sabato 7 giugno 2008

l’Unità 7.6.08
Dove abita il razzismo
di Luigi Manconi


Il sistema di valori e disvalori, stili di vita e di comportamento, l’anarchia e la sregolatezza quali tratti unificanti dell’omologazione culturale, veniva qualificata da Pasolini come «fascismo»

Ha senso oggi utilizzare quella categoria? Penso di sì, e proprio nel significato attribuitogli da Pasolini. Non è prerogativa esclusiva della destra ma con la destra ha affinità

Circola da tempo una cattiva retorica sotto-pasoliniana, rilanciata ed esaltata dai «fatti del Pigneto». Un gran parlare, signora mia, di omologazione culturale, degrado morale, crisi delle comunità e degli stili di vita tradizionali; e un esercitarsi in considerazioni addirittura più antropologiche che sociologiche sulla decadenza di «tutte le identità collettive». Sia chiaro: c’è qualcosa di vero in ciò. E, tuttavia, analizzare quanto sta accadendo nelle nostre città e metropoli (da Verona a Roma) solo, o principalmente, nei termini di un dibattito culturale, che privilegia i processi di disgregazione comunitaria e le forme nuove dell'irrazionalità, rischia di essere -se non fuorviante- perlomeno dispersivo. Non a caso, sia l’omicidio di Verona che i fatti del Pigneto risultano equiparati da una precipitosa esclusione dell'analisi politica, a tutto vantaggio di quella appunto «antropologica». Si dimentica che proprio il PierPaolo Pasolini che, se non citato, viene costantemente evocato, nell'analizzare i processi degenerativi della cultura proletaria e la sua progressiva «borghesizzazione», arrivava a utilizzare, alla fine, categorie politiche.
Il fascismo che richiamava era, evidentemente, non quello ideologico e tantomeno di regime, bensì quello culturale e, ancor più, «mentale».
Tale evocazione è ovviamente opinabile, ma non è certo campata in aria. Il sistema di valori e disvalori, stili di vita e di comportamento, l’anarchia e la sregolatezza quali tratti unificanti di una omologazione culturale inarrestabile, veniva qualificata da Pasolini come «fascismo»: non per criminalizzare quanti dal fascismo storico derivavano la loro collocazione politica - in altri termini il Movimento sociale italiano di Giorgio Almirante - bensì per allargare ed estendere quella categoria fino a vagheggiare la formazione di una sorta di nuovo «carattere nazionale». Ha senso utilizzare quella categoria oggi? Penso di sì, e proprio nel significato attribuitogli da Pasolini. Ciò esige una chiarificazione preliminare: il «fascismo» e, come in questo caso, il «razzismo», non sono ovviamente attribuibili alla sola destra politica e riducibili ad essa: e tanto meno alla sola destra estrema, extraparlamentare e - sotto alcuni aspetti - neonazista. Ciò per alcune ragioni: come insegna l’esperienza storica la sinistra non è immune da tentazioni xenofobe, e in alcune circostanze, apertamente razzistiche. Tantomeno lo è, immune da tentazioni xenofobe, una sinistra come quella attuale, che ha visto sgretolarsi, o comunque vacillare, alcune certezze ideologiche e valoriali. Come sempre, pertanto, è possibile rinvenire tracce di «razzismo» (e con maggiore frequenza di cultura reazionaria), in numerose componenti ed espressioni del campo che si autodefinisce di «sinistra». Resta, tuttavia, un dato. Tra «razzismo» e «neofascismo» e destra politica, in specie italiana, esiste incontrovertibilmente una maggiore affinità di quella intercorrente con la sinistra politica: si tratta di una affinità culturale-ideologica, ma anche di una sorta di corrività rinvenibile nei gruppi dirigenti e in settori organizzati delle formazioni interne al centro destra. È questo, dunque, che autorizza a far ricorso a quelle categorie politiche. In altre parole il «razzismo» e il «neofascismo» esprimono un sistema di valori che non è prerogativa esclusiva dell’area di destra, ma trova in quella stessa area assonanze culturali, intersecazioni, simpatie e, comunque, una maggiore omertà. Più in generale, anche quando il ricorso a linguaggi e argomenti di tipo «razzistico» o «neofascistico» si trovano in aree della sinistra, ciò non deve essere ritenuto un «mascheramento» o una «infiltrazione», ma appunto l’ampliarsi di quelle categorie oltre il perimetro delle sue radici originarie, il suo diffondersi parallelamente alla crisi delle culture e delle comunità tradizionali, il loro attrarre umori e sentimenti, a prescindere dalla scelta politica e di voto dei soggetti coinvolti. E allora, quel Che Guevara tatuato sull’avambraccio dell’«eroe del Pigneto»... significa, in realtà, ben poco. Quasi nulla. Se si andasse a vedere l’iconografia tatuata sui corpi reclusi nelle prigioni italiane, si scoprirebbe agevolmente un caotico intreccio di simboli, immagini, figure, slogan, che ha il solo effetto di trasmettere la sensazione di una disperata ricerca di riferimenti cui aggrapparsi. Non è necessario pertanto, in questo caso, riferirsi al tradizionale sincretismo di alcune sottoculture della destra radicale che da decenni utilizza simboli e icone della sinistra estrema: c’è anche questo, ma c’è soprattutto - per chi si tatua un avambraccio, o compie gesti analoghi - il senso che quel simbolo immediatamente trasmette: un avvicinamento bruciante e semplificato tra il simbolo e ciò che dice. Nessuna mediazione, nessuna contestualizzazione e nessuna interpretazione, oltre il suo messaggio più diretto. Che Guevara, qui, è semplicemente uno che insorge.
Tanto più, va detto, che non è il razzismo classico - quello basato sulla presunzione di superiorità etnico-gerarchica - la forma assunta oggi dall’ostilità verso lo straniero. È, piuttosto, una miscela composita e complessa, eppure a ben vedere tutt’altro che originale, dove intervengono sia pulsioni e argomenti esplicitamente di destra, sia pulsioni ed argomenti esplicitamente di sinistra, sia, infine, pulsioni e argomenti che attengono a quei processi di crisi dell’identità comunitaria o, meglio, di tutte le identità dotate di un qualche senso razionale e di una qualche capacità di accoglienza. Ciò viene sostituito da identità chiuse, che al paradigma della chiusura affidano interamente l’enfasi della propria soggettività e il senso della propria relazione (o mancata relazione) con il mondo. Ma qui si torna - si deve tornare - alla politica. Se la xenofobia (alla lettera: paura dello straniero) è una miscela cui contribuiscono emozioni e dinamiche di entrambi i campi politici, la responsabilità di questi ultimi è estremamente impegnativa. A essi, alla destra e alla sinistra, spetta il compito di elaborare strategie adeguate a garantire sicurezza alla collettività, politiche di integrazione culturale e sociale degli stranieri, ma anche un intransigente e intelligente ruolo pedagogico. È diventato luogo comune della mentalità nazionale un ardito sillogismo, cui offrono credibilità le maggiori fonti di informazione: dal momento che tra gli immigrati irregolari c’è chi commette reato, lo straniero irregolare diventa la minaccia; dal momento che le popolazioni locali temono quella minaccia, quella minaccia diventa la principale domanda politica; dal momento che punto prioritario del programma politico è la difesa dall’immigrato irregolare, la cancellazione dell’immigrato irregolare («fuori tutti i clandestini») viene proposta come la soluzione politica al problema dell’insicurezza collettiva e delle ansie sociali. Ciò ha prodotto quel sillogismo di cui si diceva, diventato rigido e ferreo come - appunto - un dispositivo di sicurezza, una tripla mandata, un chiavistello chiodato.
Quel sillogismo si fonda, sull’equazione immigrato = clandestino = criminale. È tale equazione che le culture politiche di sinistra e, a mio avviso, anche le culture politiche di destra che non vogliano indulgere in tentazioni razzistiche, devono decisamente respingere. Il respingerle non significa combattere contro quella equazione. Ciò è, sul piano della retorica, fin troppo facile. Si tratta, piuttosto, di sottrarre l’intero discorso pubblico e il complesso dei messaggi che si inviano (e dunque, cruciale ruolo del sistema dei media) alle molte implicazioni che quell’equazione comporta. Alle molte implicazioni, cioè, corrispondenti alle tante pieghe e alle infinite espressioni in cui quell’equazione si manifesta (o meglio: si cela), nel discorso quotidiano. È qui, infatti, che quell’equazione si riproduce, si diffonde, diventa verità incontrovertibile. Si pensi a quel dettaglio (che dettaglio è solo in apparenza) costituito dal ricorso al termine clandestino. A rigor di logica e di diritto, tale termine è improprio o comunque sproporzionato. Nella grandissima parte dei casi, quel clandestino è uno straniero titolare di un permesso di soggiorno scaduto o inadeguato, tale da comportare un illecito amministrativo. Finora, infatti, di questo si è trattato: dell’infrazione alle norme sull’ingresso e la permanenza nel territorio nazionale. Non un reato, appunto, ma un illecito.
E la grande differenza conseguente alla diversa qualificazione di quel fatto, (illecito amministrativo o fattispecie penale) si esprime nell’apparato sanzionatorio che l’una o l’altra classificazione comporta: se siamo in presenza di un illecito amministrativo non è prevista la detenzione; se siamo in presenza di un reato, la detenzione è possibile. Ma il ricorso a quel termine «clandestino», è profondamente e irreparabilmente denotativo e discriminatorio. Per capirci: l’irregolarità è sanabile, la clandestinità è solo punibile. Ecco, allora, un punto delicatissimo sul quale, davvero tutti - e senza eccezione (nel corso di una puntata di AnnoZero, si è parlato pressoché esclusivamente di «clandestini»)- risultano distratti. Si è consentito così che per una popolazione di numerose centinaia di migliaia di individui valesse una equazione grossolana e palesemente falsa.
Ovvero: in Italia si trovano tra i settecento mila e il milione di immigrati irregolari, equiparati a settecentomila-un milione di criminali. Ma in quella popolazione di irregolari, come è noto, ma com’è altrettanto facilmente dimenticato, ci sono alcune centinaia di migliaia di badanti e colf, di edili e lavapiatti, di metalmeccanici, pescatori, contadini, pastori, artigiani…Tutto ciò, evidentemente, non significa in alcun modo che l’Italia - per rispondere alla più triviale e ricorrente delle domande - sia diventata un paese «razzista». Ma che si stia incattivendo, questo sì.

l’Unità 7.6.08
Silvio IV: «Dobbiamo compiacere la Chiesa»
L’incontro con il Papa diventa un atto di sottomissione: e promette il quoziente familiare nel Dpef di Natalia Lombardo


DUE BACIAMANO esagerati a Papa Benedetto XVI suggellano il senso della visita di Silvio Berlusconi in Vaticano. Un senso anticipato dure ore prima delle reti di casa Mediaset: «L’attività del governo non può che compiacere lo Stato e la sua Chiesa», ha
detto il presidente del Consiglio intervenuto al telefono con Belpietro su Canale5, nel quale ha «ringraziato» l’apprezzamento del Papa al «nuovo clima» che si è creato col suo governo.
Il corteo di auto con Berlusconi è arrivato al cortile di San Damaso all’interno della Città del Vaticano alle 10,45, con un leggero anticipo. Accompagnato da Gianni Letta, Paolo Bonaiuti, l’ambasciatore presso la Santa Sede, Zanardi Landi, Mauro Masi e altri funzionari di Palazzo Chigi, unica donna Anna Nardini, capo Ufficio studi in nero e veletta. Accolti dal picchetto delle Guardie Svizzere e dal prefetto della Casa Pontificia, hanno atteso dieci minuti nella sala del tronetto: un Berlusconi in doppiopetto blu molto ciarliero con i vari «gentiluomini» di Sua Santità; lo è diventato l’anno scorso anche Letta, che cercava di calmierare l’allegria di Silvio IV, più da party che da anticamera vaticana.
Papa Ratzinger ha salutato il premier col suo accento tedesco, l’altro si è tuffato a baciare l’anello del Pescatore del pontefice, anziché accennare il gesto come da protocollo, rispettato da Letta.
L’«Eminenza azzurrina» ha partecipato all’incontro a porte chiuse nella biblioteca del pontefice. Il clima sembra cordiale fin dall’inizio, un po’ lo stesso copione del 2005. Berlusconi, per la quinta volta in Vaticano, rompe l’imbarazzo suscitandolo negli altri. Inizia con le battute ai fotografi: «Sono più bravi a piazzare le foto che a farle», poi lascia di stucco il Capo del Cerimoniale di Palazzo Chigi, Eugenio Ficorilli, quando davanti al pontefice si è chinato ad abbottonargli la giacca: «Non ha ancora imparato ad allacciarsi i bottoni...», maligna Silvio che insiste: «Santità, guardi cosa deve fare un Presidente del Consiglio...».
L’incontro non ufficiale ma in forma privata, preparato da giorni, ha toccato vari temi accennati per titoli nei comunicati di Palazzo Chigi e della Santa Sede. La famiglia, con assicurazioni da parte del premier sull’aumento degli aiuti, anche alla scuola privata e sul «quoziente familiare» nel Dpef di giugno. Poi i temi internazionali come il Libano, il processo di pace in Medio Oriente, fino alla Russia e la Cina, l’emergenza alimentare, spiega il comunicato che sottolinea «ampie identità di vedute». Nell’inusuale intervista che ha anticipato l’incontro, sull’Osservatore Romano e su Radio vaticana, Berlusconi dà via libera agli Ogm, bloccati da Alemanno quand’era ministro.
Il tema dell’immigrazione non è citato, ma la cautela del premier sul reato di ingresso clandestino che preoccupa il Vaticano, si rivela nel passaggio sul rispetto dei «valori di libertà e tolleranza e sacralità della persona» e la rassicurazione al Papa di un «percorso parlamentare» del ddl. A Canale5 Berlusconi ha ribadito «la linea della fermezza», ma anche i dubbi sulla «funzionalità» del reato.
Ben disposto Benedetto XVI, atteggiamento reverenziale da Silvio IV. Il quale maschera il suo spirito settecentesco (quell’«anarchia di valori» criticata dalle gerarchie ecclesiastiche) con la religiosità di chi gli è vicino. O lo era. Come Mamma Rosa: il pontefice ricorda di averle regalato un rosario l’anno scorso durante un’udienza privata. «Aveva una fede straordinaria», racconta il premier, ed era devota ad alcune «suorine» che la volevano incontrare anche quando non stava più bene...
Quaranta minuti di colloquio, poco più della media. Poi il saluto della delegazione di Palazzo Chigi con altri baciamano, («la vedo sempre in televisione», dice il Papa a Bonaiuti) e scambi di omaggi. Da Berlusconi una vistosa croce d’oro con 11 topazi e un diamante naturale fancy brown, simboli di «concordia e temperanza» (fra Stato e Chiesa?). Silvio la illustra con fare da venditore aprendo un foglio di «expertise»: «È un modello unico, l’abbiamo fatto fare apposta per lei... Quando ha un attimo lo legga, ci sono le significanze di ogni pietra». «Lo farò...» risponde il Papa tedesco, che ricambia con una penna-colonna creata per i 500 anni della Basilica Vaticana e una stampa del ‘600.
Col secondo baciamano si chiude l’incontro, poi un colloquio di tre quarti d’ora con il cardinale Tarcisio Bertone, alle 12,40 il corteo riparte. Berlusconi raccomanda ai suoi, come fossero scolaretti: «Adesso dovete lavorare di più, con più passione e più entusiasmo. Il Santo Padre vi ha fatto un grande regalo».

l’Unità 7.6.08
Scuole cattoliche, legge 40 e la benedizione vaticana
di Roberto Monteforte


La benedizione c’è stata. Come pure la genuflessione. Può essere soddisfatto Silvio Berlusconi dell’udienza di ieri con papa Benedetto XVI con tanto di baciamano. Si può sentire rassicurato papa Ratzinger e il suo stretto collaboratore, il segretario di Stato, cardinale Tarcisio Bertone, che hanno deciso di puntare sulla «carta Berlusconi» e sul «nuovo corso» politico maturato con il dopo voto. Se stabilità, governabilità e dialogo tra maggioranza e opposizione «nell’interesse superiore del paese» sono la cornice fondamentale indicati dalla Chiesa e dallo stesso pontefice per risollevare il Paese dalla sua crisi, allora pare proprio che il governo di centrodestra si sia accredidato come sponda affidabile e ancora più robusta dopo il responso elettorale.
Non solo per le opportunità che offrirebbe il «nuovo clima» politico. L’apertura di credito è anche sui contenuti, su temi come la difesa della vita e la dignità della persona, sulle risposte concrete da dare alle domande delle della famiglie e all’emergenza educativa, che consentano di garantire un futuro alle giovani generazioni, compresi quegli stanziamenti a favore delle scuole cattoliche, sui temi etici e sulla possibilità di coniugare sicurezza e risposte rispettose della dignità delle persone anche al fenomeno dell’immigrazione.
Il presidente del Consiglio pare accettare la sfida. Mostra la sua disponibilità ad affrontare l’agenda fitta e impegnativa indicata da Benedetto XVI nel suo discorso alla recente assemblea dei vescovi italiani. Un discorso che deve essere stato studiato a fondo dallo staff di Palazzo Chigi. Se aveva già anticipato una sua disponibilità nell’inusuale intervista congiunta concessa a «Radio Vaticana» e all’«Osservatore Romano» che ha spianato la strada all’incontro di ieri, l’ha ribadita nell’intervista resa ieri mattina alla «sua emittente», «Canale 5». «L’atteggiamento del governo - afferma - non può che compiacere il Pontefice e la sua Chiesa». È un impegno preciso.
La conferma arriva poco dopo. Nella mezz’ora abbondante di colloquio di Silvio Berlusconi, assistito da Gianni Letta, con Benedetto XVI nella Biblioteca privata del pontefice. Definito «lungo e cordialissimo» da una nota Palazzo Chigi e più sobriamente «cordiale» la «nota vaticana». Offre la disponilità del governo il premier. Lo farà anche nell’incontro tra la delegazione italiana e quella vaticana guidata dal segretario di Stato, cardinale Tarcisio Bertone. Un’altra quarantina di minuti per affrontare in modo più approfondito per «un giro d’orizzonti» sui temi. Vi è piena identità di vedute tra l’Italia e la Santa Sede e non solo sui nodi di politica estera (dal Medio Oriente al Libano, alla Cina e alla Russia sino all’emergenza alimentare e al sostegno ai paesi più deboli). Quello che Berlusconi ribadisce è il forte apprezzamento per «il contributo della Chiesa cattolica alla vita del paese» e per la «costruttiva collaborazione» bilaterale e a livello europeo, per il suo contributo «nella sua azione sul piano interno e internazionale ai valori di libertà e tolleranza ed alla sacralità della persona umana e della famiglia». Parole suadenti e rassicuranti, pronunciate tra sorrisi e cordialità che devono essere state apprezzate in Vaticano. Ma i punti fermi restano, compresa quella richiesta di coniugare tolleranza e rispetto della persona umana e della vita. Che per la Chiesa vuole dire sicuramente politiche a sostegno della vita e contro l’aborto, ma anche porsi il tema dell’immigrazione garantendo adeguate politiche dell’accoglienza e dell’integrazione, senza imbracciare il fucile. Questo vuole dire mettere da parte il reato di immigrazione clandestina. Si mostra disponibile il premier. Afferma di ritenerlo «impraticabile». È un gesto apprezzato.
Per definire le soluzioni concrete c’è tempo. Soprattutto perché il governo si presenta solido. Dà l’idea di durare. Sui temi che richiamano il «bene comune» può contare sull’appoggio dell’opposizione. E si presenta pronto ad accogliere le sollecitazioni della Chiesa.
Come ha ribadito il presidente della Cei, cardinale Angelo Bagnasco quello che conta davvero e su cui si giudica un governo, «sono i frutti». Le risposte concrete che vengono date. Per ora vi è la benedizione del Papa e della Chiesa e il governo Berlusconi incassa. Si vedrà se arriveranno e quando il «quoziente familiare» e gli altri aiuti alle famiglie, le decisioni a favore della vita, lo stop a quelle misure come le linee guida sulla legge 40 sulla fecondazione assistita della Turco, ritenute eticamente sensibili e quei finanziamenti alle scuole cattoliche esplicitamente richiesti dal Papa. Per ora Berlusconi assicura «la volontà di continuare la costruttiva cooperazione» tra Santa Sede e Italia.

l’Unità 7.6.08
Clandestini, i magistrati contro il governo
Durissima accusa dell’Anm: «Se passa il reato il sistema giudiziario va in tilt»
di Massimo Solani


IL CLIMA di collaborazione e reciproco ascolto fra governo e magistratura rischia di infrangersi subito sullo scoglio dei primi atti della nuova maggioranza.
Perché alle toghe, da ieri riunite a Roma per il 29° congresso dell’Anm, non sono piaciuti i primi passi dell’esecutivo in materia di sicurezza, a partire dal reato di immigrazione clandestina. «Sul punto - ha infatti spiegato nella relazione inaugurale il presidente Luca Palamara, riferendosi all’incontro avuto col ministro della Giustizia il 28 maggio scorso - abbiamo sottolineato le gravissime disfunzioni per il sistema giudiziario e carcerario che deriverebbero da tale previsione. Tutto ciò senza alcun reale beneficio». Un affondo durissimo, esteso anche all’aggravante per i reati commessi da immigrati clandestini. Che, secondo Palamara, genera «perplessità» sulla sua costituzionalità perché «potrebbe determinare un aumento della pena esclusivamente in ragione della condizione del colpevole» violando così «il principio di eguaglianza». Parole che non sono piaciute al Guardasigilli Angelino Alfano che ha rispedito al mittente le critiche spiegando che il reato di immigrazione clandestina è «presente in numerose legislazioni e non ha prodotto guasti». «Riteniamo che possa essere una misura di deterrenza forte - ha proseguito il ministro - In parlamento troveremo la soluzione più equilibrata». Meno diplomatica, invece, la reazione del presidente dei senatori del Pdl Maurizio Gasparri. «L’Anm invece di contribuire ad aumentare il tasso di sicurezza nel nostro paese - ha risposto attraverso una nota al vetriolo - si abbandona a critiche contro le nuove norme. Per fortuna in democrazia il Parlamento è sovrano».
Ma la doppia bocciatura al governo è diventata tripla quando il neo presidente dell’Anm ha puntato il dito contro le norme varate per fronteggiare l’emergenza rifiuti a Napoli con cui si punta a creare una superprocura competente per i reati ambientali e un giudice collegiale per le misure cautelari. «Strumenti che - ha spiegato - non sono consentiti dal nostro ordinamento». Perplessità simili a quelle che la sesta commissione del Csm si sta apprestando a mettere nero su bianco per il parere che verrà discusso lunedì dal Plenum di Palazzo dei Marescialli.
Ma non è tutto: perché nella giornata inaugurale del congresso dell’Anm, che oggi si appresta ad accogliere il ministro della Giustizia, il faccia a faccia a distanza Alfano Palamara si è arricchito di un quarto ed ultimo capitolo. Perché, da Lussemburgo, il ministro aveva appena finito di illustrare la sua condivisione all’emendamento introdotto nel pacchetto sicurezza che dichiara le prostitute «pericolose per la morale» quando il presidente dell’Anm si è di nuovo messo di traverso facendosi portavoce di una opinione pressoché unanime fra le toghe. «Penso che la piaga del nostro paese sia lo sfruttamento, non le prostitute che diventano vittime del traffico di esseri umani - ha risposto infatti il pm della procura di Roma ai cronisti che gli chiedevano un commento - Obiettivo del legislatore e dei magistrati deve essere quello di individuare e colpire gli sfruttatori». Un’ultima staffilata che faceva dire a Lanfranco Tenaglia, ministro della Giustizia del governo-ombra del Pd, che «il giudizio dell’Anm riflette le considerazioni che noi facciamo da tempo, quindi ci conforta».

l’Unità 7.6.08
Shaul Mofaz Il vicepremier: Ahmadinejad va preso sul serio, il mondo libero non può più sottovalutare le sue minacce
«L’Iran fermi il riarmo nucleare o Israele l’attaccherà»
di Umberto De Giovannangeli


Capo di stato maggiore e ministro della Difesa tra il 2002 e il 2006, oggi vice premier, Shaul Mofaz contende la leadership di Kadima al primo ministro Ehud Olmert. Una sfida che investe la priorità assoluta per Israele: come garantire la sua sicurezza. Mofaz guarda soprattutto all’Iran - Paese che conosce bene, essendo nato a Teheran - e alla «minaccia mortale» per lo Stato ebraico rappresentata da un «regime teocratico che intende dotarsi dell’arma nucleare per realizzare il suo obiettivo dichiarato: distruggere Israele», afferma il vice premier israeliano. Per Mofaz la risposta di Israele deve essere «decisa, risolutiva». L’opzione militare è in campo, sottolinea l’ex capo di stato maggiore, ed essa va attivata con il sostegno degli Usa. «In nessun caso - avverte il vice premier - Israele tollererebbe l’eventualità che armi nucleari siano in possesso dell’Iran».
A Roma, nei giorni del summit mondiale della Fao, il presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad ha rilanciato la sua sfida a Israele: il regime sionista, ha detto, finirà presto.
«Scomparirà prima lui di Israele. Questa non è una speranza. È una certezza».
C’è chi sostiene che le minacce del presidente iraniano siano solo propaganda a fini interni.
«Non sono di questo avviso. Guai a sottovalutare il pericolo iraniano. L’Iran è la più grande minaccia dal tempo dei nazisti. Quelle di Ahmadinejad non sono le farneticazioni di un esagitato. Sono le parole del capo di uno Stato che fa parte delle Nazioni Unite e che continua impunemente ad usare le tribune internazionali, ultima quella della Fao, per propugnare il suo odio antisemita e istigare alla violenza contro Israele. Nella storia dell’Onu non è mia accaduto che uno Stato membro dichiarasse esplicitamente la sua volontà di distruggere un altro Stato membro delle Nazioni Unite. Quando nega l’Olocausto, Ahmadinejad esorta a un altro Olocausto. La comunità internazionale avrebbe dovuto già da tempo considerare un individuo del genere persona non gradita invece di concedergli ogni opportunità per rinvigorire le sue minacce a Israele. L’Iran è una minaccia per noi ma lo è anche per il mondo libero. Non solo perché persegue i suoi piani di riarmo nucleare, che se portati a compimento determinerebbero una corsa alla bomba atomica di altri Paesi arabi sunniti - come l’Egitto e l’Arabia Saudita - che si sentirebbero anch’essi minacciati dall’”atomica sciita”, ma anche per il sostegno incessante, militare, logistico, finanziario, che Teheran fornisce ai più pericolosi gruppi terroristici mediorientali».
Di fronte a una tale minaccia, cosa resta da fare, a suo avviso, a Israele?
«Se l’Iran proseguirà il suo programma di riarmo nucleare, noi non avremmo altra scelta che attaccarlo. Di fronte alla determinazione del regime iraniano, tutte le altre opzioni sembrano destinate al fallimento. Le sanzioni si stanno rilevando inefficaci, e ancor meno incisive si mostrano le pressioni diplomatiche. Questa, purtroppo, è la realtà dei fatti. L’Iran ha già oggi missili a lunga gittata in grado di colpire pesantemente non solo Tel Aviv, Gerusalemme, Haifa, ma anche Roma, Madrid… L’Iran porta avanti la sua strategia destabilizzante fornendo armi e istruttori ad Hamas, Hezbollah, ai gruppi della Jihad islamica. Arma i nemici della pace e prosegue nella costruzione della bomba atomica, il cui utilizzo è chiaro. In questa situazione, e in assenza di un ripensamento che appare inimmaginabile da parte del regime iraniano, Israele non ha altra scelta che attaccare l’Iran per fermare il suo programma nucleare».
Ma Israele potrebbe praticare questa opzione senza o addirittura contro la volontà degli Stati Uniti?
«Sulla portata della minaccia iraniana c’è assoluta convergenza di vedute tra noi e gli Stati Uniti. Non mi riferisco solo all’attuale presidente, ma anche ai due candidati che si contenderanno la Casa Bianca. Il recente discorso del senatore Obama è stato in questo senso molto importante e impegnativo, come lo sono stati i pronunciamenti del senatore McCain: l’America è consapevole del pericolo iraniano. E sarà a nostro fianco nel momento della verità».
Da un fronte all’altro. Come valuta i colloqui avviati, con la mediazione del governo turco, tra Israele e la Siria?
«La via del negoziato è sempre auspicabile se le due parti sono realmente intenzionate a praticarla. Dubito però che sia così per la Siria, che ancora oggi, al di là delle dichiarazioni di facciata, continua ad essere parte attiva del fronte degli estremisti».
Damasco ha ribadito che un negoziato diretto con Israele deve contemplare la restituzione delle Alture del Golan.
«Si tratta di una richiesta inaccettabile, almeno per quanto mi riguarda. La Siria è legata strettamente all’Iran. E come è già avvenuto nel Libano meridionale e nella Striscia di Gaza, gli iraniani si installerebbero anche sul Golan, un altopiano dall’enorme valore strategico».
Ha collaborato Cesare Pavoncello

l’Unità 7.6.08
Brecht: a lezione di tolleranza dal cinese
di Riccardo De Gennaro


C’è, per fortuna, un siero antiveleno anche per questa nuova stagione di aggressioni e devastazione che ricorda le cupe atmosfere dell’Uovo del Serpente, il film di Ingmar Bergmann sui primi anni della repubblica di Weimar. Il siero si chiama Bertolt Brecht e i giovani che non lo conoscono farebbero bene ad assumerne una dose robusta, ora che la guardia contro la violenza e l’ideologia fascista è stata pericolosamente abbassata. Perché il comunismo di Brecht, che con Stalin non ebbe mai nulla da spartire, era prima di tutto questo: l’opposizione più salda e fiera al nazifascismo. Da giovane Brecht era anarchico e ribelle. Poi, una volta scoperto Marx, visse la sua lunga fase comunista (ma quando si trattò di fuggire da Berlino si rifugiò in Danimarca, non a Mosca: «Non avrei potuto trovarci abbastanza zucchero per il mio caffè», disse con una battuta). Non ebbe difficoltà a rendersi conto con largo anticipo del tragico fallimento del socialismo reale: «Il comunismo è stato solo accennato, mai messo in pratica», precisò negli ultimi anni. A quel punto diede carta bianca all’antico saggio cinese che viveva in lui e che gli aveva trasmesso forza nei momenti difficili: non è un caso se nel lungo esilio portò sempre con sé un rotolo contenente il ritratto di un saggio cinese da appendere nel suo studio, a Svendborg, come a Parigi, come a New York.
Più che nel corpus principale delle opere teatrali, dove prevalgono la didattica marxista e la militanza politica, l’anima «taoista» dell’autore dell’Opera da tre soldi si manifesta nella narrativa e nella sterminata produzione poetica. In particolare, nei brevissimi racconti in forma di parabola o di apologo, contenuti in Me-ti, il libro delle svolte, nelle Storie da calendario e in questo prezioso libretto intitolato Storie del signor Keuner, pubblicato ora da Einaudi in versione integrale (pagine 139, euro 15,00). Tali storie, o «storielle», avevano fatto parte finora proprio delle Storie da calendario, ma il ritrovamento, tra le carte del drammaturgo tedesco, di quindici testi inediti aventi come protagonista lo stesso Keuner hanno spinto la casa editrice tedesca Suhrkamp a farne un libro completo e indipendente, prontamente tradotto dalla casa torinese dello Struzzo.
Ma chi è il signor Keuner, che ha accompagnato Brecht nella scrittura dal 1930 al 1956, l’anno della sua morte? È, appunto, il filosofo cinese che viveva in lui, filtrato dall’esperienza marxista e animato da una straordinaria tensione morale. Nel Libro delle svolte, Brecht è Me-ti, il Brecht teorico, dottrinario, politico, ma anche Kin-jeh o Ken-jeh, il poeta innamorato, che predica il contegno, la serenità, la cortesia e la benevolenza. Keuner, altrimenti detto «il pensatore», è la più compiuta fusione tra queste due anime. Ha qualcosa del signor K. (anche Kafka aveva nella sua stanza il ritratto di un vecchio saggio cinese) e conta tra i suoi discendenti anche il signor Palomar di Italo Calvino.
La verità è concreta, sosteneva Brecht. Le storie del signor Keuner (non soltanto «detti memorabili», ma scene, situazioni esemplari, teatro minimo, le ha definite Franco Fortini) contengono esattamente quel tipo di verità. Come scrive Moni Ovadia nella prefazione al libro, «sono un manuale di sopravvivenza in tempi di esilio e di perdita di senso: propongono la radicalità del pensiero come arma di resistenza per non soccombere al mondo e a se stessi». Non ce n’è forse bisogno soprattutto adesso?
Per spiegare che cosa sia la «verità concreta» basta una di queste storielle. Un giorno da Keuner si presenta un professore di filosofia, che intende raccontagli della sua saggezza. Keuner lo ascolta, poi lo interrompe. «Tu siedi scomodamente, parli scomodamente, pensi scomodamente», lo rimprovera. Il professore si arrabbia, gli dice che non voleva sapere qualcosa di sé, ma sul contenuto del suo discorso. Keuner lo raggela: «Non ha contenuto. Parli in modo oscuro e dalle tue parole non viene alcuna luce. Non vedo la tua meta, ma il tuo atteggiamento». Verità concreta. Grazie a Keuner, Brecht tocca vette d’inaspettata ironia: «Anch’io una volta ho assunto un atteggiamento aristocratico (sapete bene: diritto, impettito e superbo, la testa gettata all’indietro). Stavo infatti in una marea montante. Quando mi giunse al mento, assunsi quell’atteggiamento».
Oltre alla verità, i temi più cari a Keuner sono la saggezza, la povertà, l’onestà, l’amicizia, la poesia. Essendo un pensatore, gli preme innanzitutto la sobrietà: «Il pensatore non adopera un lume di troppo, un pane di tropp, un pensiero di troppo». Ama, infatti, più il contegno dell’azione e ai molti pensieri ne preferisce pochi: «Essenziale non è ciò che penso, bensì che penso poco». Vive con poco e non gli importa dove: «Posso patire la fame dovunque», dice. Se va in collera è soltanto quando incontra un nazionalista e, per un minuto, diventa nazionalista anch’egli. «Ed è per questo - riflette - che bisogna estirpare l’imbecillità, giacché essa rende imbecille chi la incontra». Un programma al quale oggi sarebbe urgente aderire.

Corriere della Sera 7.6.08
Il menestrello del rock non aveva mai appoggiato un candidato
Bob Dylan scommette su Barack «Cambierà l'America dal basso»
di Alessandra Farkas


NEW YORK — Quando snobbò i tour «Rock the Vote» di Bruce Springsteen per sostenere i candidati democratici Al Gore e John Kerry — entrambi poi perdenti — i critici gli dettero del «solito qualunquista». Ma se in mezzo secolo di leggenda Bob Dylan non ha mai pubblicamente appoggiato un candidato, neppure lui ha saputo resistere al trascinante fascino di Barack Obama. In una rara intervista al Times di Londra, il 67enne mito della musica dà per la prima volta il suo endorsement. Ad Obama. «L'America è in una fase di tumultuoso cambiamento — spiega Dylan —. La povertà è demoralizzante. Non ti puoi aspettare che la gente abbia la virtù della purezza quando è povera ». «Però — aggiunge — ora abbiamo un uomo che sta ridefinendo la natura della politica partendo dal basso: Barack Obama». Dylan si dice ottimista: «Si, spero che le cose possano cambiare. Alcune cose devono cambiare ». E conclude: «Dovresti sempre prendere il meglio dal passato, lasciarti alle spalle il peggio, e andare avanti nel futuro». Parole ricche di potere simbolico se è vero che, come ricorda il Times, «Dylan è il simbolo della generazione degli anni 60 e, insieme, l'architetto dietro il magico slogan "obamiano" all'insegna del cambiamento».
Il suo inno di protesta The Times They are A-Changin', del '64, sembra rivolgersi all'«era Obama» quando si appella a «critici e scrittori, senatori e deputati, madri e padri»; «non state sulla porta, non bloccate il passaggio »; «non criticate quello che non potete capire», perché «La vostra vecchia via sta decadendo molto in fretta » e «i tempi stanno per cambiare» (da Bob Dylan Lyrics 1962-2001, Feltrinelli). La notizia dell'endorsement è subito rimbalzata sul sito ufficiale
BarackObama.com. Tripudio per i fan del senatore dell'Illinois, che dal suo profilo personale su Facebook avevano già appreso che Dylan è il suo musicista preferito, insieme a Miles Davis, John Coltrane, Bach, Stevie Wonder e The Fugees. Barack, dopotutto, è cresciuto ascoltando Only a Pawn in Their Game e The Lonesome Death of Hattie Carroll, entrambi ispirati a due delitti razzisti del 1963, rimasti impuniti, contro neri innocenti: l'omicidio da parte di un white supremacist di Medgar Evers, attivista per i diritti civili e quello di Hattie, cameriera 51enne madre di 11 figli, uccisa dal 24enne proprietario di una piantagione di tabacco.
La mattina del 28 agosto 1963 Dylan eseguì Only a Pawn ai piedi del monumento a Washington, poche ore prima che Martin Luther King pronunciasse il suo discorso «I Have A Dream» davanti al Lincoln Memorial. Quarantacinque anni più tardi, suo figlio Jesse Dylan ha prodotto insieme ai Black Eyed Peas il cliccatissimo video musicale pro Obama con Kareem Abdul-Jabbar, Herbie Hanckock e Scarlett Johansson. Sarebbe stato Jesse a «convertire» il padre, insieme a Joan Baez, la sua ex. Anche per lei è il primo endorsement ufficiale.

Repubblica 7.6.08
Shakespeare filosofo
di Leopoldo Fabiani

Il genio di William Shakespeare è stato celebrato, commentato, analizzato in innumerevoli modi. Tra i meno consueti è sostenere la tesi il grande Bardo sia stato anche filosofo. Colin McGinn, studioso di filosofia della università di Miami, formatosi a Oxford, collaboratore della London Review of Books, ha esaminato sei capolavori shakespeariani (Amleto, Otello, Re Lear, Macbeth, Sogno di una notte di mezza estate e La tempesta) in chiave filosofica e ne ha tratto un libro che negli Stati Uniti ha suscitato molta curiosità e qualche discussione: Shakespeare filosofo. Il significato nascosto nella sua opera, che sarà pubblicato a luglio dall´editore Fazi.
L´idea che sta alla base del libro è che nelle sue opere Shakespeare abbia tentato di dare risposta a questioni squisitamente filosofiche come l´effettiva consistenza dell´"Io", la funzione manipolatoria del linguaggio, il concetto di causa, la possibilità della conoscenza del mondo da parte dell´uomo. E che il "genio senza tempo" sia stato comunque un uomo ben piantato nella sua epoca, influenzato da quanto gli avveniva intorno e attento alle novità. Secondo McGinn Shakespeare avrebbe conosciuto e sarebbe stato profondamente influenzato dalle opere di Montaigne (il cui saggio sui cannibali sarebbe a tra le fonti della Tempesta), e sarebbe poi approdato a una concezione scettica della vita (che viene dedotta in particolare dall´Amleto). Anche se l´idea che pensatori come Hume e Wittgenstein siano stati ispirati dal "canone" shakespeariano ha suscitato più di un dubbio, senz´altro il libro di McGinn apre prospettive nuove su un´opera di cui è facile pensare che tutto sia già stato detto.

Repubblica 7.6.08
La sinistra senza ideologia
di Nadia Urbinati

Se chiediamo a un elettore del Pdl le ragioni del suo voto, non avremo difficoltà a comprendere che tra le sue idee e quelle espresse dai ministri e rappresentanti del Pdl esiste una forte sintonia. Comunque giudichiamo quelle idee, è indubbio che la coalizione che ha vinto le elezioni ha un linguaggio ideologico strutturato e un nucleo di valori riconoscibili a chi li condivide e agli altri. La sua forza sta proprio qui, nel fatto di avere un peso che non è solo numerico. Sembra che da questa parte dello spettro politico la ricomposizione dei partiti nel dopo-1992 sia avvenuta e la transizione verso un nuovo assetto di valori e di soggetti politici si sia conclusa. Lo stesso non si può dire della parte sinistra.
A sinistra, la transizione è ancora in corso o probabilmente appena cominciata. La contro-prova? Se chiediamo a un elettore del Pd le ragioni del suo voto non ci vorrà molto a comprendere che, a parte la sacrosanta ragione "contro", manca tra lui e i suoi rappresentanti una comunanza di linguaggio e soprattutto comuni valori o punti di riferimento che valgano a orientare i giudizi politici. Anzi, su questioni centrali come la sicurezza e l´immigrazione, le idee dell´elettore Pd non paiono così diverse da quelle degli elettori del Pdl, salvo essere più moderate e meno populistiche (la qual cosa è comunque apprezzabile). Lo stesso si può dire della sinistra che siede in Parlamento, la cui agenda politica consiste di fatto in un´azione di aggiustamento delle posizioni della destra, per moderarne il tono più che invertirne la tendenza. Il centro-sinistra, e il Pd come suo partito più rilevante, sembra mancare di un´autonoma visione di società giusta o desiderabile, di un linguaggio o un nucleo di valori riconoscibili ai propri sostenitori e agli avversari. E c´è seriamente da dubitare che gli elettori del Pd comprendano o si identifichino sempre con ciò che i loro rappresentanti di volta in volta dicono o fanno.
La sinistra è afona perché è vuota di idealità, ed è vuota di idealità anche perché ha sottovalutato (e continua a sottovalutare) il ruolo dell´ideologia nella democrazia rappresentativa. Per anni abbiamo letto della fine delle ideologie come di un segno di avanzamento della razionalità politica e della modernità (un´espressione ripetuta ad nauseam) – abbiamo appreso che l´ideologia denota fideismo e un´identificazione quasi-religiosa, fattori che sono di ostacolo alla formazione di un giudizio politico spassionato e imparziale. È interessante osservare come l´appello alla politica come imparzialità abbia avuto successo essenzialmente solo a sinistra. Molta parte delle stessa teoria politica, quella liberale non meno di quella democratica, ha contribuito a questo scivolamento normativista della politica, coltivando l´idea, sbagliata, che gli elettori che si recano alle urne siano come i giudici che siedono in tribunale: che lascino a casa opinioni, passioni e interessi per avvalersi solo di una razionalità imparziale. Ma i cittadini (e i loro rappresentanti) non sono come i giudici né come i tecnici o gli amministratori di un´azienda. La ragione del giudice e quella della politica deliberativa non sono forme identiche di giudizio, anche se è desiderabile che il cittadino democratico sappia riconoscerne la differenza.
Indubbiamente le ideologie dei partiti di massa che hanno contribuito a ricostruire le democrazie nel dopoguerra sono definitivamente tramontate e con esse anche quel tipo religioso di ideologia. Ma l´ideologia non è solo fideismo mentre, d´altro canto, non è tramontato il bisogno di ideologia proprio perché le esperienze, le frustrazioni e le speranze che ci portiamo dietro quando andiamo (o non andiamo) a votare hanno bisogno di essere legate in un discorso compiuto che ci consenta di trascendere la nostra esperienza personale per riconoscerci come parte di un progetto pubblico più vasto e per riconoscere i nostri rappresentanti. Un popolo di elettori dissociati non è per se stesso capace di iniziativa politica. Ma una democrazia rappresentativa non è una folla di elettori dissociati come atomi, bensì una collettività di cittadini capaci di iniziativa politica, di giudizio e azione critica. L´iniziativa politica si avvale di un discorso compiuto nel quale gli attori (le idee e i loro portatori) devono poter essere riconoscibili per essere scelti e valutati. Ecco perché le democrazie rappresentative hanno un bisogno strutturale di ideologia. Hanno bisogno di punti di riferimento simbolici o ideali che consentano di raccogliere in unità i nostri interessi concreti e le nostre singole opinioni, distinguendoli da quelli di altri. È semplicemente insensato pensare che la democrazia possa esistere senza ideologie. Insensato e assurdo perché se davvero noi votassimo per candidati con i quali non ci sono legami ideali, non potremmo neppure operare alcun controllo indiretto su di loro, né quindi giudicarne l´operato a fine mandato. Senza una politica delle idee non c´è posto per il mandato politico.
La destra ha compreso molto più velocemente e meglio della sinistra la necessità dell´ideologia e si è mostrata capace di usarla sia come insopportabile adesione fideistica sia, e questo è più interessante, come linguaggio etico: il discorso della compassione e della benevolenza come correttivo del mercato, della critica comunitaria del "mercatismo" globale per dirla con il ministro Giulio Tremonti è, mi faceva giustamente notare un amico, l´unico discorso ideologico oggi in circolazione in Italia, l´unico punto di riferimento capace di orientare l´agire politico. Per quanto riguarda la sinistra, da anni essa sembra mossa da una logica autolesionistica improntata alla sistematica volontà di recidere legami ideali e infine sopprimere anche i luoghi di aggregazione. Scomparse le sezioni dei partiti, scomparso l´associazionismo politico che non sia solo militanza elettorale, si è ora pensato bene di mettere in questione (con l´intenzione di cambiarne il nome) anche un tradizionale appuntamento annuale di lavoro aggregativo come le feste dell´Unità. A chi giova? Una classe politica che non ha legami stabili e simbolici con il territorio e i suoi elettori non è soltanto un ceto politico autoreferenziale, ma anche una classe politica meno controllabile, il segno di una preoccupante trasformazione oligarchica.

il Riformista 7.6.08
Lo vuole ministro degli esteri ue per disinnescare la sfida nel pd
Veltroni cerca una poltrona europea per D'Alema


«Se non puoi batterlo, fattelo amico», recita il noto motto. «Se non puoi fartelo amico, trovagli un posto in Europa», suggerisce la chiosa all'italiana. Una variante che deve essere ben chiara a Walter Veltroni, se è vero che negli ultimi tempi il leader del Pd si sta muovendo per far ottenere a Massimo D'Alema un importante incarico a livello continentale: un modo per impreziosire il già ricco curriculum dell'ex ministro degli Esteri, e soprattutto di sottrarlo in via definitiva allo scontro interno al Pd, dove il fronte dalemiano resta il più critico sulle mosse (o «i continui errori», come si preferisce dire da quelle parti) di Veltroni. E l'occasione è data dalla nuova governance che l'Europa si darà a partire dal 2009 come previsto dal trattato di Lisbona, che istituisce la nuova figura del presidente del Consiglio europeo, ma anche quella dell'alto rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza. In due parole, il ministro degli Esteri dell'Ue. La casella ideale per gli interessi di D'Alema. Il quale, per quel che trapela dal quartier generale della fondazione Italianieuropei, è a conoscenza dell'attivismo di Veltroni e certo non è insensibile all'ipotesi di una carriera europea.
La strada non è spianata, ma nemmeno così impervia. Molto dipenderà da chi sarà il presidente del Consiglio europeo, perché la lottizzazione di Bruxelles impone, per le due poltrone in questione, un ticket popolar-socialista. Se per la principale dovesse farcela Blair, è impensabile che arrivi dal Pse anche il titolare degli Esteri. Viceversa, dovesse prevalere il fronte antiblairiano capeggiato da Angela Merkel, e che ha nel lussemburghese Jean-Claude Juncker il suo candidato alla presidenza, le possibilità di D'Alema salirebbero molto. La concorrenza non è infatti così folta. Il competitor numero uno è il socialista Solana, che ha opzionato la permanenza nel ruolo che, di fatto, già occupa con la benedizione del premier Zapatero. Ma la lunga militanza di Solana potrebbe anche rivelarsi un handicap.
L'agenda di Veltroni di questi giorni è molto europea. L'altroieri ha incontrato Martin Schulz, presidente del gruppo socialista a Strasburgo. Lunedì l'ex sindaco di Roma sarà a Berlino conferenza promossa dal Pse e dall'Spd sul futuro delle socialdemocrazie europee. Il primo nodo da sciogliere in queste sedi di discussione è la collocazione continentale del Pd in vista della tornata elettorale del prossimo anno, ma è probabile che Veltroni ne approfitti anche per tastare il terreno sulla candidatura D'Alema, che ovviamente, in caso di decollo, entrerebbe di forza nell'ordine del giorno del dialogo con Berlusconi e il centrodestra.
Questo scenario non basta comunque a placare il malumore dell'ex presidente Ds sulla situazione attuale. Sotto accusa resta ancora la linea del Pd verso l'esecutivo, considerata troppo incerta e spericolata nella sua alternanza di attacchi sul merito (vedi Alitalia e reato di immigrazione clandestina) e incontri semi-clandestini (vedi abboccamento Letta-Veltroni alla Camera). E prosegue la strutturazione della corrente. Dopo il rilancio della fondazione, i seminari e il varo della tv via satellite, è in preparazione anche un quotidiano on line. (Cappe)

venerdì 6 giugno 2008

l’Unità 6.6.08
Girotondo dell’orrore
di Elena Stancanelli


Violenze
Ci sono voluti molti anni
prima che le donne riuscissero
a ottenere una legge che
interpretasse lo stupro come
una violenza vera e non morale
Che imparassero a denunciarlo

La vicenda dell’italiano che stupra la ragazzina di quattordici anni marocchina ci colpisce non tanto per il fatto in sé, ma perché i ruoli sono ribaltati rispetto a quella che ci stiamo abituando a credere debba essere la norma. L’uomo nero è bianco e la vittima non sono io, o mia sorella, o la figlia di un deputato leghista. La vittima è una ragazzina cresciuta tra persone che le avranno insegnato cose diverse da quelle che impariamo e insegniamo noi nelle nostre famiglie. Probabilmente. O forse questa ragazzina è identica alle sue coetanee e compagne di classe, prega lo stesso dio e veste gli stessi jeans a vita bassa e le stesse canottiere.
Si fa le canne e tiene in camera il poster di Vasco Rossi o dei ballerini di Amici.
Non lo sappiamo, e non ci sembra nemmeno importante, oggi. Perché si tratta di una ragazzina di quattordici anni che un uomo, un mostro, ha portato in una casa e ha violentato, mettendola incinta. Per noi, giustamente, che porti il velo o no, vale quanto che si chiami Giulia o Federica. Nessuno si sognerebbe mai di pensare che, in uno dei due casi, la violenza sarebbe stata più dolorosa o più sopportabile. Un uomo di trent’anni che stupra una ragazzina, comunque questa ragazzina si chiami o si vesta, commette lo stesso reato e procura lo stesso immendicabile dolore nella vittima. Nessuno, nemmeno un idiota, potrebbe affermare il contrario.
Perché facendolo, giudicando un reato e le sue conseguenze in base alla religione, al colore della pelle e al modo in cui veste o mangia la vittima o il carnefice, produciamo uno slittamento che, piano piano, diventa mostruoso e immendicabile quanto la violenza stessa: cancelliamo il reato. Non esiste più la violenza sessuale di un uomo su una donna, una ragazzina, ma un ipnotico affastellarsi di attenuanti o aggravanti, giochi di prestigio per abili avvocati o politici senza scrupoli. Le chiacchiere si accumulano, i commenti, le tirate per la giacchetta da una parte all’altra. Ma al centro, immobile e nuda, sanguinante, rimane quella donna, quella ragazzina. Io, mia sorella, la figlia del deputato leghista.
Non ce lo dobbiamo dimenticare. Perché la cosa più complicata, nel caso della violenza sulle donne, non è mai stato trovare il colpevole, ma non dimenticare mai che esiste una colpevolezza. Non dimenticare che la violenza non confina con niente, non è la conseguenza di qualcosa e non somiglia a nulla, tantomeno all’amore. La violenza è il marcio che sbuca da noi quando la vita ci costringe dentro spazi troppo stretti, e non ci consente niente.
Non è facile. Ci sono voluti molti anni prima che le donne riuscissero a ottenere una legge che interpretasse lo stupro come una violenza vera e non morale. Che imparassero a denunciarlo, a sopportare l’orrore dello scherno, a scriverne e a parlarne. È quindi intollerabile che xenofobia politici dissennati e stupidità senza aggettivi ci riportino in tempi nei quali si voleva far credere che le donne andassero difese dalle aggressioni dei barbari, dei Sabini. In questo modo evitando di dover controllare cosa succedeva nelle nostre case, tra padri e figlie, nei posti di lavoro. Rumeno violenta italiana. Rumeno violenta rumena. Italiano violenta marocchina... Per quanto vogliamo declinare questo girotondo dell’orrore prima di riuscire a dire che si tratta della violenza di un uomo su una donna, e come tale è intollerabile?

l’Unità 6.6.08
Pillola del giorno dopo, il Pm non archivia il procedimento contro chi rifiutò la ricetta


Altri quattro mesi di tempo per indagare sul comportamento dei medici e infermieri del san Giovanni e dell’Umberto I che nel dicembre 2005 rifiutarono a una biologa di 37 anni la ricetta della pillola del giorno dopo per obiezione di coscienza. Un analogo procedimento sarà discusso l’11 giugno a Roma davanti al gip Luisanna Figliola. Qui il rifiuto di somministrare la pillola del giorno dopo il 5 dicembre 2006 all’ospedale Sant’Eugenio. La ragazza sporse denuncia, affiancata dall’associazione Luca Coscioni. Il magistrato chiede l’archiviazione ritenendo «che non sono emersi elementi utili per l’identificazione dei responsabili», mentre l’avvocato della donna si è opposto: «i medici che non forniscono la ricetta per la “pillola del giorno dopo” compiono un reato di interruzione di pubblico servizio e di omissione d’atti d’ufficio, non un atto di rispetto della propria coscienza non è previsto né consentito dalla legge, come per i profilattici e la contraccezione».

l’Unità 6.6.08
Oggi l’Udienza con Benedetto XVI
Incensa la Chiesa e frena sulla laicità:
il Cavaliere a rapporto da Ratzinger
di Roberto Monteforte


Vuole essere lui Silvio Berlusconi, l’unico, vero interlocutore politico della Chiesa in Italia. Liberatosi da chi nel centrodestra come il leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini, poteva ambire ad essere sponda delle sollecitazione vaticane sui «valori non negoziabili», ora che nel suo governo non spiccano interlocutori che possano presentarsi come referenti sicuri per i Sacri Palazzi, è tutta sua la piazza. D’altra parte, l’unica personalità dell’esecutivo su cui la gerarchia vaticana può contare è un suo fedelissimo, quel Gianni Letta, mente politica e gran tessitore di rapporti diplomatici del premier, talmente di casa e stimato Oltretevere da essersi guadagnato l’ambito titolo di «gentiluomo di Sua Santità».
Con l’incontro di oggi Berlusconi sa di giocarsi la carta dello statista, malgrado le intemperanze della maggioranza che lo sorregge. Lo fa partendo dall’apertura di credito già assicuratagli da Benedetto XVI con il pubblico apprezzamento nel suo discorso ai vescovi italiani per quel «clima nuovo» del paese e per quell’assunzione di responsabilità da parte dell’intera classe politica, impegnata a favore del «bene comune» apertasi. È l’effetto dopo-voto osservato con compiacimento dal pontefice. La Chiesa afferma di apprezzare stabilità e governabilità e il premier è pronto ad incassare. Mentre si affinano i temi dell’agenda del faccia a faccia tra il premier e il pontefice, cui hanno lavorato Gianni Letta, l’«uomo ponte» tra le due sponde del Tevere e il segretario di Stato, cardinale Tarcisio Bertone, spiana la strada all’incontro un’inconsueta e ampia intervista concessa da Berlusconi all’Osservatore Romano e a Radio Vaticana.
«La Chiesa è una ricchezza per lo Stato e il dialogo è aperto su ogni argomento» è la premessa impegnativa e suadente del premier che si fa garante ad un tempo delle prerogative e libertà della Chiesa, compreso quello di dire pubblicamente la propria, e della laicità dello Stato. Si ritaglia il ruolo di campione di quella «sana laicità» evocata anche nel recente viaggio negli Usa da papa Ratzinger. «La Chiesa e le sue organizzazioni hanno tutto il diritto di esprimere le proprie valutazioni e lo Stato laico poi esprimerà un suo giudizio e potrà seguire queste valutazioni nella sua azione politica» rassicura. «Con la Chiesa - aggiunge - è possibile ogni dialogo su ogni argomento» dato che, afferma, «la nostra Costituzione su questo punto è molto chiara». «Quindi - prosegue Berlusconi - non ci possono essere preclusioni alla manifestazione di opinioni e principi da parte di alcuno». Rigetta così la possibile accusa di ingerenza lanciata contro una Chiesa che spesso non si limita ad indicare le sue verità, ma fa anche pesare i suoi veti. Per Berlusconi la Chiesa è e continuerà ad essere un interlocutore essenziale, una «ricchezza per lo Stato» puntualizza «per la sua millenaria esperienza, per il suo contatto con tutte le fasce sociali, a cominciare dalle fasce sociali più deboli». Quindi detta la sua ricetta per un Stato che voglia restare laico: «Deve fuggire dal pericolo ideologico di diventare settario o addirittura totalitario». Perciò - spiega «il dialogo che precede il rapporto tra Stato e Chiesa è un dialogo assolutamente positivo che risiede nella natura stessa della società e dimostra la libertà e la pluralità della società». Conclude che «sarebbe una perdita significativa di libertà per lo Stato escludere e soffocare manifestazione e convinzioni della Chiesa». Nel suo ragionare il premier spazia da problemi come l’emergenza alimentare e le contraddizioni della globalizzazione - cui la Santa Sede è sensibilissima - al centro della recente assemblea della Fao, al ruolo della Ue e dell’Europa di fronte alle emergenze sociali, compresa la questione giovanile, rassicura la Chiesa che chiede valori di riferimento da offrire per contrastare il pericolo dell’egoismo sociale. Indica le iniziative che il governo assumerà a favore della famiglia. Rassicura sul nuovo clima politico tra maggioranza, governo e opposizione. Offre aperture e disponibilità al suo illustre interlocutore che lo riceverà questa mattina in udienza. Ed anche possibili risposte ai temi che molto probabilmente Benedetto XVI gli sottoporrà e poi affronterà con il cardinale Bertone. Troverà un interlocutore attento e disponibile. È indicativa quell'inusuale espressione di «gioia» usata dal Papa nel suo discorso ai vescovi, per sottolineare il nuovo clima registratosi con il dopo elezioni. Come il costante richiamo del pontefice al «bene comune», alla difesa della vita e contro l’aborto, con l’esplicito invito a rivedere la legge 194, quindi le esigenze delle famiglie, istituto da rafforzare e da proteggere mettendolo al riparo da possibili equiparazioni con le unioni civili e introducendo il «quoziente» familiare, e ancora il nodo del lavoro e della condizione giovanile, l’emergenza educativa che per Benedetto XVI non vuole dire soltanto valori da trasmettere, ma anche, più prosaicamente, finanziamenti alle scuole cattoliche . Vi sono i temi di politica internazionale, vi è anche quello della sicurezza e dell’immigrazione da coniugare con i diritti della persona. Siamo sul «non negoziabile» per la Chiesa. E anche per la Lega.

l’Unità 6.6.08
Ferrero è in testa e Bertinotti
torna per aiutare Vendola
di Simone Collini


C’è chi guarda al pomodoro olandese (il “partito sociale” a cui punta Paolo Ferrero) e chi si interroga ancora sulle ragioni della sconfitta (Fausto Bertinotti), chi prova a far decollare il ticket per la costituente della sinistra che verrà (Nichi Vendola-Claudio Fava, primo faccia a faccia pubblico lunedì alla Festa della sinistra, a Genova) e chi si abbandona a una «dormita conviviale nel verde per combattere il mito della crescita infinita» (sabato a Torino, in chiusura della tre giorni titolata “Sinistra pride”). Libera da impegni parlamentari, la sinistra radicale prepara i congressi estivi ma intensifica anche le iniziative che dovrebbero portarla a risalire la china. Gli appuntamenti in piazza sono all’insegna dell’ottimismo, ma all’interno dei partiti il clima è tutt’altro che buono, complici gli ultimi sondaggi (il Prc non si muove dal 2,9% e il Pdci ruota attorno allo 0,9%) e divisioni precongressuali che nessuno sa dire a cosa potrebbero portare una volta che i congressi saranno terminati.
I rapporti più tesi si registrano dentro Rifondazione comunista, nella quale la discesa in campo di Vendola finora non ha portato alla linea bertinottiana della costituente della sinistra quel valore aggiunto che ci si era aspettati: alla fine delle votazioni nei comitati politici la mozione con cui il governatore della Puglia si candida a segretario del Prc ha incassato la maggioranza dei consensi nelle regioni del sud e nelle isole, ma nel nord a prevalere è stata la mozione Ferrero-Grassi, che ha anche ottenuto un successo superiore alle aspettative in una regione importante come la Toscana. È vero, come dice l’ex responsabile Organizzazione del partito Francesco Ferrara, che il vero congresso inizia ora e che finora sono stati consultati soltanto i gruppi dirigenti. Ma visti i botta e risposta delle ultime settimane, è facile intuire cosa succederà se la mozione Vendola vincerà senza però ottenere il 50%, oppure se (visto che dalla mozione Ferrero-Grassi già è partita qualche frecciata su un presunto tesseramento gonfiato nel sud) il governatore vincerà grazie ai tanti iscritti di Puglia, Campania e Calabria, pur non riuscendo a prevalere nelle regioni dal Lazio in su.
A rilanciare nei prossimi giorni la proposta della costituente di sinistra sarà Bertinotti. L’ex presidente della Camera ha pianificato una graduale rentrée politica che prevede lunedì la presentazione a Roma del libro di Piero Bevilacqua “Miseria dello sviluppo”, martedì un dibattito a Genova con Edoardo Sanguineti, giovedì un convegno dal titolo “Le ragioni della sconfitta”: Bertinotti aprirà e chiuderà i lavori, e con lui ci saranno Vendola, Rossana Rossanda, Ritanna Armeni, Franco Giordano, Alfonso Gianni.
Nello stesso giorno, nelle stesse ore, Ferrero sarà a un convegno sul cosiddetto «partito sociale», insieme all’ex ministro della Pianificazione sociale del governo del Venezuela Jorge Giordani e al parlamentare del Partito socialista olandese Tiny Cox. Il progetto di rilancio di Rifondazione, nelle intenzioni dell’ex titolare della Solidarietà sociale, si ispira proprio al cosiddetto partito del pomodoro (è nel simbolo, come richiamo alla protesta), che grazie al forte radicamento locale e alla centralità data alla questione morale (tetto massimo degli stipendi dei suoi eletti fissato a 2000 euro) è passato negli ultimi cinque anni dal 6 al 16%. Al convegno ci saranno associazioni di base che sperimentano pratiche contro il carovita, palestre popolari, centri sociali. «Non è un caso che organizziamo l’iniziativa al Pigneto», dice il responsabile politiche sociali del Prc Francesco Piobbichi.
Anche nel Pdci le acque si fanno piuttosto agitate. Per la prima volta dalla nascita del partito, ci saranno mozioni contrapposte a quella del segretario. A sfidare Oliviero Diliberto e la linea dell’«unire i comunisti» sarà Katia Bellillo, prima firmataria della mozione «Unire la sinistra». Nel documento si dice che «bisogna superare tutte le posizioni settarie e anacronistiche» e che «fra la sinistra e il Pd dobbiamo costruire un leale rapporto di collaborazione-competizione». Potrebbe non essere la sola a sfidare il segretario, visto l’attivismo dimostrato in commissione politica da Marco Rizzo, il suo parlare di una più specifica «costituente dei comunisti» e l’insistenza con cui ricorda che lui l’aveva detto che l’Arcobaleno era un fallimento. Se verrà bocciata la proposta di andare al congresso con documenti emendabili, Rizzo potrebbe uscire allo scoperto al comitato centrale di questo fine settimana, data ultima per la presentazione delle mozioni.

l’Unità 6.6.08
I conti in tasca a Santa Romana Chiesa
di Giancarlo De Cataldo


NELLA «QUESTUA» Curzio Maltese indaga sul «viaggio del denaro» verso il Vaticano: quattro miliardi di euro l’anno, dei quali solo una parte minima viene destinata a opere di carità...

Perché siete diventati, di colpo, così duri, così intransigenti, ho chiesto a un amico cattolico, un signore ben addentro alle vaticane cose? Perché tanta insistenza, così ossessiva, sulla morale individuale, sulla sessualità, sulla tradizione? Perché quando abbiamo mollato, è stata la laconica risposta, stavamo scomparendo. Papa Giovanni, la Populorum Progressio, la Promozione Umana, la Teologia della Liberazione... tutto questo ci stava condannando all’estinzione. Tutte le fedi si rafforzano, noi non potevamo tirarci indietro. Il dialogo, in sostanza, non paga. E il rafforzamento della fede costa, e costa caro.
La Chiesa impiega solo una parte minima dell’8 per mille in opere di carità (fonte Cei). Il resto va in proselitismo, in rafforzamento dell’istituzione. Nella gestione di molteplici attività a sfondo imprenditoriale. E in egemonia culturale.
Ecco una delle tante informazioni che si ricavano da La Questua, l’inchiesta di Curzio Maltese sul potere economico della Chiesa cattolica che ha meritato all’autore gli strali del cardinal segretario di Stato della Santa Sede (con la collaborazione di Carlo Pontesilli e Maurizio Turco, Feltrinelli serie bianca, pagine 172, euro 14,00). Finiamola! ha tuonato l’altissimo prelato. La lettura del libro giustifica una simile reazione: Maltese, nella sua documentatissima indagine, ignora e trascura la superficie, il pettegolezzo, il facile veleno del gossip. Va diritto al cuore del problema, usando un punto di vista particolare - diciamo il «viaggio del denaro» - come escamotage narrativo per raccontare una storia ben più problematica e articolata. E costringe il lettore a confrontarsi con il tema del rapporto fra Chiesa e Stato nell’Italia di oggi, e, più in generale, fra laici e credenti nel mondo contemporaneo.
La Chiesa costa ogni anno, alle tasche degli italiani, quattro miliardi e passa di euro. Approssimato per difetto, l’equivalente del costo della «Casta» secondo il bestseller di Stella&Rizzo. Soltanto una piccola parte di questo «bendiddio» (come abbiamo visto) finisce in opere di assistenza e concreta carità. La Chiesa dispone di un patrimonio immobiliare talmente imponente da sfuggire, nella sua reale estensione, agli stessi detentori. La Chiesa è uno dei più intelligenti e spregiudicati operatori turistici sul mercato. Notizie di pubblico dominio, oltretutto mai smentite (e non risultano, allo stato, querele). Maltese scrive per un giornale che ha appoggiato i governi di centrosinistra mentre la Chiesa sembra essersi da tempo «posizionata» sull’opposta sponda. Eppure, la Questua è decisamente bipartisan. Sottolinea come l’intera classe politica- tranne rarissime eccezioni- sia da sempre estremamente sensibile al prestigio (e al peso elettorale) della Chiesa. Non omette di menzionare, ma anzi evidenzia, assai criticamente, l’impegno del cattolico Prodi nell’evitare il confronto, sollecitato dall’Unione Europea, sui privilegi fiscali dei beni ecclesiastici. Riconosce al centro-sinistra il «merito» di aver favorito le scuole cattoliche con agevolazioni negate per cinquant’anni dai governi a maggioranza democristiana. Maltese non è nemmeno un acceso anticlericale. Non tratta la Chiesa da «casta» in termini sprezzanti. Evita accuratamente giudizi approssimativi, rifiuta di confondere santi e faccendieri, si allontana orgogliosamente dal coro dei livorosi libellisti che alimentano la cultura del sospetto e del mugugno. Il suo rispetto nei confronti dell’istituzione d’oltretevere è palese. Ammira i preti di frontiera, i volontari che combattono in situazioni estreme, gli ambasciatori di pace, quelli che combattono dalla parte degli ultimi. A tratti affiora persino una venatura di nostalgia per quell’Italia più povera, ma più solida e solidale, nella quale alla parrocchia e alla sezione del Pci era rimesso il compito, fondamentale, di accompagnare, sostenere, educare i nostri ragazzi. Nonostante tutto questo, o, meglio, proprio a causa di tutto questo, ben si comprendono il diktat prelatizio e la «reazione a catena» degli ambienti cattolici di cui parla, nell’introduzione al volume, Ezio Mauro.
Maltese ha un peccato originale: è un laico. E lo rivendica nel momento nel quale più acuto e conflittuale è il distacco fra il sentire laico e quello religioso.
Il suo racconto, intessuto di regalìe, spregiudicate operazioni finanziarie, abili inziative imprenditoriali, segnato da qualche nefandezza e da qualche eroismo, coinvolge davvero tutti: santi e faccendieri, credenti e non. E il «viaggio» del denaro e dei beni materiali può illuminarci, sui nodi di fondo, meglio di tanti saggi di ben più ambizioso spessore. Fra Stato e Chiesa c’è un patto non scritto. Lo Stato, smantellando il welfare, si ritira da territori che la Chiesa prontamente occupa. Gli ultimi, abbandonati a sè stessi dall’imperante neoliberismo, sono affidati alle mani amorevoli di un’istituzione millenaria. Donazioni, esenzioni, accumulazioni sono il prezzo dello scambio. Ma un simile accordo può reggere, e rivelarsi un bene per tutti, solo a condizione di assoluta reciprocità. Il che accade quando il laico e il credente, e le istituzioni che li rappresentano, si «sentano» simili. Ovvero, rispettino ciascuno le sfere di propria competenza. Argomento che è alla base del sentire laico ma che, oggi, la grande maggioranza dei credenti rifiuta. La grande bestia nera della fede si chiama relativismo etico. Categoria concettuale incompatibile con il regno dell’assoluto che impone altrettanto assoluta adesione. Nelle parole dell’amico addentro alle vaticane cose c’è il riconoscimento di una verità che il laico Maltese non può non condividere: esiste, oggi, un limite, nel dialogo, oltre il quale il credente non può spingersi. Anche perché - in perfetta buona fede - per un credente, oggi più che mai, il laico è un oggetto misterioso. Come può accadere, ad esempio, che un laico si prodighi per gli ultimi, assista i malati, si prenda cura della famiglia se non gliel’ha comandato Dio? Perché non si limita ad arricchirsi e a peccare, come ogni altra creatura che non è ancora stata toccata dalla Luce? Dal mistero alla conversione il passo è breve. Quella pecorella smarrita deve essere ricondotta alla ragione. Rectius: alla fede. In questa situazione di contrapposizione, è quanto meno paradossale che uno dei due contendenti finanzi generosamente l’altro. Ma è esattamente ciò che accade, oggi, in Italia. Ed è la rivelazione del paradosso, con ogni evidenza, a suscitare lo «scandalo».
Lo Stato, ufficialmente laico, finanzia un’istituzione che non riconosce il valore della laicità, ed utilizza, in larga misura, i soldi che le vengono elargiti per rivendicare la propria ostilità contro di essa. La Chiesa istituzione ne esce rafforzata, lo Stato indebolito, quasi succube.
E poiché un paradosso tira l’altro, nota Maltese, citando autorevoli commentatori cattolici (di solito decisamente più acuti e coraggiosi di tanti maestri del pensiero laico), la Chiesa non è mai stata così forte mediaticamente ed economicamente, e così debole nella sua «presa» sul quotidiano. Proprio quella «presa» che l’egemonia culturale dovrebbe garantire.
Difficile dar torto ai cardinali e ai commentatori che intuiscono l’humus insidioso di questo libro. Difficile, anche, dar torto ai fatti che Maltese enuncia. E forse impossibile condividere la sua speranza finale: che, cioè, un giorno (ma quando?) una forza autenticamente riformista e riformatrice batta un colpo alle porte del Vaticano.

l’Unità 6.6.08
La lunga strada dei diritti umani
di Souhayr Belhassen


Pubblichiamo alcuni stralci dell’intervento tenuto a Orvieto da Souhayr Belhassen (presidente della Federazione internazionale delle leghe dei diritti umani) vincitrice del premio internazionale diritti umani «Città di Orvieto».

L’anniversario della Dichiarazione ci fornisce anche l’occasione per evidenziare come ogni giorno con le nostre lotte noi guadagnamo terreno. E quando dico noi non intendo semplicemente la Fidh, ma le donne e gli uomini che difendono l’universalità della dichiarazione nella vita quotidiana.
Tra i successi ottenuti desidero evidenziare due avvenimenti ai quali la Fidh tiene particolarmente, in quanto frutto di una fortissima mobilitazione delle nostre organizzazioni sul campo.
Si tratta in primo luogo dell’arresto di Jean-Pierre Bemba Gombo a Bruxelles, una settimana fa, a seguito del mandato di cattura della Corte penale internazionale. Ex Vice-Presidente della Repubblica Democratica del Congo, presidente e comandante in capo del Movimento di Liberazione del Congo (MLC), Jean-Pierre Bemba è ritenuto responsabile di crimini di guerra e di crimini contro l’umanità compiuti sul territorio della Repubblica centrafricana. Sotto la sua direzione, le truppe del MLC avrebbero in effetti portato un attacco sistematico e generalizzato contro la popolazione civile e commesso stupri e atti di tortura.
La Fidh e le sue organizzazioni aderenti sono state le prime ad indagare su questi tragici avvenimenti e a darne notizia, attraverso la testimonianza di vittime di gravi crimini internazionali. L’arresto di Jean-Pierre Bemba è una grande vittoria per le vittime centrafricane, il cui coraggio e la cui abnegazione debbono oggi essere messi in evidenza. Si tratta di un fantastico passo avanti nella lotta contro l’impunità in Africa e nel mondo, e in particolare nella lotta contro le violenze a danno delle donne in tempo di guerra.
Questo arresto avviene sulla scia dell’apertura, nello scorso dicembre, del processo ad un altro grande criminale, l’ex dittatore peruviano Alberto Fujimori, indagato per omicidi, attentato all’integrità fisica e sequestro aggravato.
Fujimori aveva cercato per quasi sette anni di sfuggire alla giustizia rifugiandosi prima in Giappone e poi in Cile, paese dal quale è poi stato estradato. Il 12 dicembre è stato condannato a sei anni di prigione per aver mandato uno dei suoi collaboratori a rubare dei documenti presso il capo dei servizi segreti. Egli risponde attualmente del massacro di 25 persone a Barrios Altos e all’Università di Cantuta nel 1991 e 1992 ad opera di uno squadrone della morte, il gruppo Colina, di cui sarebbe l’ispiratore. Egli è anche implicato nel sequestro di un imprenditore e di un giornalista, oppositore del suo regime, imprigionati negli scantinati dei servizi segreti nel 1992. Il procuratore ha chiesto una condanna a 30 anni. È una buona notizia, in quanto si tratta del primo presidente ad essere giudicato nel suo stesso paese, dopo essere stato estradato da un paese terzo. Un’eccellente notizia perché questo processo mette fine a più di 15 anni di attesa per le vittime, sostenute durante tutto questo periodo dalla Fidh e dalla sua organizzazione aderente in Peru, l’Aprodeh.
Se sottolineo questi successi è perchè essi ci sono necessari per continuare a far fronte alle violazioni in tutto il mondo, per dare speranza alle vittime, per continuare a credere, malgrado l’attualità spesso troppo moribonda, che l’universalità dei diritti umani può essere realizzata.
Tuttavia questa lotta è ancora lunga, dobbiamo mobilitarci e rimanere sempre vigili. Vigili affinché non si torni indietro. E dico questo oggi qui, in Italia, un paese che fu tra i primi a lottare per i diritti umani.
È in effetti in Italia che è nato San Tommaso d’Acquino, teologo e filosofo, uno dei primi a parlare dell’esistenza di diritti inalienabili della persona, che si impongono al sovrano. Ancora fortemente impregnati del diritto divino, questi scritti furono tra i primi a riconoscere l’esistenza dei diritti umani, di tutti gli uomini.
Nel 18° secolo Cesare Beccaria insistette affinché si rifiutasse di considerare il criminale un individuo da escludere dalla società. Egli dimostrò che la pena di morte non ha alcuna legittimità in quanto è impossibile che l’individuo decida naturalmente di delegare allo Stato il suo diritto alla vita. Una lotta che continuiamo a combattere oggi in tutto il mondo, e di cui l’Italia è uno dei grandi difensori presso l’Assemblea generale delle Nazioni Unite.
Ma la lotta per il riconoscimento di questi diritti richiede la nostra vigilanza e deve rispondere a nuove sfide:
Le sfide, qui, sono quelle poste dal Vaticano che, un anno fa, dopo la mobilitazione di Amnesty International a favore dei diritti riproduttivi, ha invitato, attraverso la voce del Cardinale Renato Martino, tutte le persone di fede cattolica a sospendere il loro sostegno all’organizzazione che difende i diritti umani, accusandola di aver "tradito la sua missione".
in Italia, lo Stato affronta la sfida della non discriminazione violando tale diritto, rimandando collettivamente i romeni nel loro paese d’origine e facendo subire a una intera comunità le conseguenze delle malefatte di alcuni connazionali. Vi è una frontiera tra la responsabilità individuale e l’accusa collettiva, passare dall’una all’altra, come ha fatto il Consiglio italiano, nell’ottobre scorso, significa adottare atteggiamenti razzisti.
Le sfide sono anche quelle poste dal Tribunale di Bologna e dalla Corte di Cassazione italiana che hanno riconosciuto il diritto della sharia e, in nome della tradizione e della religione, hanno rifiutato di condannare i comportamenti violenti inflitti dai membri della sua famiglia a Fatima, una giovane donna di origine musulmana. Fatima era stata sequestrata e legata ad una sedia e poi brutalmente picchiata, come punizione per le sue amicizie e il suo stile di vita. La Corte di Cassazione ha assolto la sua famiglia ritenendo in primo luogo che la giovane donna fosse stata picchiata "non per motivi vessatori e per disprezzo", ma - e riconosce la motivazione di questi atti - per dei comportamenti "giudicati non corretti". I diritti umani, qui il diritto di non essere percosso, debbono essere gli stessi per tutti, senza distinzione di religione.
Infine le sfide sono quelle poste dal Governo italiano quando, queste ultime settimane, in un pacchetto di riforme per la Sicurezza, fa un amalgama riprovevole tra l’immigrazione e la criminalità.
La Fidh è particolarmente preoccupata per queste nuove disposizioni, che vanno ancora una volta nel senso della stigmatizzazione degli stranieri, della restrizione dell’accesso alle procedure di asilo e di una gestione puramente repressiva del fenomeno migratorio. Dalla mia elezione alla presidenza della Fidh ho potuto visitare in Europa dei centri di detenzione di immigrati e richiedenti asilo in Polonia o in Belgio e constatare ogni volta la miseria umana di intere famiglie, di bambini privati della loro libertà.
Poco tempo fa avevamo indagato, insieme all’Unione per la Tutela dei diritti dell’uomo (Uftdu) la nostra organizzazione partner in Italia, sulla realizzazione del diritto di asilo e siamo costretti a constare che i responsabili italiani fanno fatica ad uscire da questo circolo infernale.
È ormai tempo che gli Stati europei, e l’Italia in particolare, adottino delle politiche ambiziose che prendano in considerazione i diritti inalienabili dei migranti.
Per i 60 anni dalla Dichiarazione universale dei diritti umani esprimiamo l’auspicio che venga riaffermata la sua universalità, non solo per le popolazioni più lontane dall’Europa, ma anche nelle nostre città e nelle nostre contrade, per i nostri vicini, tutti i nostri vicini, queste donne e questi uomini che vivono accanto a noi. È dalla nostra capacità di riconoscere i loro diritti che riusciremo a trarre la nostra legittimità e a rivendicarli per tutti e dovunque.

Corriere della Sera 6.6.08
Frontiere Test e studi psichiatrici dimostrano come lo sviluppo della sfera intellettuale renda gli individui prudenti e tradizionalisti
L'intelligente non è creativo troppo talento frena il genio
Darwin, Einstein e Churchill furono anticonvenzionali e cattivi studenti
di Edoardo Boncinelli


Per molti autori la creatività è parte integrante dell'insieme di capacità e abilità comprese sotto il nome di intelligenza. Altri autori, invece, sostengono una sostanziale autonomia delle capacità creative rispetto a quelle dell'intelligenza. In particolare, se si concepisce l'intelligenza come un costrutto i cui contorni sono delineati interamente dagli strumenti di misura utilizzati nelle ricerche empiriche, cioè se viene misurata come l'insieme delle capacità che contribuiscono a favorire risposte corrette a quesiti di natura verbale o logico- matematica, la creatività deve necessariamente essere concepita come separata dall'intelligenza. Fornire risposte corrette a quesiti che richiedono estese conoscenze e l'applicazione di regole o formule esclude quasi automaticamente l'uso di capacità che si basano sull'innovazione.
Ciò che è nuovo, infatti, non necessariamente è derivabile da quanto precedentemente noto, e anche quando la fonte dell'innovazione si basi su fatti o materiali noti, la loro associazione nel determinare il nuovo prodotto non risulta dall'applicazione di regole condivise: in caso contrario non si avrebbe una novità, ma solo l'estensione di quanto già conosciuto.
In questa linea, gli studi indicano che i soggetti creativi tendono a riportare un punteggio elevato nei test di intelligenza generale. Però, quando tali misure di intelligenza sono poste in relazione con indici di creatività basati sul giudizio di terzi o in base ai risultati conseguiti (numero di opere, premi ricevuti, e così via), intelligenza e creatività si dimostrano scarsamente correlate tra loro.
Un problema di non poco conto è la mancanza di test adeguati per la misurazione delle capacità creative, analoghi a quelli utilizzati nella ricerca sull'intelligenza. Molti test sviluppati a tale scopo hanno dimostrato una affidabilità e una specificità molto modeste.
Il principio base utilizzato nella creazione di molti test di creatività fa riferimento al carattere indeterminato e non regolamentabile della creatività. Molti test per la misurazione della creatività, quindi, sono costruiti in forma di risposta aperta o multipla, dove la singolarità e rarità della risposta, rispetto alla media, costituisce elemento indicativo. Un simile criterio, ovviamente, permette anche l'inclusione di risposte totalmente implausibili. Soggetti apertamente disturbati possono fornire risposte inusuali, e quindi giudicate creative, senza esserlo realmente.
Misurare la creatività in azione appare assai difficile, anche perché resta ancora da dimostrare il potere di predizione delle risposte date a questi test. A differenza dei test di intelligenza, infatti, i test di creatività non si sa ancora se siano o meno in grado di prevedere la riuscita in campo creativo. Per quanto riguarda i primi, cioè i test di intelligenza, i pochi studi condotti sino a oggi non sembrano indicare un vantaggio particolare di un elevato quoziente d'intelligenza ai fini del successo in campo creativo. Essere intelligenti, probabilmente, è un prerequisito per l'espressione della creatività, ma essere pienamente creativi implica il possesso di qualità distinte da quelle che contribuiscono all'espressione dell'intelligenza.
Secondo alcuni autori, l'intelligenza in certi casi può addirittura costituire un freno alla piena espressione della creatività. Secondo lo psichiatra Silvano Arieti, che ha dedicato importanti studi alla relazione tra creatività e malattia mentale, un'intelligenza troppo sviluppata può inibire le risorse interiori dell'individuo, poiché la sua autocritica diventa troppo rigida, o perché egli impara troppo presto ciò che l'ambiente gli offre, diventando così costretto entro i limiti della tradizione. Secondo Arieti, infatti «una grande capacità di dedurre secondo le leggi della logica e della matematica crea dei pensatori disciplinati ma non necessariamente delle persone creative», un'affermazione questa che mi sento molto di condividere e che io uso esprimere dicendo che «spesso il talento può fare ostacolo al genio». Da una parte, le persone alle quali riesce sempre tutto, magari alla prima, non hanno forse la spinta interiore per impegnarsi allo spasmo e possibilmente divenire creativi, dall'altra, un eccessivo adattamento alle convenzioni sociali sicuramente limita l'espressione della creatività. Il soggetto creativo solitamente sente la norma come una costrizione, e il suo desiderio di superare i limiti del già noto lo pone talvolta in forte contrasto con la società.
Attitudini di personalità orientate in senso anticonvenzionale possono essere presenti già in età scolastica, e influenzare negativamente l'adattamento scolastico. Darwin, Einstein e Churchill ebbero difficoltà scolastiche, anche notevoli. È possibile, però, che tali difficoltà originassero da fattori non necessariamente legati alle loro successive realizzazioni creative. Di Darwin è nota una propensione all'ipocondria, e pare abbia sofferto di attacchi di panico. Churchill soffrì di psicosi maniaco-depressiva. Einstein era forse affetto da disturbi dell'attenzione, e possedeva un'inusuale capacità di pensare per immagini, che si accompagnava a un'altrettanto pronunciata tendenza ad astrarsi da quanto lo circondava.
Un altro aspetto che è emerso dagli studi dedicati alla personalità dei soggetti creativi è l'estremo attaccamento che mostrano nei riguardi della loro attività. Tale dedizione si accompagna, in genere, a una considerevole competenza e conoscenza degli argomenti collegati alla professione scelta. Seppure non è possibile programmare la creatività, pure si può preparare insomma il terreno per la miglior riuscita del «seme» dell'evento creativo. Ampliare e approfondire al massimo le conoscenze nel campo in cui si vuole esprimere la propria creatività diventa quindi una strategia che, se non assicura il risultato, pure lo rende assai più probabile.
La sola conoscenza non è però sufficiente per la realizzazione del potenziale creativo. È necessaria anche la pratica, e la continua messa alla prova delle proprie capacità. Il creativo che si esprima una sola volta, dedicandosi poi alla coltivazione della propria unica scoperta, è molto raro. In genere i soggetti creativi tendono a essere produttivi, esprimendosi anche in campi non direttamente collegati al proprio principale settore. Leonardo da Vinci è l'esempio più noto di creativo universale.
La «spinta a creare» è un altro elemento che caratterizza le personalità maggiormente creative. Tale impulso a produrre distingue il creativo dall'esecutore e lo conduce, talora, a trascurare ogni altra attività. L'inventore che si rinchiude in un eremo a sperimentare le proprie creazioni è solo una parodia di quanto accade nella realtà, ma l'aneddotica è ricca di esempi di scienziati che trascurano ogni cosa per stare dietro alla propria ultima intuizione, sino al punto di dimenticarsi di se stessi e dei propri impegni.

Il testo pubblicato in questa pagina è tratto dal saggio di Edoardo Boncinelli Come nascono le idee (Laterza, pp. 154, e
10), in uscita oggi. Insieme al libro di Guido Barbujani e Pietro Cheli Sono razzista, ma sto cercando di smettere (Laterza, pp.
144, € 10), il volume inaugura la collana «I libri del Festival della Mente», frutto della sinergia fra Laterza e l'omonima manifestazione, diretta da Giulia Cogoli, che si tiene ogni anno a Sarzana. La collana comprende testi in cui sono sviluppati i temi di conferenze svolte al Festival della Mente.

Corriere della Sera 6.6.08
Pechino, capitale imperiale
Da Cattaneo alle Olimpiadi
di Giuseppe Galasso


Perché — si chiedeva Carlo Cattaneo nel 1858 — definiamo «barbara» l'Asia? La risposta era di grande interesse. «Non è già — diceva — che non siano quivi sontuose città; che non siavi agricoltura e commercio, e più di un modo di squisita industria, e certa tradizione d'antiche scienze, e amore di poesia e di musica, e fasto di palazzi e giardini e bagni e profumi e gioie e vesti ed armature e generosi cavalli e ogni altra eleganza». Non era, dunque, in ciò la barbarie dell'Asia, bensì nel fatto che «in ultimo conto quelle pompose Babilonie sono città senz'ordine municipale, senza diritto, senza dignità», come «esseri inanimati, inorganici, non atti a esercitare sopra sé verun atto di ragione o di volontà, ma rassegnati » a subire un «fatalismo», ossia un destino di sottomissione, che non era «figlio della religione, ma della politica». E di qui «il divario tra la obesa Bisanzio e la geniale Atene». È un brano letterariamente bello di Cattaneo, importante anche perché attesta un'idea a lungo diffusa sulla storia civile dei Paesi extraeuropei. Per Cattaneo le città erano il luogo storico in cui meglio lo si vedeva. In Occidente, autonomia e libertà delle città. Altrove non libertà cittadina, né libere città-stato, né liberi comuni; e, quindi, neppure alcunché della libertà dei moderni.
Tesi discutibile, ma con qualche motivo, e in specie allora, che di storie di città non occidentali si sapeva poco. Oggi se ne sa molto di più, e si sa che la città non è affatto un monopolio occidentale. E, tuttavia, il nucleo duro del giudizio di Cattaneo conserva un senso. Lo confermano Lilian M. Li, Alison J. Dray-Novey e Haili Kong nel loro
Pechino. Storia di una capitale
(Einaudi). Dal secolo XIII, coi Mongoli, capitale di tutta la Cina, Pechino appare, infatti, storicamente dominata dal suo ruolo di capitale imperiale (solo dal 1928 al 1949 non lo è stata). Da otto secoli la vita della città gira, quindi, intorno a tale ruolo. Sottoposta a un rigido controllo statale, dicono le autrici, «Pechino non ha una tradizione di élite locale quali un'aristocrazia ereditaria o un notabilato», né i suoi mercanti divennero ricchi e influenti come a Costantinopoli o in varie città islamiche, mentre «alti funzionari e altre persone importanti» venuti da fuori vi risiedettero, ma senza stabilirvisi. Perciò, «la funzione dirigente dell'élite locale e la sua partecipazione al governo della cosa pubblica», consuete in Cina, «a Pechino sono, invece, deboli e rare». Una «identità urbana indipendente » la città sembrò acquisirla solo dopo la caduta dell'impero nel 1912. Ci si contrappose, così, come Jingpai o «scuola di Pechino» (gradualismo politico e spirito teorico, raffinatezza culturale, elitismo conservatore), a Haipai o «scuola di Shanghai» (di sinistra e radicale, impegno sociale, azioni immediate).
Ciò non significa che la storia di Pechino sia monotona o unidimensionale o «senza qualità ». È la storia di una metropoli di un milione d'abitanti già secoli fa, quando questo era una rarità; che vide impiantarsi e trasformarsi un assetto urbano grandioso, con una topografia e con una monumentalità eccezionali (si pensi solo alla «città proibita »), con istituzioni culturali e con ordinamenti amministrativi di grande interesse storico; che fu il centro dell'azione politica di uno dei più grandi imperi del mondo; che non mancò di ripetuti e talora drammatici sussulti (come la rivolta dei Boxer nel 1901 o quella della «rivoluzione culturale» fra il 1966 e il 1976 o quella di piazza Tienanmen nell'aprile- giugno 1989); che anche dopo l'avvento comunista nel 1949 ha mostrato un'imprevedibile capacità di commuoversi e agitarsi, e non solo coi suoi studenti.
Ora è una megalopoli di 15 milioni di persone e ospiterà le Olimpiadi, centro direttivo di una delle maggiori realtà politiche ed economiche di oggi. Da città imperiale a città olimpica, come dicono le autrici? In realtà, così non si direbbe ancora nulla. Il suo storico interrogativo, a parte i problemi di sostenibilità di ogni metropoli di oggi, è sempre se, per dirla alla Cattaneo, la megalopoli diventerà, o no, un grande e libero municipio. Un problema cinese, si sa, e non solo di Pechino, per cui sembra esservi oggi qualche prospettiva.

Corriere della Sera 6.6.08
Se i fondi cinesi comprano Manhattan
di Massimo Gaggi


La Freedom Tower, il grattacielo di 540 metri simbolo della rinascita di New York dopo l'attentato del 2001 alle Torri gemelle, ospiterà al suo interno anche il China Center, un istituto dedicato alla promozione della cultura cinese nel mondo del «business», oltre che allo sviluppo degli affari tra gli Usa e il Paese asiatico. La torre di 102 piani con la quale si cerca di rimarginare la ferita di «Ground zero» viene presentata dalla città di New York come la sua nuova grande calamita commerciale, ma fin qui solo il governo federale e quello dello Stato si sono impegnati ad affittarne una parte, senza tuttavia poter ancora indicare quali uffici verranno trasferiti nell'edifico. Quello firmato da Vantone, una società immobiliare di Pechino, per gli spazi compresi tra il 64˚e il 69˚piano è il primo contratto significativo ottenuto dai proprietari dell'edificio la cui costruzione procede tra molte difficoltà. È uno dei segnali dell'attivismo delle società cinesi che approfittano del calo del dollaro per comprare pezzi di Manhattan.
Qualche decina di isolati più a nord un'altra torre celebre — quella un tempo occupata dal quartier generale della General Motors — è stata venduta per 2,9 miliardi di dollari, la cifra più alta mai pagata per un singolo edificio, alla Boston Properties: un'immobiliare dietro la quale ci sono i capitali dei «fondi sovrani» di alcuni Paesi arabi con le casse zeppe di petrodollari. E, intanto, anche gli uomini delle finanziarie governative di Abu Dhabi e Dubai continuano a battere New York a caccia di buoni investimenti.
Quando, l'anno scorso, i cinesi entrarono nel capitale di Blackstone, il gigante del «private equity», mentre altri «sovereign funds» diventavano azionisti di alcune banche di Wall Street in difficoltà, l'America cominciò a vivere nell'incubo dell'invasione finanziaria. Al Congresso molti parlamentari chiesero norme capaci di limitare l'attività di fondi che, essendo posseduti dai governi e non da investitori privati, erano sospettati di operare con logiche politiche anziché di mercato.
A Washington la disputa tra chi vorrebbe limitare l'operatività di questi fondi e i sostenitori di un «free trade» assoluto e reciproco si è risolta da sola: la crisi creditizia degli ultimi mesi ha distrutto buona parte del valore degli investimenti fatti da questi «sovereign funds » nelle banche, spingendoli a battere in ritirata.
Per «riciclare» i petrodollari non restava che il vecchio «mattone sicuro». Che però, con la «bolla» immobiliare e la crisi dei mutui, tanto sicuro non è più, almeno negli Usa. New York, che rimane un grande «hub» mondiale, è sembrato a questi investitori il mercato meno vulnerabile e così in cima ai grattacieli di Manhattan sono cominciate a spuntare bandiere arabe e asiatiche.
Per il miliardario Warren Buffett, un investitore di cui tutti celebrano la saggezza, c'è poco da storcere il naso: «Chi, come l'America, pensa di vivere con un deficit permanente degli scambi commerciali deve rassegnarsi a vendere ogni anno un pezzetto del Paese».

Repubblica 6.6.08
Francesca Pirani "Il mio film dieci anni dopo"
di Franco Montini


ROMA -I miracoli, a volte, accadono anche nel cinema. È il caso della resurrezione di "L’appartamento", il film di Francesca Pirani, realizzato una decina d´anni fa per RaiDue, giudicato troppo cinematografico e proprio per questo, condannato all´invisibilità, ovvero trasmesso una sola volta sul piccolo schermo in orario impossibile a notte fonda. «Per un tempo lunghissimo - racconta la regista - il mio primo film praticamente non è esistito, ma io ne ero molto fiera e non mi volevo arrendere, così ho cercato in tutti i modi di rilanciarlo». L´occasione arriva adesso con la pubblicazione in dvd per la Cecchi Gori Home Video. "L’appartamento" racconta l´incontro fra due giovani immigrati in una casa nel centro di Roma. Lui è un pizzaiolo egiziano che cerca un rifugio, lei una ragazza bosniaca, in fuga dalla guerra dei Balcani, che lavora come cameriera. Fra i due sconosciuti all´inizio emerge un sentimento di reciproca diffidenza, quasi di razzismo, poi, un poco alla volta, s´instaura un rapporto di complice solidarietà.
Marco Bellocchio, che ha prodotto il film, lo ha definito: «Molto sottile, raffinato, che racconta sentimenti ricercati». «Il mio film - aggiunge Francesca Pirani - è centrato sul tema dell´immigrazione, ma in una chiave che non ha nulla da spartire con le vicende drammatiche della cronaca nera dei nostri giorni. I miei protagonisti sono due immigrati regolari ed è assai curioso notare come in dieci anni sia profondamente cambiato il nostro atteggiamento nei confronti degli altri; alla disponibilità, curiosità, accoglienza si sono sostituiti inquietudine, paura, terrore. Mi auguro che "L´appartamento" possa aiutare a guardare al fenomeno con sentimenti più umani».

Repubblica 6.6.08
Vendite record, ora uscirà l’opera omnia di Ratzinger
Un Papa da bestseller ha incassato due milioni
di Orazio La Rocca


Il Papa dei best seller vale 2 milioni di euro
Ratzinger, il cugino ucciso dai nazisti "Era Down, lo strapparono alla famiglia"
Tre anni di vendite record per i libri di Benedetto XVI. In pubblicazione l´opera omnia
L´ultimo volume, su Gesù, ha già venduto 2,5 milioni di copie in tutto il mondo

CITTA´ DEL VATICANO - Tre anni di vendite record per i libri scritti da Papa Ratzinger. Benedetto XVI ha maturato diritti per circa 2 milioni di euro. D´altra parte il pontefice scrittore può vantare una produzione imponente , un catalogo da 132 titoli. Un lavoro che presto sarà pubblicato in un´opera omnia. Benedetto XVI comunque vanta numeri da best- seller. Il suo ultimo libro «Gesù di Nazaret» ha venduto in tutto il mondo oltre 2 milioni e mezzo di volumi.

Un catalogo di ben 132 titoli tra libri, monografie e commenti. E´ l´«opera omnia» prodotta da Joseph Ratzinger a partire dal 1950, da giovane docente universitario, fino all´elezione papale del 2005. Una monumentale raccolta pubblicistica sui temi della fede che presto sarà ristampata dalla più grande casa editrice cattolica europea, la tedesca Helder, con l´attenta supervisione - nonché compartecipazione - della Libreria Editrice Vaticana (Lev), titolare dei diritti di tutti gli scritti di Benedetto XVI.
«Il progetto prevede la stampa di 13 volumi. Il primo, che sarà pubblicato a fine anno, sarà dedicato alle tematiche teologiche e liturgiche trattate dal Papa prima dell´ascesa al soglio di Pietro», annuncia don Giuseppe Costa, salesiano, direttore della Libreria Editrice Vaticana che curerà la traduzione in lingua italiana. Gli altri libri usciranno entro il 2009. Tutta l´opera partirà, quindi, dalle prime pubblicazioni di Ratzinger - molte delle quali quasi introvabili come «Popolo e casa di Dio in S. Agostino» del 1954 e «La Teologia della storia di S. Bonaventura» del 1959 - fino alle meditazioni fatte dal futuro pontefice alla Via Crucis del 2005. Compresi i libri più famosi di Ratzinger, come l´«Introduzione al cristianesimo», il «Sale della terra» e il notissimo «Rapporto sulla fede» scritto con Vittorio Messori. «È una pubblicistica ricca e straordinaria a cui guarda con crescente interesse un variegato pubblico di lettori di ieri e di oggi, che ha in Ratzinger un sicuro punto di riferimento religioso e culturale», commenta don Costa, il quale però aggiunge che non è stato facile strappare il consenso del Papa per la pubblicazione. È verosimile immaginare che Ratzinger alla fine abbia dato il suo assenso forse spinto dal successo che stanno avendo i suoi vecchi e nuovi lavori editoriali. Basti pensare che il suo ultimo libro, «Gesù di Nazaret» finora ha venduto in tutto il mondo oltre 2.500.000 di copie. Vendite da primato anche per le sue encicliche, la «Deus caritas est» con oltre 1.600.000 copie vendute, e la «Spe salvi» finora arrivata intorno a 1.400.000 copie. Ma c´è un altro dato meritevole di indubbia considerazione: da quando Benedetto XVI è stato eletto, i diritti maturati dai suoi libri ammontano ad oltre 2 milioni di euro. «Sì, è verosimile», conferma don Costa, il quale, però, ama mettere in evidenza in modo particolare «il grande valore socio-culturale ed umanitario che è legato alla produzione letteraria del Santo Padre». Un innegabile fiume di denaro che - assicurano in Vaticano - per volontà del Papa sarà oculatamente gestito da una istituzione ad hoc per tutelare le opere letterarie del pontefice, la Fondazione Ratzinger, con sede in Vaticano e in Germania. Tratto caratterizzante di questo organismo - al quale aderiranno studiosi, ex colleghi universitari, ex allievi ed ecclesiastici filo ratzingeriani - l´attenzione alle opere di carità, gli aiuti ai poveri e la vicinanza ai giovani studenti bisognosi con borse di studio.

Repubblica 6.6.08
I grandi impotenti
di Guido Rampoldi


Il difficile compromesso tra interessi contrastanti ma ugualmente legittimi
Una Babele di progetti senza una vera strategia
E sui biocarburanti nessun linguaggio comune
Sotto accusa il protezionismo agricolo che viene praticato dall´Europa
Ciascun governo si è fatto portatore degli interessi della propria nazione

NON poteva essere un summit organizzato in fretta e furia da un´istituzione internazionale tra le più contestate ad esorcizzare la tesi che ci inquieta dal remoto 1798, l´anno in cui il reverendo Thomas Malthus consegnò il suo Saggio sul Principio di Popolazione al catalogo delle profezie più spaventose. Ma se fossimo uno di quegli 800 milioni di esseri umani oggi minacciati dalla morte per fame, lo strumento con cui secondo Malthus la natura provvede a "tenere sotto controllo" (check) la crescita demografica facendo fuori vaste masse umane, non saremmo affatto rassicurati da questa Conferenza di Roma sulla crisi alimentare.
Non che siano mancati le idee, i progetti, le promesse di finanziamenti spettacolari e, crediamo, le buone intenzioni. Ma quando si è trattato di arrivare ad una sintesi, di immaginare una strategia, di imboccare un percorso comune, i cosiddetti "potenti della Terra" hanno mostrato una penosa impotenza, e quel formidabile consesso in cui erano sfilati premier e ministri di infinite nazioni è parso una rumorosa, sovraffollata, patetica Babele. Era abbastanza prevedibile che ciascun governo si facesse portatore degli interessi della propria nazione, certo legittimi ancorché divergenti o addirittura opposti rispetto agli interessi delle altre. Ma è mancato perfino un linguaggio comune, una koinè che permettesse almeno di intendersi, un vocabolario in cui termini come ogm, bio-carburanti, liberalizzazione, avessero lo stesso significato. I francesi, che non mancano di un certo umorismo, hanno proposto di ripristinare un qualche "metodo scientifico", termine che non udivano dai tempi della Quarta internazionale, per mezzo di un comitato di saggi incaricati, se intendiamo bene, di trovare una verità "oggettiva". Intenzione apprezzabile, ma purtroppo destinata a confermare, temiamo, la tendenza degli scienziati a modulare la verità sui desideri dei governi cui essi devono l´incarico. Però forse un comitato siffatto riuscirebbe a restringere il ventaglio delle verità soggettive, allo stato francamente troppe. E magari a mettere fuori gioco quel manicheismo che continua a raccontarci la crisi alimentare nei termini dello scontro "capitalisti ricchi e avidi contro poveri e indifesi". Non che avidi e indifesi non siano parte dello spettacolo. Ma la crisi è ben più complicata di queste miniature morali, le parti di solito non sono così nitide, e la denuncia degli "egoismi" spesso è ipocrita. Provate a togliere le sovvenzioni di cui godono anche i contadini spagnoli, così da aiutare i contadini del Terzo mondo, e vedrete uno Zapatero meno solidale di quello che a Roma ha lanciato un appello all´altruismo col tono dolente che si addice a questo genere retorico.
In realtà la crisi alimentare - almeno su questo vi è una certa unanimità - è parte di una crisi globale che contiene varie crisi tra loro interconnesse, dalla crisi finanziaria americana fino all´irresistibile ascesa dei prezzi del petrolio (cui Lula attribuisce il 30% dell´aumento del costo di generi alimentari in Brasile). Se questa è la dimensione reale, allora può venire a capo della Crisi globale soltanto quella governance mondiale da più parti invocata durante la Conferenza di Roma. Purtroppo non si vede traccia all´orizzonte quel governo planetario che dovrebbe mettere in fuga la speculazione e orientare Stati e mercati verso condotte virtuose.
Come del resto è evidente, una governance di quella portata non può nascere dal consenso, ma soltanto da una chiara gerarchia internazionale, da un ordine definito nel quale una superpotenza, o un consesso di potenze, sia in grado di imporsi ai recalcitranti. Stati Uniti ed Europa non sembrano in grado di svolgere quel ruolo, né, allo stato, di trovare la coesione necessaria per attrarre altre nazioni intorno ad progetto forte. E in attesa che il mondo multipolare trovi il suo equilibrio, pare difficile trovare compromessi tra interessi contrastanti e ugualmente legittimi.
Così nessuno può dare torto alle economie emergenti come il Brasile quando deridono il falso liberismo dell´Unione europea e ne smascherano il protezionismo agricolo, affidato a dazi e a laute sovvenzioni ai coltivatori. Ma nessuno può condannare gli europei se difendono la propria agricoltura, una riserva strategica fondamentale nel caso di gravi turbolenze planetarie, e comunque la condizione perché sopravvivano un paesaggio e una cultura. Non ci sono buoni e cattivi in questa storia. É vero che le terapie degli istituti del credito internazionale hanno devastato agricolture, per esempio Haiti, privando la popolazione della possibilità di sussistenza; ma non sempre è andata così. É vero che le multinazionali si sono impossessate, con gli ogm, di produzioni agricole tramandate, selezionate e difese dai coltivatori per millenni (come ci ricorda Giacomo Santoleri). Ma in Argentina, in Cina, ovunque i contadini siano riusciti a ibridare, per esempio, la soia transgenica, teoricamente sterile, essi oggi dispongono di una coltivazione che richiede meno fatica e meno pesticidi della soia tradizionale. Questioni complicate. Il problema è che gli affamati non attenderanno le soluzioni né si immoleranno alle leggi del reverendo Malthus senza tentare di sovvertire l´ordine che li spinge su quell´altare.

Repubblica 6.6.08
La prima manifestazione nazionale domenica a Roma, adesioni del centrosinistra e del mondo intellettuale
Rom e Sinti in corteo: "C´è un clima da pogrom"
di Alberto Custodero


ROMA - Rom e Sinti in piazza per protestare contro il razzismo degli italiani di cui si sentono vittime. La manifestazione, la prima del genere in Italia, si svolgerà domenica pomeriggio a Roma, partenza dal Colosseo, arrivo al Villaggio Globale a Testaccio. Ed è stata organizzata da Santino Spinelli, musicista - in arte Alexian, fondatore dell´associazione thèm romanò - l´unico rom al mondo ad avere una docenza universitaria e due lauree. Fra chi ha aderito all´iniziativa di forte protesta (per dirla con il rom Spinelli), «contro un clima da pogrom nazista», centinaia di intellettuali, dallo storico Angelo del Boca allo scrittore Marco Revelli. Pochissimi politici, alcuni del centrosinistra (radicali, comunisti italiani, Verdi), nessuno del Pdl. Hanno aderito esponenti della Comunità ebraica (con la presenza dell´ex deportato ad Auschwitz Piero Terracina), don Federico Schiavon, direttore della Pastorale rom e sinti della Cei, Elena Montani, della rappresentanza italiana della Commissione Europea, e l´ex europarlamentare socialista spagnolo Juan de Dios Ramirez-Hredia. Il professor Alberto Asor Rosa spiega così la sua adesione: «La campagna sulla delinquenza rom ha superato i livelli di guardia, nel senso che, da fatto occasionale ed episodico, s´è trasformata in una sorta di persecuzione organizzata. Cosa che mi pare che questa popolazione non meriti». Dopo le molotov alla baraccopoli di Ponticelli, nel Napoletano, e le proteste della Lega contro la costruzione di un campo nomadi a Mestre, per Meo Nedzad Hamidovic, dell´associazione Bosnia Herzegovina, «è giunto il giorno dell´orgoglio rom, per dire basta all´odio». Ma a spiegare il perché di questa clamorosa manifestazione, è il suo ideatore, Spinelli.
«Vogliamo innanzitutto stemperare la tensione - ha spiegato - e calmare gli animi, ma per farlo, occorre trovare soluzioni concrete ai problemi e far conoscere agli italiani l´arte e la cultura rom e sinti». Spinelli ha dieci suggerimenti da proporre al presidente del consiglio e al ministro dell´Interno. Fra questi, «lo smantellamento dei campi nomadi che sono pattumiere sociali degradanti, centri di segregazione razziale e emblema della discriminazione». E «la presa d´atto del palese fallimento dell´assistenzialismo delle associazioni di volontariato che si sono arrogate il diritto di rappresentare il nostro popolo, sperperando centinaia di migliaia di euro per progetti di nessun valore per rom e sinti». Fra le iniziative politiche, Rita Bernardini, segretaria del Partito radicale, ha lanciato la proposta di un censimento per i nomadi «non per schedarli, ma per capire gli interventi da fare». E ha promosso l´«intergruppo» di deputati e senatori «per l´amicizia con il popolo rom» al quale hanno aderito molti esponenti dell´opposizione. E finora solo un deputato della maggioranza, Adriana Poli Bortone, di An.

Repubblica 6.6.08
La scuola non ama gli artisti
di Simonetta Fiori


L´Italia ha un primato: è l´unico paese al mondo dove la storia dell´arte è una materia scolastica. Ora la Francia ha deciso di imitarci, ma nonostante il boom delle mostre da noi nulla è cambiato rispetto alla legge Gentile
Gli orari in otto decenni sono rimasti immutati e la collocazione è mortificante
La conoscenza del nostro patrimonio dovrebbe essere un cardine dell´educazione
Per comprendere l´eccezionalità italiana, basterebbe un episodio recente: l´incursione a Trastevere, nel monumentale palazzo della Pubblica Istruzione, di Pierre Baqué e Vincent Maestracci, autorevoli rappresentanti dell´Education nationale francese per l´insegnamento delle arti. Qualche mese fa gli uomini di Sarkozy sono venuti da noi per chiedere lumi sulla storia dell´arte, materia che il presidente francese ha deciso di introdurre a partire dal prossimo anno nelle scuole di ogni ordine e grado. La Francia che chiede lumi all´Italia? Una delegazione parigina che si prende la briga di chiedere a noi come si fa?
La straordinarietà del voyage en Italie richiede una spiegazione, che consiste in un dato poco conosciuto: siamo l´unico paese al mondo che preveda nei propri programmi scolastici l´insegnamento della storia dell´arte. Un primato dettato dall´inestimabile patrimonio artistico di cui gli italiani sono titolari. Ma a spegnere ogni orgoglio patrio arriva il più clamoroso dei paradossi: proprio nel paese di Giotto e Caravaggio, in quell´unica scuola che includa la storia dell´arte tra le proprie materie, la disciplina fatica a uscire da una condizione ancillare alla quale sembra condannata fin dalle origini. Il grande studioso Adolfo Venturi citava sempre un professore di filosofia di Napoli che ai primi del Novecento, per persuadere il ministero dell´Istruzione ad affidargli l´insegnamento della storia dell´arte, adduceva tra gli argomenti il fatto "d´essere malato", "affetto di nevrastenia", "disposto quindi a dire senza affaticarmi solo della piacevole e lieve materia". Soltanto un debole di mente, in sostanza, poteva occuparsi di Michelangelo o Bernini.
"Cenerentola dell´insegnamento classico in Italia": così fu battezzata, ottantacinque fa, al suo ingresso ufficiale nelle secondarie con la riforma di Giovanni Gentile. Così viene definita ancora oggi dalle battagliere professoresse dell´Anisa, l´associazione che dal 1950 raccoglie i docenti di storia dell´arte. In poco meno d´un secolo, dopo numerose e radicali riforme, specie per i licei classici non è cambiato granché (tra autonomia e sperimentazione, la storia dell´arte figura ormai sotto nomi diversi in molti istituti secondari superiori). Nel 1930 le ore di insegnamento erano "una" in prima liceo, "una" in seconda e "due" in terza: l´orario fotocopia dell´anno scolastico ancora in corso. Senza esiti sono rimasti i buoni propositi di Francesco Rutelli, allora ministro dei Beni Culturali, che due anni fa su Repubblica s´impegnò a valorizzare la materia nei programmi scolastici. «Dopo Religione, è la disciplina meno presente nei classici», esemplifica Clara Rech, quarantenne preside del liceo romano Augusto e attuale presidente dell´Anisa. «Il tempo giudicato insufficiente per l´educazione fisica è ritenuto invece più che decoroso per la storia dell´arte».
Non solo gli orari in otto decenni sono rimasti invariati, ma la collocazione il più delle volte appare mortificante. «Capita spesso», interviene Teresa Calvano, guida dell´Anisa fino al settembre scorso, «che alla storia dell´arte venga destinata l´ultima ora, come fosse una materia leggera e glamour, una pennellata di colore al termine di una gravosa giornata dedicata alle lingue antiche o alla storia. D´altronde anche all´epoca di Giovanni Gentile era considerata una disciplina per signorine, introdotta nei licei classici e negli istituti femminili». Allora non è solo una questione di tempo, ma anche di considerazione più profonda della materia, elemento fondante ma non sufficientemente riconosciuto della storia culturale e civile d´un paese.
A questi ritardi dedica un informato volumetto Cesare De Seta, Perché insegnare la storia dell´arte (Donzelli, pagg. 126, euro 13,50), che delinea la parabola d´una disciplina sempre più svuotata di dignità e privata di qualsiasi rapporto con un patrimonio nazionale fuori dal comune. Declino che appare rovinoso in un paese che proprio nei beni culturali, "statue, dipinti, codici miniati, architetture, aree archeologiche, centri storici", e anche ambientali, "sistemi paesistici, coste, catene montuose, fiumi, laghi, aree naturalistiche protette", vanta alcune delle risorse più preziose e remunerative. La marginalità della storia dell´arte, nel processo di formazione delle generazioni più giovani, ha radici antiche che è difficile sradicare. Fin da principio la disciplina appare minata da una sorta di isolamento dagli altri campi del sapere, soprattutto dalla storia, dunque da una strumentazione che permetta di leggere la civiltà nella quale sono immersi Leonardo Bruni e Filippo Brunelleschi oppure Machiavelli e Michelangelo. Sul finire degli anni Trenta storici autorevoli come Roberto Longhi e Giulio Carlo Argan - lo ricorda De Seta - spinsero la disciplina verso la letteratura, tendenza che negli ultimi anni della dittatura fascista consentì alla storia dell´arte di salvarsi da rozze contaminazioni politiche e ideologiche. Ma sul dialogo tra discipline diverse, storia e letteratura ma anche filosofia e religione, ha finito per prevalere negli anni un approccio estetizzante, quello secondo cui l´arte è mistero per pochi, e la storia dell´arte linguaggio per iniziati. Fumi idealistico-formalisti mai del tutto dissolti.
Sulla disciplina continuano a gravare ingombranti stereotipi, denunciati qualche anno fa da un numero monografico del quadrimestrale diretto da Antonio Pinelli Ricerche di storia dell´arte (Carocci). «Se si cerca quale idea di educazione storico-artistica sia racchiusa in alcune formule correnti», sintetizza Alessandra Rizzi, «vengono in mente le parole di Meneghello: "Che cos´è un´educazione? Avevo il senso di sapere soltanto il negativo della risposta, che cos´è una diseducazione"». Prevale un´idea elitaria della disciplina, ridotta ad abbellimento piuttosto che nutrimento necessario per la crescita culturale e morale del cittadino. Inascoltati sono rimasti gli insegnamenti dei grandi maestri, che molto hanno insistito sulla necessità di educare i ragazzi al rispetto del patrimonio pubblico. Gli effetti possono essere sconvolgenti. La stessa Rizzo cita un sondaggio promosso tra gli studenti del primo anno della facoltà di Lettere di Bologna con indirizzo Dams Arte. Dovendo porre in ordine cronologico alcuni grandi fenomeni stilistici, c´è chi colloca la civiltà greco-romana dopo Bisanzio e chi predilige la sequenza Bizantino-Gotico-Rococò-Romanico-Neoclassico-Rinascimentale. Ma non bisogna scoraggiarsi. «Se agli esami si sente dire che Simone Martini ha dipinto nel Settecento o che il Duomo di Milano è di stile bizantino, ci si può consolare pensando che Catilina è divenuto la moglie di Nerone, senza che per questo si possa sostenere l´inutilità dell´insegnamento del latino o della storia». Lo scriveva Lionello Venturi nel 1926, da allora l´alfabetizzazione artistica non ha fatto grandi passi avanti (la citazione è tratta dal saggio di Elena Franchi).
Sulla conoscenza dell´arte prevale il più delle volte la curiosità per l´evento, quel fenomeno per il quale si è disposti a intraprendere estenuanti file per Van Gogh o Klimt non avendo mai messo piede nella pinacoteca più vicina a casa. Lo documenta anche un sondaggio promosso di recente per il Fai da Astra Ricerche tra i giovani nella fascia d´età tra i 15 e i 24 anni (vedi box accanto). Il modello prevalente della fruizione artistica è il mix di "viaggio, enogastronomia, divertimento", mentre appare assai debole l´interesse per l´arte della propria città. E anche tra i giovani appassionati (cinque milioni settecentomila su nove milioni) quel che manca è una discreta o buona conoscenza della storia dell´arte: gli "abbastanza" o "molto informati" - sono loro a definirsi tali - non arrivano ai due milioni (ossia il 33 per cento degli appassionati, e il 21 per cento dell´intera fascia d´età). Tutti gli altri non esitano a confessare la propria irredimibile ignoranza. Viene in mente Domenico Starnone quando chiede all´allieva Seroni Catia che cos´è per lei il "bello ideale" e lei d´un fiato risponde: Claudio Baglioni.
Eppure i professori di storia dell´arte sono generalmente di qualità eccellente, sopravvissuti a scoraggianti selezioni. Ma hanno la sfortuna di insegnare una materia trascurata dagli equilibri ministeriali e anche dalle attenzioni sindacali. Alla catastrofe assiste indifferente la comunità dei critici d´arte, estranea a tutto quel che accade dentro le aule scolastiche. «Con rare eccezioni, prevale un atteggiamento di spocchia se non di disprezzo verso la scuola e i suoi professori», denuncia Teresa Rech. «Un costume ben rappresentato da Vittorio Sgarbi. Quando era sottosegretario dei Beni Culturali elogiò la Moratti per aver escluso la storia dell´arte dalle materie scolastiche. L´ha salvata dalla rovina della scuola, disse con entusiasmo. Quello della Moratti era un merito inconsapevole: secondo Sgarbi i valori dell´arte e della bellezza confliggono inesorabilmente con l´obbligo dello studio. L´unico possibile rapporto con l´arte è un rapporto amoroso, rigorosamente dopo l´orario delle lezioni». Sempre l´allora viceministro dei Beni Culturali definì "coglioni" i professori che portano i ragazzi nei musei. Però a Pierre Baqué e Vincent Maestracci, agli emissari mandati da Sarkozy per vedere come si fa, questo non è stato raccontato: troppo complicato da spiegare.

Repubblica 6.6.08
Il fascino eterno dell’antico"
Scoprire le Civiltà" è la nuova collana di "Repubblica" e "L´Espresso". Da oggi in edicola il volume "Roma"
di Lucio Villari


Per i romani la parola "civilitas" indicava semplicemente lo stato di cittadino, in qualche caso il governo politico
La forza degli istituti repubblicani e imperiali ha lasciato un segno indelebile nelle idee, nella letteratura e nell´arte

È strano che la parola "civiltà", il cui senso appare comprensibile e indiscutibile e che riceve luce e spiegazione dalla storia, cioè dallo svolgersi della vita degli esseri umani come individui e come popoli, sia in realtà un termine di cui, nel succedersi degli eventi storici, non sempre si ha consapevolezza. Talvolta gli eventi stessi si incaricano di smentirlo o di metterlo in discussione rovesciandolo nel suo contrario. La civiltà è un concetto pensato e usato soltanto dopo che il suo oggetto, cioè l´insieme delle attività spirituali e materiali delle società umane che hanno raggiunto una condizione elevata, si è dispiegato nel tempo e nello spazio senza che i protagonisti e i partecipi di quelle civiltà fossero in grado di definirle tali. I romani, ad esempio, non ne possedevano la parola; per loro civilitas era lo stato di cittadino (in qualche caso si intendeva anche il governo politico) ma non quel livello complessivo, alto, prezioso che poi è stato, ed è, indicato come "civiltà romana" nella quale normalmente includiamo le cose belle, raffinate lasciate a noi da arte, letteratura, poesia, architettura, strumenti di vita quotidiana, gusto, mode.
Una analoga riflessione si può fare per la civiltà egiziana, assiro-babilonese, mesopotamica, greca, cinese, e così via. Perfino quando i romani, Cicerone tra gli altri, usavano l´aggettivo o il sostantivo cultus si riferivano generalmente alle colture agricole più che al significato, per noi scontato, di coltivato, elegante, curato (nel vestire, nel parlare, nel fare ginnastica, eccetera) intuito da qualche poeta dell´età imperiale.
La difficoltà di una percezione precisa nel mondo antico dell´idea di civiltà si è prolungata per secoli fino alla netta distinzione che, nel linguaggio filosofico e scientifico di fine Ottocento, in pieno trionfo della rivoluzione industriale, si è dovuta fare, soprattutto in Germania, tra la "civilizzazione" (materiale) e la "cultura" (i prodotti dello spirito). Una distinzione sempre più valida (un esempio per tutti: la "civiltà dell´automobile" - e di qualsiasi altro consumo invadente - non è più compatibile con la cultura della città e con il vivere "civile") e con la quale ora si fanno i conti nella maggior parte del mondo sviluppato.
Questa premessa è necessaria per rendere il senso dell´iniziativa della Repubblica e dell´Espresso, per sottolinearne, appunto, l´idea ispiratrice: «scoprire le civiltà» del passato senza darle, come è consuetudine, per scontate (spaziando dal Mediterraneo e dal Vicino e Medio Oriente - Madri che hanno generato noi occidentali - all´Estremo Oriente, ai Vichinghi, all´Islam, all´Africa, alla Mesoamerica). Renderle vive, queste civiltà, descrivendole con bellissime immagini scultoree, pittoriche architettoniche, ambientali e riproponendone, per puntuali accenni, il vissuto: dunque, le civiltà mentre si formano. L´intenzione è di riproporre, in una efficace sintesi divulgativa, per i monumenti fisici la stessa attenzione che si presta da più di mille anni ai monumenti della parola salvati dai monaci e amanuensi medievali: i lasciti eterni della letteratura, della poesia, della filosofia, della drammaturgia, del pensiero del mondo antico. L´attenzione di un ammiratore della classicità come Petrarca che teneva religiosamente sul suo tavolo l´opera di Omero in greco pur senza conoscerne la lingua. L´attenzione che spinse Boccaccio a tradurre in latino l´Iliade e l´Odissea con l´aiuto di un greco originario della Calabria. Ammirare ma anche conoscere, dunque, le antiche civiltà.
Il progetto editoriale comprenderà diversi volumi. Il primo ad apparire è Roma. Un compendio di testi, di commenti, di immagini e di brani di autori latini che scorrono come epigrafi all´inizio di ogni capitolo (il volume è di 382 pagine). Ne è curatrice Ada Gabucci che ha scelto il metodo di svolgere la storia di Roma dalla fondazione della città nel 754 a. C. alla caduta politica e istituzionale dell´impero romano d´Occidente nel 476 d. C. senza occuparsi della regolarità cronologica e seguendo piuttosto una scansione tematica (Personaggi, Divinità, Città, Vita quotidiana, Mondo dei morti, Potere e vita pubblica) al cui interno c´è di tutto, dalle strade, alle acconciature, ai teatri e circhi, ai giocattoli, alle ville, agli antenati, ai trionfi militari, alle tecnologie, ai capi politici, agli imperatori, eccetera. La stessa scansione sarà adottata, con variazioni, per tutti gli altri volumi.
Al concludersi di Roma il lettore si porrà certamente la tormentata domanda: nel 476 è caduta anche la "civiltà romana" insieme all´ultimo, fragile imperatore e ai segni visibilmente svuotati di un potere politico durato quasi mezzo millennio?
L´interrogativo è, come si sa, antico, e proprio rispondendo negativamente ad esso è stato elaborato, a partire dal Medio Evo e soprattutto nel Rinascimento, il concetto che oggi possediamo di "civiltà". Cioè la potenza politica di Roma, la religione pagana, la forza giuridica e "civile" degli istituti repubblicani e imperiali hanno sempre suscitato il rispetto culturale anche se crollati quasi improvvisamente con la spallata dei barbari e per malattia interna (complicata dai germi del Cristianesimo): soprattutto perché hanno lasciato un segno indelebile nelle idee, nelle immagini letterarie e nei monumenti che le hanno rappresentate, combattute o esaltate. Dante lo dirà esplicitamente in un passo del Convito dedicato alle vestigia di Roma: «Le pietre che nelle mura sue stanno sono degne di reverenzia e ´l suolo dov´ella siede è degno oltre quello che per gli uomini è predicato e provato». Dante voleva così dire che la civiltà romana è degna anche di più (oltre) di quanto è stato testimoniato da coloro che l´hanno prodotta e da quanti l´hanno ereditata. È l´intuizione, con due secoli di anticipo, del Rinascimento o (avrebbe detto a metà Ottocento lo storico Jacob Burckhardt) del «risorgimento dell´antichità» e quindi della prima, compiuta elaborazione del concetto di civiltà occidentale.
Della dignità richiamata da Dante si farà interprete autorevolissimo Raffaello che in una celebre lettera a lui attribuita e inviata a Leone X protestava per le distruzioni dei resti storici romani invitando il papa a proteggere quel che rimaneva del mondo classico sia per confermarne la grandezza e bellezza, sia perché la loro «presenza» avrebbe acceso sentimenti sublimi.

il Riformista 6.6.08
Attento Veltroni, la terza via è finita
di Leonardo Morlino


P er anni abbiamo pensato che la «terza via» avrebbe portato lontano. Soprattutto il ripensamento neo-liberale e flessibile delle politiche economiche e l'alleggerimento dei vecchi, ormai ingombranti apparati di partito, avrebbero rigenerato la sinistra portandola verso un nuovo e radioso futuro. In questo senso, Blair e Clinton, soprattutto, sono stati leader che per diversi anni hanno costituito un punto di riferimento per tutto il resto della sinistra, specie europea. Che la caduta del muro di Berlino sancisse il fallimento economico di alternative politiche autoritarie era un'ottima notizia anche per la sinistra democratica che si trovava a godere della grande opportunità di avere uno spazio politico più ampio. Che le gioiose macchine da guerra partitiche si fossero liquefatte era, anch'esso, un altro aspetto positivo perché in questo modo le ingombranti burocrazie partitiche scomparivano e i leader avevano ben maggiore facilità di cambiare le proprie proposte politiche verso l'esterno e di riorganizzarsi internamente.
Le illusioni sono, però, durate solo qualche anno. La sconfitta recente della sinistra italiana è solo l'ultima di una serie che, andando a ritroso, è passata per la Francia, per la Germania, dove il glorioso partito socialdemocratico è un partner minoritario di una coalizione moderato-conservatrice, e per diversi altri paesi del nord Europa, anch'essi una volta patria incontrastata della sinistra. La stessa apparente eccezione spagnola va vista con occhi diversi quando si considera che il partito popolare ha in realtà guadagnato voti e seggi e alla fine Zapatero si è salvato a danno della sinistra estrema, in un spazio complessivo destra-sinistra non radicalizzato.
Allora, è finita? Non c'è più futuro, soprattutto in un quadro in cui la stessa destra si è modernizzata sul piano organizzativo e ha rivolto il proprio appello ai ceti economicamente più bassi assumendo temi e forme neo-populiste? Ottimisticamente, si potrebbe sostenere che basterà aspettare. Approfittando di leggi elettorali che spingono alla bipolarizzazione la sinistra tornerà inevitabilmente al governo come risultato dell'insoddisfazione e dei problemi non risolti in tema di immigrazione, impatto della globalizzazione e assenza di crescita economica. Ma se non fosse così? Se i termini stessi del confronto politico con l'altra parte dovessero essere ripensati? Se oltretutto l'elettore di sinistra fosse ormai irrimediabilmente perduto nell'astensione cronica? Una riflessione comparata sul passato recente delle nostre democrazie ci può aiutare? Un suggerimento - importante - che quella riflessione ci suggerisce è semplice: sono state tre le divisioni di fondo che nella storia europea si sono tradotte in altrettanti conflitti politici sostenuti da partiti di parti opposte: la religione, la classe sociale e il territorio. Se per ragioni diverse religione e classe non riescono più ad aggregare e mobilitare politicamente in quanto idee e comportamenti connessi sono scomparsi o largamente marginali e minoritari, rimane il territorio come unico ambito di confronto. Ma questo che cosa significa per una sinistra che ha smarrito la sua via, dal momento che territorio ha significato di solito conflitto tra centro e periferie?
La risposta sembrerebbe semplice: la sinistra si deve ripensare, senza cercare facili e apparentemente miracolistici slogan, focalizzando sforzi e programmi nel governo del territorio, anche se a livello locale si sta all'opposizione. Questo non può significare ricostituzione di comunità che spesso non esistono più, né si possono ricreare in quanto basate su cultura e tradizioni in larga misura scomparse. Significa, innanzi tutto, attenzione alla sicurezza personale dei cittadini e a tutti i servizi sociali, dalla sanità all'assistenza degli anziani, che si svolgono soprattutto nel territorio e a contatto con i cittadini. La presa d'atto della frammentazione dei territori dovrà essere superata da una leadership unificante - e questa è la lezione di Blair che rimane - che colleghi i diversi territori con una modernizzazione della comunicazione elettorale e, più in generale, politica, che sviluppi e metta meglio a punto quanto Veltroni ha dovuto fare in gran fretta e qualche errore nel poco tempo a disposizione prima delle elezioni.
Come fare più in concreto a costruire un tale futuro per la sinistra italiana è un altro discorso che passa anche dalla sistemazione dei rapporti con tutto l'arcipelago degli altri gruppi, da Rifondazione ai Verdi, che affiancano il Pd. Ma questa prospettiva di ripensamento della sinistra dà un significato diverso a parecchi temi: dal senso effettivo delle primarie, all'importanza centrale del federalismo fiscale, alla ripresa del controllo del territorio in diverse zone del sud. In breve, una agenda densa di contenuti e di problemi, non tutti risolvibili.