sul rapporto tra Stato e Chiesa, fede e ragione e per la difesa della democrazia. «La libertà di filosofare — si legge sul frontespizio del Tractatus theologico-politicus — si può concedere senza danno per la pietà e la pace dello Stato, ma, anche, essa non si può togliere senza togliere la pietà e la pace dello Stato». Sullo sfondo di queste tematiche, la decisione del filosofo di «ricercare un bene vero e condivisibile »: «qualcosa grazie al quale, una volta scoperto e acquisito, godessi in eterno una gioia continua e suprema».
Tale bene è Dio. Un Dio, certo, molto diverso da quello pensato dalla filosofia dopo l'annuncio cristiano: ad esempio non è persona, non ha volontà né scopi, include la natura, e quindi anche ciò che erroneamente gli uomini credono male e peccato. E tuttavia possiede quei caratteri della potenza e dell'eternità che sono propri di ogni modo in cui la tradizione filosofica ha pensato il divino.
Si tratterebbe di comprendere che anche alle radici di una filosofia come quella di Spinoza, così lontana dalle (sia pur grandi) abitudini concettuali della civiltà occidentale, è presente l'essenza stessa di quelle abitudini, il tratto decisivo rispetto al quale le pur profonde differenze tra Spinoza e i suoi avversari passano in secondo piano. «Alle radici», diciamo: perché si tratterebbe di scendere sul fondo dell'abisso su cui è sospeso il pensiero dell'uomo occidentale, e ormai dell'uomo planetario. Sin dall'inizio dell'Etica, il suo capolavoro, Spinoza distingue ciò che esiste necessariamente, cioè non è mai inesistente, ed è Dio, l'Eterno, da ciò che invece non esiste necessariamente, nel senso che non è sempre esistente ed è l'insieme delle «cose prodotte da Dio», esistenti nel Tempo. Ora, essenzialmente, radicalmente più decisiva del modo in cui Spinoza «dimostra » l'esistenza di Dio — e più decisiva di ogni altra «dimostrazione» di tale esistenza, proposta lungo la storia del pensiero occidentale — e la convinzione che le cose del mondo non esistono necessariamente: nel senso, appunto, che non sono sempre esistenti (anche se accadono necessariamente). Spinoza condivide questa convinzione con ogni altra forma (anche religiosa, dunque) del pensiero dell'Occidente.
Si dirà: è ovvio che la condivida! Infatti è la verità più evidente di tutte! E oggi si aggiunge: ed unica verità evidente!— Questo dire e questa aggiunta sono inevitabili. Infatti, anche se la cosa è tutt'altro che facile a comprendersi, l'onnipresente essenza della civiltà occidentale e appunto la convinzione che le cose del mondo non siano sempre esistenti e che questa loro non necessaria esistenza sia l'evidenza originaria o, addirittura, come oggi si conviene, l'unica evidenza assoluta.
Perché, allora, perdere tempo con ciò che oggi è rimasta l'unica verità fuori discussione, e non impegnarsi invece per diradare un poco le nebbie dell'incertezza che avvolge la vita dell'uomo? Proviamo a rispondere così: perché quanto sembra l'unica verità veramente fuori discussione è invece l'errare più profondo, e anche più nascosto. Ma come possiamo azzardarci a dir questo? Che presunzione! Ancora maggiore, la presunzione, se si tiene presente, che anche per la scienza moderna le cose del mondo non esistono sempre: esse sono, dopo non essere state, e tornano a non essere: sporgono provvisoriamente dal nulla.
Certo, sembra proprio un azzardo e una presunzione. Con i quali, tuttavia, acquista un maggior spicco il motivo per cui affermiamo che anche una filosofia come quella di Spinoza, così lontana dalle abitudini morali e concettuali dell'Occidente cristiano, e, ciò nonostante, profondamente solidale con l'essenza di tali abitudini. Anche a Nietzsche (che vede in Spinoza il pensatore a lui «più vicino») compete questa solidarietà.
Poi, si tratterà di pensare la follia di quell'essenza. Credere che le cose escano e ritornino nel nulla — ad opera di un Dio o da sole — non è forse credere che le cose siano nulla? non è forse credere che ciò che non è nulla sia nulla? e questa fede non è forse la mano più terribile e violenta? non uccide forse uomini e cose nel modo più originario e radicale, quello che sta al fondamento della violenza visibile che tutti sono capaci di scorgere? Sul fondamento di questa fede, ogni santità è la culla dell'omicidio e di ogni altra forma di annientamento.
Certo, è indiscutibile che per Spinoza (sulla scia di Seneca e in generale dello stoicismo) le decisioni umane e tutte le cose avvengono per «fatale necessità» (fatalis necessitas); che nessuna cosa può esistere diversamente da come esiste e che dunque ogni cosa è necessaria. Certamente! Ma nel senso che ogni cosa del mondo si genera e si corrompe necessariamente: non nel senso che non si generi e non si corrompa. Che tali cose escano dal nulla e vi ritornino seguendo o non seguendo un percorso inevitabile indica due prospettive che per quanto fortemente opposte hanno tuttavia in comune la convinzione decisiva e abissale: che le cose del mondo sono nulla. La stessa convinzione che accomuna nell'essenziale le esperienze in cui, lungo la storia dell'Occidente, si pone un Dio alla guida della produzione e distruzione delle cose e le esperienze dove invece si ritiene che tale produzione-distruzione non abbia bisogno di alcun Dio. Questa accomunante convinzione è l'«intima mano», assolutamente più intima e terribile di quanto possa supporre Herder, quando, volgendosi al «santo Cristo» e al «santo Spinoza», si chiede: «Quale intima mano congiunge i due in uno»?
Corriere della sera 30.6.07
Madrid: dipinti e disegni dell'artista olandese al museo Thyssen-Bornemisza
Van Gogh: i colori degli ultimi due mesi
di Julio Neira
Diciannove dipinti e quattro disegni di Vincent van Gogh, tre olii di Cézanne, due di Pizarro e uno di Charles François de Daubigny, compongono la prima mostra dedicata agli ultimi due mesi di vita del geniale artista olandese, trascorsi a Auvers- sur-Oise. Il 20 maggio del 1890, Van Gogh scese dal treno in quel piccolo paese ad un'ora da Parigi. La settimana prima era uscito dal manicomio di Saint-Rémy, dopo avervi trascorso un anno da internato. Due mesi più tardi, il 27 luglio, si sparò un colpo di pistola.
In soli settanta giorni Van Gogh realizzó altrettanti quadri e una trentina di disegni. Fra i dipinti ora esposti, Il giardino di Daubigny, Case di Auvers e Due donne nel bosco.
Auvers era abitata da pastori e contadini, che soffrivano la modernizzazione del paesaggio francese, rappresentata dalla sostituzione delle capanne tradizionali con ville moderne con tegole d'ardesia o i tetti dai colori vivaci.
Questo contrasto, che sará il tema principale dei dipinti che Van Gogh realizzerà fra maggio e giugno, simboleggia anche la sua crescita come pittore, dagli insegnamenti della tradizione pittorica olandese fino al colorismo moderno appreso dagli impressionisti di Parigi.
A luglio saranno i campi spogli, essenziali, sprovvisti di pretesti narrativi, l'oggetto della sua continua ricerca del sublime.
Disegnare con il colore è il tratto dominante di tutta la sua tarda opera. Nel periodo di Auvers, Van Gogh si attiene meno ai particolari naturalistici, il suo tratto si moltiplica e si contorce, producendo arabeschi fra alberi e case, oscillazioni nei campi di grano, movimenti e ritmi sinuosi di enorme vitalità dinamica (Paesaggio al crepuscolo, Campi di grano, Campo con papaveri).
Nella ultime opere, Van Gogh opera una sorta di sintesi fra le due tappe opposte e complementari del suo lavoro. Questa magnifica mostra permette di assistere all'apoteosi emozionale e tragica di una vita dedicata ossessivamente alla pittura.
(Trad. di Patrizia Olgiati)
VAN GOGH: GLI ULTIMI PAESAGGI, Madrid, Museo Thyssen-Bornemisza, sino al 16 settembre. Tel. 0034/913690151
VAN GOGH: GLI ULTIMI PAESAGGI, Madrid, Museo Thyssen-Bornemisza, sino al 16 settembre. Tel. 0034/913690151
Cara Unità,
per una volta – tanto per cambiare – facciamo noi un po’ di ingerenza nello Stato vaticano e chiediamo formalmente a Joseph Ratzinger che desista dal suo tentativo di ripristinare la messa in latino. Avevamo già colto nel nuovo papa la propensione a ritornare indietro nel tempo, dalla sua scelta di orpelli come il camauro e la mozzetta... Ma quella di imbrogliare i suoi seguaci ricorrendo a una lingua che essi non conoscono (vieppiù rivolgendo loro la schiena, come previsto dalla messa tridentina), è una mossa troppo scorretta! Se non torna sui suoi passi saremo costretti a evocare lo spirito di Martin Lutero, che ritraduca a beneficio di tutti i fedeli e in tutte le lingue la parola del Signore. Il loro Signore.
Paolo Izzo, Roma