sabato 27 febbraio 2016

Il manifesto Alias 27.2.16
Scritti sull’arte
Saggi. Pubblichiamo due estratti dal libro "Pensare al non vedere", sull'idea di tratto e a proposito del lavoro dell'artista Jean-Michel Atlan
di Jacques Derrida


Esce in questi giorni per Jaca Book Pensare al non vedere (euro 30), un volume che raccoglie gli scritti sulle arti del visibile di Jacques Derrida, nell’edizione stabilita da Ginette Michaud, Joana Masó e Javier Bassas (2013). L’edizione italiana e la traduzione sono a cura di Alfonso Cariolato. Il libro propone un’ampia selezione dei testi dedicati alle arti nell’arco di venticinque anni (dal 1979 al 2004). Difficilmente reperibili perché disseminati in cataloghi, riviste, volumi collettanei o addirittura inediti, i testi sono stati rivisti e ricontestualizzati dai curatori e ripartiti in tre sezioni: la prima affronta il primato filosofico del visibile nell’arte; la seconda raggruppa testi realizzati nell’ambito di collaborazioni con diversi artisti e riguarda specificamente il disegno e la pittura; la terza raccoglie scritti dedicati alla fotografia, al video, al cinema e al teatro. Chiude il volume un intenso intervento in cui Derrida, a due mesi dalla morte, parla del suo complesso rapporto con la propria immagine. Un’utilissima bibliografia e filmografia, infine, permettono al lettore di orientarsi nella vasta produzione del filosofo riguardante le arti. Qui pubblichiamo due estratti dal libro, sull’idea di tratto e a proposito del lavoro dell’artista Jean-Michel Atlan – con, annessa, la questione del nome nell’arte. «A lato» c’è poi una riflessione del filosofo francese Jean-Luc Nancy su Derrida e l’arte.

Non dovrei solamente fare come se il nome di Atlan fosse scomparso, dimenticato, inghiottito, annegato sotto Atlantide. Ma come se le opere del suddetto Atlan avessero perduto il loro titolo. Il loro nome proprio e il nome del loro creatore. Come se, alla lettera, non mi dicessero niente. Come se, piuttosto, non mi autorizzassero a nulla, come se non mi concedessero in ogni caso l’autorità di non dirne nulla. D’altronde, come descriverle? Mi si permetta qui di risparmiarmi una lunga dissertazione teorica, ma ironica, sulla descrizione di un quadro. Quando penso che alcuni osano o pretendono di farlo, descrivere, abbozzare la minima descrizione di un quadro! Èsempre impossibile, dovrebbe essere vietato descrivere un quadro, «constatarlo», se non ordinando: andate ad ascoltare questo quadro che non è più un quadro, che non ha più la stabilità placata di un quadro, sentite il suo incantesimo, la sua preghiera, le sue ingiunzioni o i suoi comandamenti (tale quadro imperioso somiglia talvolta a una tavola dei comandamenti), vibrate alla vibrazione del suo grido, e poi andate a vedere, se potete, quelle linee, quei tratti, quelle bande, quei nodi, quei passi di danza. Inoltre, come descrivere, e come nominare, un colore? Come farlo senza figura, senza svolta tropica, ma alla lettera, letteralmente? Per esempio il suo «nero» che non è nero, che è nero al di là di ogni nero conosciuto? Da un individuo all’altro, da una cultura all’altra, come intendersi per identificare e soprattutto per chiamare i colori, per stabilizzare e codificare i nomi dei colori, in particolare nella Bibbia? Come insegnare i nomi dei colori a un cieco dalla nascita dopo l’operazione che gli rende la vista? Mi trovo qui, con Atlan, mutatis mutandis, io, come un cieco operato, di fronte alla stessa impossibilità di dire nel momento di recuperare la vista davanti a uno spettacolo inaudito. Come se, dunque, le opere del suddetto Atlan non portassero mai un titolo. Alcune tele di «grande formato» si concedono, certo, il «senza titolo» come titolo. Da qui mi è venuta probabilmente l’idea. Non più parole, mai più. Senza fiato. Afasia. Anche se già il nome Asie , il fonema Asie, le lettere dell’Asie, dall’altro lato del Medio Oriente biblico, venivano a stagliarsi per risuonare, riecheggiare e riflettersi in uno dei titoli (Les Miroirs de l’Asie [Gli specchi dell’Asia] (1954), il più chiaro e il più blu di tutti questi «grande formato»: come se, quasi al centro, tra vaghi serpenti eretti in modo quasi simmetrico, per rinviarsi la loro immagine faccia a faccia, una specie di pesce in immersione forse cristica, una di quelle numerose figure animali o zooteomorfiche della raccolta, tendesse ancora uno specchio al sole – a meno che non sia alla luna. Ma ecco che mi ritrovo ancora a descrivere, malgrado la promessa o il divieto).
(…)
Ogni pittura, ogni pittura in quanto tale, e anche se in apparenza porta e sopporta, come suo «soggetto», un titolo, cioè un nome (e i titoli senza sostantivo sono rari, che i nomi siano comuni o, come capita spesso qui, che siano propri, o ancora che esitino tra il proprio e il comune, includendo sempre in ogni caso qualche nome proprio nel nome comune: Le Grand Roi Atlante [Il Grande Re Atlante], Tanit, Calypso III, Baal Guerrier [Baal Guerriero], Pentateuque, Le Tao , La Redoutable, Les Miroirs de l’Asie, Jéricho, Sodome, La Kahena), ogni pittura degna di questo nome, dunque, in quanto tale, ha la vocazione di fare a meno del nome, voglio dire del titolo. Qui si esporrebbero la sua essenza e il suo spazio, la spaziatura stessa della sua spazialità – e letteralmente il suo colore. Da qui l’energia della sua danza e del suo canto. Là dove, facendo a meno del nome, de-nominandosi, essa chiama ancora e dà il suo luogo al nome. Irresistibilmente. Essa non si chiama con questo o quel nome, essa chiama un nome.
Pag. 245–246, 248
In fondo partirò, se vuole, dal «niente da vedere» – dal «niente da vedere» nel senso, al tempo stesso, dell’accecamento e della mancanza di rapporto. Quando si dice: «Non c’èniente da vedere», ciòsignifica: «questo non ha rapporto con quello» – ed èanche un modo per disegnare il campo dell’incompetenza. Nel corso di questi, diciamo, ultimi quindici anni, mi ècapitato di essere provocato in qualche modo dall’esterno – infatti, non lo avrei mai fatto spontaneamente – a scrivere sul disegno. L’ho fatto (…) nel contempo esponendomi e proteggendomi, vale a dire: ho l’impressione che tutte le volte che ho parlato del disegno fosse un modo per evitare di parlare della pittura. In uno dei testi raccolti in un’opera intitolata La verità in pittura, ci si accorge assai presto che, appunto, non parlo mai della pittura, cioèdel colore, della macchia di colore, ma di ciòche sta intorno: il disegno, ma anche i margini, la cornice; cio che, trovandosi all’esterno del disegno, viene in qualche modo a riempire o determinare l’interno; ciòche inscrive il disegno su una superficie, che lo eccede o, sul mercato della pittura, del disegno, ciòche lo inscrive in speculazioni che sono tanto quelle del mercato del disegno quanto quelle delle speculazioni teoriche, dei discorsi. Bene, io sto nel campo del discorso, vale a dire che quando vado verso le parole per parlare del disegno o della pittura, questa èanche una maniera di sfuggire a ciòche so di non poter dire a proposito del disegno stesso. Perchéin fondo – poichéla questione che qui viene posta a tutti i partecipanti e: «Che cos’èil disegno?» – la mia risposta e: «Non so cosa sia il disegno». E, continuamente, sono tentato di ricondurre il disegno verso l’insignificante, cioèverso il tratto. Ed èin questo modo che, incessantemente, sono stato portato a ricondurre la mia preoccupazione del disegno verso la mia preoccupazione piùantica e piùgenerale del tratto di scrittura, della linea della scrittura nella misura in cui essa consiste in un reticolo o sistema di tratti differenziali.
Il tratto differenziale (…) è, naturalmente, il tratto apparentemente visibile che separa due pieni, o due superfici, o due colori, ma che, in quanto tratto differenziale, èciò che permette ogni identificazione e ogni percezione. Allora, il tratto differenziale, metaforicamente, può designare allo stesso modo ciòche all’interno di qualsiasi sistema, grafico o meno, grafico in senso comune o meno, istituisce delle differenze, per esempio in una parola, in una frase – e la linguistica saussuriana –, il tratto differenziale, il tratto diacritico, è ciòche permette di opporre lo stesso e l’altro, l’altro e l’altro, e di distinguere. Ma il tratto in quanto tale, esso stesso in quanto tratto differenziale, non esiste, non ha pieno. Se volete, tutto il pensiero o la teoria della traccia che avevo cercato di elaborare senza un riferimento essenziale al disegno – sebbene in Della grammatologia sia stata posta anche la questione del disegno in Rousseau –, nondimeno, al di là del disegno propriamente detto, la traccia o il tratto, designerebbe – in ogni caso, èciò che ho cercato di mostrare – la differenza pura, la diacriticità, ciòche fa sìche qualcosa si possa determinare per contrasto rispetto a un’altra cosa: l’intervallo, la spaziatura, cio che separa. E allora ciòche separa – l’intervallo, la spaziatura – non èniente in sé, non èné intelligibile ne sensibile, e in quanto non èniente non èpresente, rimanda sempre ad altro e, di conseguenza, non essendo presente, non si da a vedere. In fondo la più grande generalità della definizione del tratto, cosìcome mi ha interessato da molto tempo, e che dàtutto a vedere in fondo, ma non si vede. Dàa vedere senza darsi a vedere. E dunque il rapporto con il tratto stesso – con il tratto senza spessore, con il tratto assolutamente puro –, il rapporto con il tratto stesso e un rapporto, un’esperienza di accecamento. (pag. 160–162)
il manifesto Alias 27.2.16
Jacques Derrida, l’arte di un pensiero invisibile
Filosofia. Il problema della scrittura, a cominciare dalla firma, alla retorica del «tratto», fino alla presenza dell’arte nel pensiero del filosofo
di Gianluca Pulsoni

Alcune note di lettura per Pensare al non vedere
Derrida: nel mondo intellettuale contemporaneo, chi non si è mai imbattuto nel suo nome, chi almeno una volta non ne ha parlato, scritto, o discusso? Tutti – ma se non tutti, tanti – l’hanno interpretato e utilizzato e persino ne hanno stravolto a piacimento le teorie e lui, in quanto pensatore, è certamente stato uno degli ultimi a esercitare questo fascino e questa efficacia. Tutto questo è sicuramente avvenuto fino alla morte, cioè al 2004, perché negli ultimi anni, quantomeno in Italia, sembra che il lavoro e la voce del francese siano passati pressoché sotto silenzio. O meglio: la sparizione della sua immagine pubblica ha lasciato il posto al vuoto, a noi, al nostro rapporto diretto con le sue tracce, i suoi libri, la sua ricerca, rivelando in pieno una complessità immane che distanzia, una complessità che però fa rima con necessità e novità, perché si tratta di un’opera che sembra ancora anticipare i tempi e si mostra ancora tutta da scoprire – e qui, ora, viene forse fuori una voce a suggerire: torniamo a leggere Derrida, ma a leggerlo con l’attenzione che merita, come un classico.
In merito, una occasione propizia può sicuramente essere l’ultima pubblicazione in ordine di tempo del lavoro del nostro da parte di Jaca Book, la casa editrice di Milano che da tempo si occupa di diffondere da noi il pensiero dell’autore francese: Pensare al non vedere. Scritti sulle arti del visibile. A cura del filosofo e traduttore Alfonso Cariolato (suo, inoltre, l’importante saggio introduttivo), questa edizione italiana della raccolta di interventi di diversa forma e per diverse occasioni che il pensatore ha scritto e detto nel corso di molti anni può senza dubbio funzionare come una sorta di ideale introduzione o preparazione al Derrida più teorico sulle questioni intorno all’immagine e dentro le trame del visibile – e qui il riferimento va soprattutto a La verità in pittura, dove sono articolate e presentate le nozioni fondamentali e continue del suo pensiero sull’arte.
Per questo, anche, val la pena presentare alcune possibili note per meglio avvicinarsi alla lettura di questa raccolta.
La scrittura, la firma
Nell’affrontare Derrida il primo problema è senza dubbio quello della sua scrittura, così spesso densa e a tratti oscura. La questione si ripresenta anche in questi interventi sulle arti del visibile, dove però si offre, forse, una possibile soluzione.
Nel suo saggio introduttivo, Cariolato scrive: «Non si tratta di pensare il non vedere nel senso di darlo a vedere, di rendere infine visibile l’invisibile – soprattutto non questo. Piuttosto: che pensiero sarà un pensiero meno obbligato dalla classica analogia con la vista, dalla metafora della luce di contro all’oscurità, del far luce, del rendere chiaro, del far vedere ciò che comunque è già nell’orizzonte della vista? Non un pensiero che scelga l’oscurità in luogo della luce, operando così una semplice inversione, ma un pensiero che tenti – con uno scarto rispetto a ciò che è dato vedere, al visto – di pensare il non vedere.»
Da qui si potrebbe suggerire che quella di Derrida scrittore sia un’etica della scrittura in relazione a tale sforzo, e cioè un esercizio teso a tradurre l’illeggibilità di determinate questioni attraverso una certa scientificità. Come a dire: se cerco o teorizzo x, non posso che di conseguenza piegare il mio linguaggio alle condizioni poste da una tale esigenza.
Ora, premesso questo – qualcosa che ovviamente esclude gli scritti nel libro che per determinate ragioni sono più scorrevoli (ce ne sono molti) – si può arrivare a focalizzare l’attenzione sulla importanza della firma come nozione, qualcosa che è alla base di molte riflessioni presenti in questo volume. E qui è Derrida a parlare: «Non basta semplicemente scrivere il proprio nome per firmare. Su un modulo di immigrazione si scrive il proprio nome e poi si firma. La firma è dunque altra cosa rispetto a un nome semplicemente scritto. È un atto, un performativo mediante il quale ci si impegna in qualcosa, con il quale si conferma in maniera performativa che si è fatto qualcosa – che è stato fatto e che sono io che l’ho fatto. Una simile performatività è assolutamente eterogenea; è un resto esterno a tutto ciò che nell’opera significa qualcosa. Qui vi è un’opera – lo affermo, lo controfirmo. Vi è un esserci [être-là] dell’opera che è più o meno l’insieme degli elementi semantici analizzabili. Un evento ha avuto luogo.»
Come un metodo sperimentale
Ora, data la firma come inizio, l’impressione è che si possa poi risalire a tutte le nozioni e suggestioni potenzialmente collegabili che Derrida espone o articola – come, per esempio, quella assai particolare di tratto. Ma a questo punto, come logico, occorre fornire indicazioni sul lavoro del pensiero del nostro. E cioè: qual è il movimento che lega il tutto, quale la sua qualità prima?
Sia che si tratti di considerazioni di carattere più generale sulle tracce del visibile – la prima parte del libro – sia che si tratti di tutti gli interventi intorno alla «retorica del tratto» in relazione alla pittura e al disegno – la seconda e più corposa parte del libro (qui leggiamo Derrida su questioni estetiche e teoriche ma anche su numerosi artisti, per esempio Colette Deblé, Salvatore Puglia, Valerio Adami, Jean-Michel Atlan) – sia ancora che si tratti di quanto scritto e detto dal francese su fotografia, video, cinema e teatro – la terza parte del libro (qui si trovano molte riflessioni teoriche relative alla «spettralità dell’immagine» e testi sui fotografi Shinoyama Kishin, Frédéric Brenner, il videoartista Gary Hill, ma anche sul teatro come per esempio su Daniel Mesguich) – ciò che sembra rimanere una costante è come il pensiero all’opera di Derrida abbia la forza e la forma di uno scavo continuo e sistematico che separa gli elementi di una trama di segni e significati, approfondisce le loro relazioni, ne individua i punti critici. Uno scavo il cui nome è forse quello – celebre – di decostruzione, e che non può che configurare lo stesso pensiero come azione invisibile e suggerire, alla fine, una analogia tra la comprensione filosofica di un Derrida e la metodologia sperimentale di un Galileo. Forzatura? Forse. Ma se si presta ascolto al pensatore francese, se si leggono le pagine di questo libro, quanto si percepisce dal montaggio di osservazioni, ipotesi, verifiche, formulazioni – sempre incessante, sempre mancante – non sembra molto lontano da certo cimento.
Come se Derrida fosse una sorta di fisico del pensiero.
Perché l’arte
In ultimo, vale la pena entrare in merito alla presenza dell’arte nel pensiero di Derrida – o meglio: porre una considerazione, delineare una traccia.
Ipotizziamo: a differenza di altri campi del sapere e dell’agire umano, è forse qui che si muove meglio la decostruzione derridiana – perché meno vincolata da strutture e sovrastrutture, perché in relazione potenziale più diretta con quanto dell’immagine si sottrae alla rappresentazione, perché più in grado di rivelare la soggettività di chi vede e di chi parla.
Di tutto questo è forse rivelatore l’ultimo scritto presente nella raccolta. Uno scritto, se si vuole, autobiografico. Uno scritto bellissimo, del 2004.
Invitato da La Quinzaine littéraire a dire la sua in merito a un’indagine rivolta a un centinaio di autori – tema: «Pour qui vous prenez-vous? [Per chi vi prendete? / Per chi si prende?]» – Derrida riesce in poche righe a far capire come l’elaborazione di una immagine di sé, esempio limite della creazione di qualsiasi immagine (aggiungiamo noi), non possa che finire in una sorta di non-finito, e quindi l’arte – in questo caso – non possa che essere intesa come azione tesa a questa sospensione, al di qua e al di là di ogni estetica: «Non come il sintomo di una “verità”, la mia, quanto piuttosto come una preghiera, quella di cui Aristotele diceva così giustamente che non è “né vera né falsa”».
il manifesto Alias 27.2.16
Basta credere che funzioni
Verità nascoste. Studi accurati smentiscono l’efficacia della Tcc (Terapia Cognitivo Comportamentale) nella cura del disagio psichico
di Sarantis Thanopulos

C’è voluto del tempo perché una falsità evidente fosse dimostrata tale «scientificamente». Studi accurati smentiscono l’efficacia della Tcc (Terapia Cognitivo Comportamentale) nella cura del disagio psichico. La psicoanalisi, perfino nelle sue forme più schematizzate che la rendono «empiricamente» verificabile, funziona molto meglio.
Psicoanalisi e Tcc seguono prospettive opposte. Per quanto la differenza tra la grande complessità della prima e la povertà concettuale della seconda scoraggi la possibilità di un confronto, si potrebbe, al prezzo di una forte semplificazione, usare come metro di paragone il loro rapporto con le contraddizioni dell’essere umano. Per la psicoanalisi le contraddizioni sono una qualità intrinseca della natura umana: è necessario mantenerle vive, cercando di liberare il loro potenziale trasformativo, per farne la forza motrice dell’esistenza. Per la Tcc, le contraddizioni derivano da convinzioni irrazionali, creano instabilità psichica e possono essere eliminate con uno sforzo logico, positivo di pensiero.
Com’è stato possibile che una terapia riduttiva, centrata sul presente e sulla conformazione ai luoghi comuni del pensare, fatta di prescrizioni comportamentali e esercizi mentali improbabili, abbia potuto godere, e in parte gode ancora, di una credibilità diffusa? Le risposte non sono confortanti.
In primo luogo, la Tcc, che promette un trattamento della sofferenza psichica in tempi brevi, è stata considerata dai governi intenti a tagliare il welfare più economica della psicoanalisi. La cultura dell’efficienza ha aggiunto ulteriore sostegno a una cura che sprona chi soffre, a non crogiolarsi nelle sue aporie esistenziali e tornare socialmente produttivo.
In secondo luogo, gli esponenti delle «scienze naturali» reagiscono, in maggioranza, in modo autoritario alle incertezze epistemologiche che mettono, necessariamente, in discussione l’infallibilità «geometrica» delle loro concezioni: inseguono l’affermazione della superiorità dei loro metodi, fondati sul calcolo matematico, su ogni altra forma di sapere. Pretendono che ai desideri, alle emozioni, ai sentimenti, ai pensieri e più in generale all’immaginazione e alla creatività umana, venga applicata, come verità superiore, la «logica» delle particelle o della propagazione dell’eccitazione lungo i neuroni.
La pretesa è di per sé assurda, ma solo pochi osano contestarla (tanto è forte la domanda di certezza con cui suppliamo al nostro disorientamento esistenziale). Quando la «verità» sulla natura umana si affida alle scansioni cerebrali, non è strano vedere ammantate di scientificità approssimazioni volgari, che sviliscono la complessità e la bellezza delle costruzioni teoriche delle scienze naturali. La colonizzazione dei territori altrui non fa bene ai colonizzatori.
L’affermazione di uno scientismo ottuso nel campo della cura psichica, ha radici più profonde della presunzione di superiorità degli scienziati «puri e duri». Va incontro alla richiesta collettiva di un effetto «placebo»: l’investimento di un rimedio magico alle proprie difficoltà (quando si dispera di poterne venire a capo con l’impegno personale) che ha un valore «curativo» fuorviante.
L’illusione di stare bene, mentre si continua a stare male, poggia su un oggetto rassicurante che deresponsabilizza il soggetto e porta la sua struttura psicocorporea all’immobilità. Si crea in questo modo un falso senso di stabilità, che ha un effetto calmante.
Questo tipo di cura (non solo del dolore psichico), un adattamento al grigiore, è la mentalità dominante dei nostri giorni: basta credere che funzioni.
il manifesto 27.2.16
Se salta Schengen un danno di oltre 100 miliardi l’anno
Bruxelles. Cosa accadrebbe con il ripristino generale delle frontiere all'interno dell'Ue. Dalla commissione l’allarme agli stati per accettare il ricollocamento dei profughi
di Rachele Gonnelli

Non c’è dubbio, l’Europa trema come se stesse per spaccarsi. Preoccupano soprattutto le minacce che vengono dal naufragio dell’aquis di Schengen — altrimenti detto accordo o trattato ma si chiama con questo strano nome che significa pacchetto di regole sullo spazio comunitario di libera circolazione di beni e persone — che insieme alla moneta unica regge l’intera impalcatura della Ue.
Matteo Renzi, intervistato dall’agenzia Bloomberg qualche giorno fa, ha usato la metafora, un po’ stantia ma sempre efficace, dei 28 paesi membri come l’orchestra che suona sul ponte del Titanic. Ma un’altra visione strategica non sembra averla neanche lui.
Ciò che la Commissione ha studiato per convincere gli stati a rispettare Schengen e quindi a collaborare nei programmi di ricollocamento dei profughi e di controllo delle frontiere, è allora lo spauracchio di disastrose conseguenze economiche. Nella relazione della Commissione c’è infatti un dettagliato quadro dell’impatto che il fallimento di Schengen comporterebbe in termini di costi aggiuntivi per cittadini e imprese, mancati introiti e emorragia di posti di lavoro, un’analisi persino più fosca di quella condotta da France Strategie, think tank che elabora valutazioni per l’Eliseo, all’inizio del mese. Se infatti i francesi stimano in 100 miliardi di euro l’anno il colpo sferrato all’economia europea dall’addio a Schengen, per la Commissione si arriverebbe a 138 miliardi di conto finale per gli stati nella loro totalità.
L’impatto più immediato del ripristino generale delle frontiere nazionali sarebbe, naturalmente, sul traffico delle merci, che — precisa la Commissione — rappresenta attualmente un volume di affari pari a 2.800 miliardi di euro e una massa di 1.700 milioni di tonnellate di beni che si spostano tra le frontiere annualmente. Il ripristino dei controlli doganali interni potrebbe costare tra 5 e 18 miliardi di euro, solo di costi diretti. Autotrasportatori e logistica, secondo le stime Ue, pagherebbero un grosso dazio, probabilmente reagirebbero aumentando i prezzi. Pesanti scelte si prospetterebbero per i lavoratori transfrontalieri, che sono molti anche se meno dell’1% della popolazione dell’area Schengen. L’industria del turismo con il ritorno dei visti subirebbe un colpo pesante, tra i 10 e i 20 miliardi, facendo arretrare il Pil della Ue tra lo 0,07 e lo 0,14 per cento.
Secondo le stime di France Strategie gli scambi commerciali sarebbero decurtati del 10–20 per cento, i beni trasportati vedrebbero rincari del 3 per cento a causa delle tasse doganali e dell’aumento dei costi, mentre i danni al settore turistico sarebbero più limitati. Il centro studi d’Oltralpe si sbilancia a fare previsioni di calo del Pil sia a livello dei 28 (- 0,8) sia per i singoli paesi: alla Germania la fine irrevocabile di Schengen costerebbe 28 miliardi di euro, all’Italia 13 miliardi, alla Spagna 10 miliardi, all’Olanda 6 miliardi e così via.
Ma non solo. Tra i documenti preparatori del vertice della prossima settimana a Bruxelles ce n’è anche uno sul mercato dei capitali che spiega come il settore finanziario sia ormai definitivamente cementato a livello continentale ma come possa svilupparsi grazie a finanziamenti pubblici (costerebbe 200 miliardi l’anno solo la transizione verso un’economia low carbon) e garanzie di stabilità.
Cio che manca invece nei documenti redatti dalla Commissione per i rappresentanti governativi è invece un rapporto sui costi sociali dell’operazione di fili spinati e frontiere chiuse. E l’unico approfondimento è una mappa di Frontex che segnala un traffico di migranti interni alla rotta balcanica: albanesi, macedoni e georgiani, «migranti economici» secondo la dizione per segnalare quelli che l’Europa non vuole, perché questi paesi (Albania, Macedonia e Georgia) pur facendo parte dell’Unione europea non sono all’interno dello spazio Schengen, che come si vede dalla piantina proprio nell’area balcanica ha un evidente «buco» o zona grigia. Esattamente costoro sono quelli che tanto spaventano il governo britannico con il suo welfare state.
il manifesto 27.2.16
Se l’Europa dipende da Ankara
Migranti. La sopravvivenza dell’Ue dipende dal vertice del 7 marzo con il premier turco
di Carlo Lania

«L’Europa riuscirà a salvarsi?» si è chiesto ieri il sito di Le Monde mettendo in fila una serie di questioni scoperchiate dalla crisi dei migranti: divisioni tra Paesi fino a ieri amici — come Francia e Belgio o Austria e Germania -, invettive tra Stati e mancanza di solidarietà verso la Grecia, soprattutto da parte dei paesi dell’Est. Per poi concludere sottolineando amaramente come l’incapacità dimostrata nel gestire le centinaia di migliaia di uomini, donne e bambini in fuga dalla guerra rischi di rappresentare la «morte clinica dell’Europa».
Per avere una risposta alla domanda del giornale francese, per sapere se l’Unione europea è davvero arrivata alla fine oppure no, bisognerà attendere il 7 marzo, giorno in cui i leader dei 28 incontreranno di nuovo il premier turco Ahmet Davutoglu al quale chiederanno ancora una volta di mettere fine alle partenze dei profughi. La medicina alla quale Bruxelles si affida nella speranza di salvare Schengen e l’Ue è infatti la Turchia di Recep Tayyip Erdogan. «Un crash test per le istituzioni europee», ha definito l’incontro il commissario Ue all’Immigrazione Dimitri Avramopoulos, lasciando intendere così l’importanza data all’appuntamento. Proprio per preparare il vertice il presidente del consiglio Ue Donald Tusk — che con la cancelliera Merkel è tra i più convinti sostenitori dell’alleanza Ue-Turchia — dall’1 al 3 marzo compirà una missione che lo porterà a Vienna, Lubiana, Zagabria, Skopje e Atene — le capitali della rotta balcanica — per poi incontrare anche il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg e il direttore di Frontex Fabrice Leggeri. L’obiettivo, o meglio la speranza, è quella di arrivare il 7 marzo potendo mostrare un’Europa unita nella risposta da dare alla crisi dei migranti, cosa che al momento non è.
Non è la prima volta che Bruxelles si appella ad Ankara. Lo ha già fatto l’anno scorso firmando alla fine di novembre un accordo che prevedeva lo stanziamento di 3 miliardi di euro alla Turchia (dove si trovano già 2,6 milioni di siriani) che avrebbe dovuto allestire nuovi campi per i profughi migliorando le condizioni di quelli già esistenti. In aggiunta ai soldi, Bruxelles si è detta disponibile alla liberalizzazione dei visti per i cittadini turchi, nonché a riprendere il processo di avvicinamento all’Ue e a inserire la Turchia nella lista dei paesi sicuri.
Va detto che in questi mesi nessuno ha fatto ciò che aveva promesso e che solo ultimamente sembra essere arrivato i via libera ai finanziamenti. L’incontro del 7 servirà comunque proprio a questo, a ricordare a Davutoglu gli impegni presi e a sollecitarlo a fermare i migranti con tutti i mezzi. Sapendo però che anche il premier turco potrebbe mettere sul piatto nuove e più esigenti richieste, sia dal punto di vista economico che politico.
La cosa drammatica è che nessuno sembra preoccuparsi della sorte dei profughi. Impedire loro di arrivare in Europa risolve un problema a Bruxelles ma rischia di mettere seriamente in pericolo le loro vite. Dall’inizio dell’anno fino al 15 febbraio scorso le autorità turche hanno fermato 8.550 migranti e arrestato 19 scafisti, stando a quanto riferito all’agenzia Ansa da fonti diplomatiche. Il modo in cui queste persone vengono trattate lo ha descritto a dicembre Amnesty international, che in un rapporto ha denunciato come centinaia di migranti e richiedenti asilo bloccati al momento della partenza verso la Grecia siano stati trasferiti in centri di detenzione dove sono stati maltrattati e, in alcuni casi, rimpatriati forzatamente in Siria e Iraq. Amnesty riporta anche alcune testimonianze secondo le quali i profughi sono stati picchiati e ammanettati. «La cooperazione tra Ue e Turchia in relazione alle migrazioni dovrebbe cessare finché queste violazioni non saranno oggetto di indagine e si concluderanno», ha chiesto l’organizzazione. Violenze che non valgono solo per i migranti, ha ripetuto tre giorni fa Amnesty ricordando come dalle elezioni dello scorso mese di giugno in generale nel Paese «la situazione dei diritti umani si è deteriorata notevolmente».
Fino a oggi, però, al di là di una serie di generiche dichiarazione sulla necessità di rispettare i diritti umani, Bruxelles non è andata. Né sembra intenzionata a chiedere ad Ankara impegni precisi sul modo in cui verranno trattati i migranti fermati. Rigirando allora la domanda posta dal sito di Le Monde, viene da chiedersi se un’Europa così non sia già morta.
il manifesto 27.2.16
Unioni civili, un brutto primo passo
Diritti. Aveva visto giusto Antonio Gramsci: il problema della debolezza liberale in Italia sta nella presenza non tanto del cattolicesimo ma del Vaticano e del suo grande potere di veto
di Nadia Urbinati

Sì, vi è da rimanere delusi per l’incapacità dei nostri rappresentanti di andare oltre gli ostacoli del pregiudizio; per l’incapacità di osare di sentirsi davvero liberi legislatori che rispondono alla richiesta di eguali diritti che viene dal paese. E vi è di che rammaricarsi che il Pd sia così miscellaneo sui valori fondamentali (una tara che si porta dietro fin dalla nascita) da essere incapace di approdare a una decisione unanime, dando l’impressione che si tratti di due partiti in uno più che di un partito con visioni plurali.
Il bisogno di bussare alla porta di Verdini è da solo una dichiarazione di impotenza e pochezza. E c’è di che inquietarsi per la massiccia e nemmeno velata interferenza del clero romano con le istituzioni dello Stato. Aveva visto giusto Antonio Gramsci quando scriveva che il problema della debolezza liberale del nostro paese sta nella presenza non tanto del cattolicesimo ma del Vaticano. La cattolicissima Irlanda è molto più libera nelle sue leggi della meno religiosa Italia. Il Vaticano ha un potere di veto che non deve essere sottovalutato mai. E per questo, avere una legge zoppa è un meno peggio. Ma sarebbe auspicabile non viverla come punto di arrivo e quindi come una sconfitta, ma invece trasformarla in un punto di partenza. Come punto di arrivo è semplicemente brutta e vergonsosa. Ma ci sono buone ragioni per cercare di verderla come punto di partenza.
La prima ragione sta nella natura stessa dei diritti – che aprono molte più strade di quel che una timidissima legge non faccia apparire. Una volta aperta la porta nessuno, nemmeno i prelati e i loro rappresentanti nelle istituzioni dello Stato, potranno chiuderla. I diritti vengono a grappolo e la vita delle persone si imporrà. La forza del diritto sarà la forza della vita. Questa legge brutta e zoppa sulle unioni civili verrà usata subito (per esempio per risolvere il problema lasciato aperto delle adozioni) e subito mostretà la propria insufficienza, la necessità di modificarla. Le maggioranze in Parlamento non possono fermare il torrente della vita che segue la libera scelta delle persone. Il diritto è ben oltre questa legge e sfiderà questa legge. La quale quindi è solo un brutto e timidissimo primo passo, ma non può essere nè sarà l’ultimo.
La seconda ragione è più radicale e la si è toccata con mano nella discussione sulla maternità surrogata. La violenza della discussione alla quale abbiamo assistito ci deve far riflettere sull’opportunità che lo Stato non intervenga. E’ buona norma di un ragionevole liberalismo che quando si tratta di decisioni che coinvolgono valori e concezioni del bene è preferibile che la legge non intervenga fino a quando non si sia raggiunta una convergenza larga nella cultura morale della società. Ma fino a quando ci sono divisioni forti sui valori sarebbe meglio che la legge tacesse poichè non potrebbe evitare di essere ingiusta. Questo vale naturalmente per la maternità surrogata. Abbiamo già leggi che proteggono le persone e i minori dall’abuso, dalla mercificazione, dalla monetarizzazione – se non si dà reato o violazione dei diritti umani e delle norme che li proteggono, la legge dovrebbe tacere. Questo non può ovviamente valere per le unioni di coppia, poichè in questo caso l’esistenza dell’istituto del matrimonio rende fondamentale che la legge intervenga per regolamentarne l’estensione o la parificazione nei casi di unione tra non eterosessuali.
La terza ragione pertiene alla funzione liberatoria del diritto, ovvero alla ricchezza per tutti che il rispetto degli eguali diritti comporta e corporterà. La discussione al Senato ha mostrato l’assurdità di chi voleva servirsi della “fedeltà” per discriminare tra il “vero” matrimonio e le unione civili. Si pensava cioè di nobilitare il matrimonio degli eterossesuali attribuendo solo ad esso l’obbligo della fedeltà. Il paradosso è che la discussione ha dimostrato che sarebbe desiderabile che l’obbligo di fedeltà venisse a cadere anche per il matrimonio. L’esito di quella che è stata a tutti gli effetti un’intenzione discriminatoria si è rovesciato e ha mostrare quanto invadente e anacronistica e corcitiva sia la legge che regola il matrimonio degli eterosessuali. La maggioranza ha tutto da guardagnare dall’eguale diritto, dall’inclusione della minoranza. Le unioni civili tra persone dello stesso sesso possono costituire un arricchimento di libertà per tutti.
Queste ragioni delle implicazioni positive non rendono comunque buona una legge che non è buona. Mostrano tuttavia che da questo momento si può aprire un nuovo spazio di libertà – o meglio ancora, uno spazio alla contestazione e alla lotta per estendere e perfezionare il diritto all’eguaglianza che tutti devono avere di godere degli stessi diritti.
il manifesto 27.2.16
L’unità dei comunisti, per una casa comune
Lettera aperta del Pcdi al Prc. La proposta: «Almeno 200mila militanti senza riferimento, serve un partito all’altezza, fermiamo la diaspora»
La segreteria nazionale del PCdI

Caro compagno Paolo Ferrero, care compagne e cari compagni del Prc,
noi constatiamo che, giorno dopo giorno, va costituendosi nel Paese, attorno al cosiddetto partito della nazione, un nuovo ordine liberista, di carattere strategico e subordinato ai disegni antipopolari e antidemocratici dell’Unione europea. Noi constatiamo che, sotto la pressione imperialista degli Usa e della Nato, l’Italia è sempre più vicina alla guerra. Gli interventi militari in Libia e in Siria, da parte del governo Renzi, sono disgraziatamente vicini. Noi assistiamo all’attacco forsennato, da parte del governo, del Pd e delle forze reazionarie, alla Costituzione e agli assetti democratici. Tutto ciò mentre l’imposizione dei dettami di Maastricht sta portando l’economia italiana nella stagnazione, nel crollo dell’esportazione, nell’impoverimento. C’è una continua, incessante distruzione del welfare — dalla sanità, alla scuola, ai servizi alle persone — che si accompagna ad imponenti processi di privatizzazione, mentre il lavoro, attraverso il jobs act, si struttura in una sorta di sott’occupazione di massa, dal carattere precario e socialmente disperato.
È in questo contesto, care compagne e cari compagni, che noi rilanciamo il progetto dell’unità dei comunisti e della ricostruzione di un più forte partito comunista in Italia. E per questo progetto ci rivolgiamo innanzitutto a voi, dirigenti, militanti e iscritti del Prc.
Non credete che sia nel pensiero, nella prassi, nel progetto del partito comunista che si ritrovano, per l’oggi e per il domani, i valori più grandi? Quelli della lotta contro la guerra, l’antimperialismo, l’internazionalismo, l’anticapitalismo, il progetto di socialismo. Non credete che attorno a questi valori, oggi, in Italia, siamo innanzitutto noi, i comunisti/e, che dobbiamo ritrovarci e riorganizzarci? Non credete che, oggi, le questioni che ci hanno diviso siano decantate, superate?
A noi pare di sì, e siamo pronti ad unirci. Noi siamo convinti che la gravità della situazione democratica e sociale superi di gran lunga le nostre scorie e le nostre residue differenze.
In questi giorni sono entrati in lotta gli operai del’Ilva, dell’Alcoa, della Piaggio, di Gela e di tante fabbriche e uffici e servizi. Sono lotte importanti, alcune durano da anni, ma sono di natura difensiva e soprattutto non hanno riferimenti né sbocchi politici: non è ora di offrire al movimento operaio complessivo una sponda più solida e chiara? Un partito comunista?
Il Prc, come il PCdI, persegue la linea, giusta, dell’unità delle forze di tutta la sinistra. Senza tuttavia, sopprimere, in essa, l’autonomia comunista ed anzi, all’interno dell’unità della sinistra, rafforzando il soggetto di classe e rivoluzionario: il partito comunista.
In questi anni, segnati dalla nostra divisione, ci siamo indeboliti. Nel Prc, dalla sua nascita, sono entrati e poi usciti migliaia di compagne e compagni; lo stesso Prc, in misura maggiore, e il PCdI, in misura minore, sino a pochi anni fa hanno continuato ad organizzare molte e molti. Nel Paese, senza tessera e senza organizzazione, stanno oggi in solitudine circa 200 mila comuniste e comunisti. Noi vogliamo, insieme, dare un progetto unitario a questa grande diaspora. Vogliamo, insieme, darle passione, restituirle una nuova “casa comune”, una nuova possibilità di militanza. Vogliamo, assieme, ricostruire un partito comunista ed un fronte unitario della sinistra all’altezza dei tempi e dello scontro di classe. Noi siamo pronti a scioglierci, a rinunciare al nostro partito per ricominciare uniti. Camminiamo insieme, venite anche voi?
il manifesto 27.2.16
Denis, il puntello di Matteo. Ma anche la sua zavorra
Governo. Al di là della retorica renziana, il premier esce indebolito dalla vicenda delle unioni civili. E se abbia fatto bene i conti lo si scoprirà presto
di Andrea Colombo

Matteo Renzi esce dalla partita delle unioni civili indebolito. Ha dovuto piegarsi al ricatto di un alleato considerato sino a quel momento del tutto impotente. Una campagna che era stata pensata con la palese finalità strategica di riconquistare consensi a sinistra in vista delle comunali si è conclusa, da quel punto di vista, disastrosamente. Infine, il premier ha dovuto registrare, nel momento meno opportuno, l’ingresso semi-ufficiale dei mercenari di Denis Verdini nella maggioranza. Che prima o poi dovesse accadere era inevitabile, ma certo non ora, non alla vigilia del voto amministrativo, non su una legge già condizionata dai rappresentanti del cattolicesimo più reazionario.
Che questo esito non fosse inevitabile, aldilà del bombardamento propagandistico teso ad addossare ogni responsabilità al Movimento 5 Stelle, è certo. È vero che i pentastellati erano stati oggetto di fortissime pressioni da parte dei vescovi, ma è anche vero che Gianroberto Casaleggio aveva garantito loro solo la resistenza sul piano procedurale, confermando che sul merito della stepchild adoption i suoi senatori avrebbero deciso per conto loro. La legge, senza stralcio e fiducia, sarebbe passata nella sua versione originaria.
In parte Renzi ha giocato sulla difensiva. Temeva non una bocciatura del ddl ma l’approvazione di qualche emendamento subdolo proveniente dall’interno del suo partito, che lo avrebbe messo in una posizione ancor più difficile, senza nemmeno potersi vantare di aver imposto la legge. Ma l’elemento determinante è stato probabilmente un altro. Renzi sa di essere sotto assedio. Il rischio di perdere consensi nelle urne è temibile, ma ha considerato anche più minaccioso quello di trovarsi sguarnito, con una maggioranza in frantumi e circondato da amici pronti a tradire a fronte dell’assedio dei poteri che, in Italia e in Europa, vogliono toglierselo di torno, non subito ma appena dopo il referendum.
I paragoni con il passato sono sempre tirati per i capelli. La situazione di oggi è molto diversa da quella del 2011, quando una trama europea forte di altissime sponde in Italia mise alla porta Silvio Berlusconi. Al Quirinale non siede più Giorgio Napolitano, che è ancora attivissimo ma almeno non più onnipotente. L’Europa cinque anni fa poteva ancora presentarsi con un’immagine granitica. Oggi fatica a fronteggiare il disfacimento. Infine, un nuovo colpo di mano non sarebbe probabilmente accettato dagli italiani, che subirono invece senza un fiato quello del 2011, persino con qualche sciagurato festeggiamento in nome dell’antiberlusconismo.
Ciò non toglie che l’offensiva già iniziata, e per nulla stemperata dai sorrisi diplomatici di ieri nell’incontro Juncker-Renzi, sia molto più che preoccupante. Se l’obiettivo di sfrattare Matteo Renzi da palazzo Chigi appare oggi fuori portata per chiunque, quella di mettergli il guinzaglio al collo dettandogli nel dettaglio le scelte economiche è invece un’ambizione del tutto realistica.
Con Napolitano ancora in campo come tutore degli interessi europei (proprio a lui avrebbe telefonato settimane fa Angela Merkel per chiedere di riportare all’ordine il reprobo fiorentino) e con un Pd che all’Europa ha sempre offerto una resistenza di burro, il premier ha scelto di rinsaldare prima di tutto la propria maggioranza e di puntellarsi apertamente su Verdini. È una decisione che gli costerà voti sonanti e che offre un’arma contundente all’opposizione interna al partito ma che Renzi ha comunque preferito all’eventualità di affrontare l’attacco dei poteri finanziari interni ed esterni quasi senza difese. Se abbia fatto bene i conti o no, lo si scoprirà molto presto.
Il Sole 27.2.16
Pechino promette stabilità sullo yuan
di Rita Fatiguso

Shanghai. L’arma cinese per sedare e rassicurare i mercati è il Governatore della banca centrale Zhou Xiaochuan, che ieri ha vissuto una giornata intensissima . Il numero uno della People Bank of China ha rianimato i listini dopo un giovedì nero, purtroppo senza dissipare i dubbi che avvolgono le politiche di Pechino ormai da mesi.
Il numero uno della People Bank of China ieri ha vissuto una giornata intensissima (briefing con Fondo monetario, conferenza stampa di apertura del G-20 dei ministri delle Finanze e dei Governatori delle Banche centrali, incontro con gli investitori dell’Iff con i quali ha dialogato, è la prima volta che succede, in inglese) spesa a rianimare le borse e soprattutto a dissipare i dubbi sullo stato di salute della Cina. Con la voce chioccia di sempre, l’aggettivo prudent ripetuto a scadenze fisse, a segnare ogni passaggio chiave del suo discorso, il Governatore della PboC ha dimostrato di essere davvero un intangible asset, come ama definirlo il suo sponsor, il presidente Xi Jinping.
Zhou Xiaochuan ha rianimato i listini dopo un giovedì nero, purtroppo senza dissipare i dubbi che avvolgono le politiche di Pechino, ormai da mesi. Alla destra il fido Yi Gang, che ha lasciato la guida di Safe, l’agenzia che vigila sui movimenti di valuta estera, per tornare a fare il deputy di PBoC, Zhou mentre parlava faceva lievitare l’indice Composite di Shanghai che ha guadagnato subito l’1,08%, a 2.770,87 punti, Shenzhen l’1,10%, a quota 1.757,72. La Borsa di Shanghai, comunque, ha terminato gli scambi in rialzo dello 0,95%, a 2.767,21 punti, mentre quella di Shenzhen manca il rimbalzo nell’ultima parte della seduta, cedendo lo 0,12%, a quota 1.736,54.
Poi Zhou riesce anche a convincere il mondo che la Cina gode di buona salute. Secondo Zhou infatti c’è ampio spazio per far crescere la fiducia del mondo nella seconda economia e sul fronte monetario ci sono ancora margini di manovra.
Dal Fondo monetario arrivano nel frattempo le voci di una richiesta, pressante, al G-20 e alla Cina, in particolare, a lavorare sul fronte dello stimolo della domanda e delle riforme strutturali, peraltro al centro di un lungo dibattito in mattinata. L'Fmi poi aggiunge che la crescita ci sarà ma a patto che si prendano decisioni precise.
«I rischi sono alti, ma vediamo la crescita, ma la Cina dovrebbe crescere tra il 6 e il 6,5 per cento, gli effetti delle politiche monetarie, in generale stanno svanendo”, secondo Christine Lagarde. Pechino, invece, parla di 6,5-7 per cento.
Zhou ha comunque affrontato anche il tema del deficit, sollevato da un rapporto interno di PBoC secondo il quale il tetto potrebbe essere portato anche oltre il 4 per cento. Sì, ci potrebbero essere deficit più elevati, anche a livello temporaneo.
La nostra politica monetaria è prudente e relativamente accomodante, dice. Stiamo passando dalla politica monetaria a una basata sui prezzi. Non c’è pericolo di svalutazione dello yuan, né pericolo di crisi di liquidità, il livello di risparmio cinese è alto, al 50% del Pil. Anche l’andamento del commercio estero è caratterizzato da un notevole surplus. Insomma, un quadro idilliaco che non combacia con la realtà.
Tanto è vero che la stessa PBoC diffonde in conferenza stampa un documento con domande e risposte su questioni molto dettagliate, la maggior parte delle quali in risposta a una serie di problemi sollevati negli ultimi tempi da media e addetti ai lavori e rimasti senza risposta ufficiale.
Tra gli interrogativi più pressanti che trovano risposta rientrano l’aumento a gennaio di 2 trilioni di yuan, che PBoC imputa al nuovo Capodanno cinese, ai viaggi e a quant’altro collegato alla festa più importante dell’anno in Cina. Non è un incremento anomalo, diamo importanza – dice il Governatore - alla domanda aggregata e monitoriamo attentamente i cambiamenti nel leverage.
Sì, la Cina interverrà sulle riforme strutturali dal lato della domanda. Tutto questo per raggiungere una sufficiente e sostenibile crescita. Nel 2005 lo yuan è stato sottoposto a un regime di oscillazione, oggi sempre più collegato a un paniere di valute, se l’ingegneria è chiara – ha detto lo stesso Zhou – gestire in realtà la situazione non è sempre altrettanto facile.
Al momento la Cina è stabile, vanta un consistente surplus, la crescita relativamente sostenuta, l’inflazione bassa, in quanto agli outflows, ebbene, dal 2002 al 2014 le riserve sono cresciute oltre 300 miliardi di dollari a 4 trilioni circa di dollari e gli outflows rappresentano un terzo. Tuttavia i movimenti non dovrebbero sorprendere, sono in linea con la ristrutturazione dell’economia. A dicembre si è trattato di 3,33 trilioni mentre nel 2015 si è verificato un notevole capital outflow ma Zhou sostiene che molti fattori positivi hanno contribuito al declino delle riserve, tra cui perfino la strategia Go global delle aziende cinesi e i movimenti di import-export.
Il Sole 27.2.16
Il Cairo risponda alla domanda fondamentale
di Ugo Tramballi

Colpo di scena, edizione straordinaria, svolta clamorosa nelle indagini: Giulio Regeni era un giovane ricercatore, viveva al Cairo dove studiava i sindacati egiziani.
Aveva quasi concluso il suo lavoro e stava per ripartire, per proseguire altrove i suoi studi, avere altre esperienze, conoscere nuove realtà e altre fette del mondo. Perché come una buona parte dei giovani della sua generazione, il mondo era la sua casa.
Ai più sembreranno notizie ovvie, l’ennesimo tentativo giornalistico di vendere come scoop una non notizia. Ma questo è stato fatto da molti, per settimane. Ora sappiano che Giulio non era un agente segreto, non era al soldo di una potenza nemica, di una multinazionale o dei nostri servizi. E nemmeno, come insinuavano gli egiziani, un drogato che era stato ucciso per non aver pagato il suo pusher, un latin lover assassinato da un rivale o uno sbadato che è stato investito da un’auto mentre attraversava un’autostrada.
La disinformazione non l’hanno fatta solo gli egiziani: loro tendevano – e continuano a farlo – a banalizzare Giulio e la sua morte; noi, una buona parte della stampa italiana, a trasformarlo in un personaggio misterioso, una pedina e/o protagonista di una teoria del complotto internazionale contro l’Italia e i suoi interessi economici in Egitto.
Il “dato certo” emerso ieri dalle indagini della Procura di Roma ci restituisce il vero Giulio Regeni: è il minimo che gli si dovesse. Giulio non faceva uso di sostanze stupefacenti e a giorni lo confermerà in via definitiva il referto dell’indagine neroscopica. Ma la cosa più importante – lo scoop struggente che dovrebbe commuovere tutti e far provare un senso di colpa ad alcuni – è che Giulio «faceva una vita sostanzialmente riservata, trascorrendo ore in chat con la sua ragazza ungherese e comunicando via mail con la famiglia». Potreste immaginare un ragazzo più normale di così? Quanti di noi hanno figli che studiano all’estero, curiosi come Giulio, e che fanno esattamente le stesse cose, dedicando logicamente più tempo alla fidanzata e meno ai genitori?
Giulio, dicono ancora i giudici italiani, è stato assassinato a causa delle sue ricerche accademiche. La visione del materiale sul suo computer che i genitori erano riusciti a prendere nella sua casa del Cairo e portare in Italia dimostra che le sue ricerche non sono mai uscite dall’ambito universitario. Regeni studiava i sindacati indipendenti che oggi in Egitto sono l’unica opposizione attiva. I giovani di piazza Tahrir sono già tutti in galera. Con i sindacalisti il regime sta più attento perché possono paralizzare le fabbriche necessarie per la ripresa economica e dell’occupazione nel Paese. Il giovane italiano è stato torturato fino alla morte perché i suoi aguzzini volevano estorcere informazioni che lui non poteva avere perché era solo un giovane studioso: uno stato anagrafico e una categoria che gli apparati di sicurezza egiziani con licenza di uccidere, detestano.
La Procura di Roma ha fatto chiarezza su alcune cose importanti. Ma non potrà farla su quella più importante, a questo punto: scoprire chi ha ucciso Giulio e chi ha dato l’ordine di farlo, se un ordine c’è stato. A questa domanda finale non può dare risposta la nostra squadra che indaga al Cairo, resa cieca dalla metodica, scientifica e indefessa assenza di collaborazione delle autorità egiziane. Né intendono darla gli inquirenti del Cairo i quali, più che indagare, attendono ordini dal loro governo.
Il Sole 27.2.16
La scuola sceglie 64mila docenti
Il concorso per insegnanti abilitati. Quasi 10mila posti per cattedre in discipline letterarie
di Eugenio Bruno Claudio Tucci

Bandi pubblicati sulla «Gazzetta Ufficiale»
Istanze tramite il sistema Polis da lunedì fino alle ore 14 del 30 marzo

ROMA L’attesa per gli oltre 200mila candidati a una cattedra di ruolo nella scuola sta per finire: dalle ore 8 di lunedì 29 febbraio sarà possibile presentare domanda per partecipare al “concorsone”, il primo dopo quello bandito nel 2012 dall’ex ministro Francesco Profumo, che mette in palio 63.712 posti nel triennio 2016-2018 (57.611 posti comuni, cioè relativi alle varie discipline; i restanti 6.101 sul sostegno).
I tre bandi - uno per infanzia e primaria, uno per la secondaria e, per la prima volta, uno ad hoc per il sostegno - della nuova maxi-selezione, prevista dalla riforma Renzi-Giannini, sono stati pubblicati ieri, con quasi tre mesi di ritardo, sulla Gazzetta Ufficiale del 26 febbraio, sezione «Concorsi ed Esami», n. 16.
Le domande si presentano on line fino alle ore 14 del 30 marzo 2016 tramite il sistema Polis.
I posti messi a concorso sono 7.237 per la scuola dell’infanzia; 21.098 per la primaria; 16.616 per le medie e 18.255 per le superiori. A questi si aggiungono 506 posti relativi a tutti i gradi di istruzione che vengono banditi sulla nuova classe di concorso «A023» (italiano per studenti stranieri).
A far la parte da leone, a medie e superiori, sono le cattedre in «discipline letterarie, storia e geografia» con 9.368 posti; a seguire «matematica, scienze e fisica», con 5.541.
Potranno partecipare al “concorsone” solo i docenti abilitati. Con due novità. Si conferma l’esclusione per gli insegnanti già assunti a tempo indeterminato e, nel bando per la scuola dell’infanzia e primaria, si apre alla partecipazione anche ai candidati in possesso del diploma magistrale ante 2001/2002, che quindi viene riconosciuto ufficialmente anche dal Miur (dopo diverse sentenze giudiziali) titolo avente valore abilitante. Per la selezione sul sostegno, oltre all’abilitazione, è richiesto ai candidati in aggiunta il possesso del titolo di specializzazione, appunto, sul sostegno.
«Oggi segniamo un’altra tappa fondamentale dell’attuazione della legge 107 - ha dichiarato la ministra dell’Istruzione, Stefania Giannini -. Si torna alla Costituzione: avremo un bando ogni tre anni, con cadenza regolare».
I candidati, nella domanda on line, dovranno indicare una sola regione. Ma se, per esempio, un candidato che partecipa alla selezione per infanzia e primaria, avendone i titoli, può concorrere anche per una cattedra alle medie, superiori, o sostegno e qui può fare istanza anche in una regione diversa. Nella domanda bisognerà indicare i posti per cui si intende concorrere. Per ogni procedura concorsuale è dovuto un diritto di segreteria di 10 euro.
Passando alle prove, è confermata l’assenza della preselezione. Si partirà subito con gli scritti, che si svolgeranno interamente al computer, e dovrebbero scattare per fine aprile. Ma la data esatta si conoscerà solo il 12 aprile quando uscirà l’avviso sulla Gazzetta Ufficiale.
Lo scritto prevede 8 domande sulla materia di insegnamento di cui 2 in lingua straniera (inglese, francese, tedesco o spagnolo, obbligatoriamente l’inglese per la primaria). I quesiti saranno 6 a risposta aperta (di carattere metodologico e non nozionistico) e 2 (quelli in lingua) a risposta chiusa. Le due domande in lingua prevedono, in particolare, cinque sotto-quesiti, ciascuno a risposta chiusa. Il candidato dovrà dimostrare di avere un livello di competenza pari almeno al livello B2. Lo scritto avrà una durata di 150 minuti, mentre sono previsti 45 minuti per l’orale: 35 per una lezione simulata e 10 di interlocuzione fra candidato e commissione. Per alcune classi di concorso sono previste anche delle prove pratiche. Nella valutazione dei titoli si valorizzeranno, fra l’altro, i titoli abilitanti, il servizio pregresso, il dottorato di ricerca, le certificazioni linguistiche.
Il Sole 27.2.16
Il test di Salvini a Roma per aprire i gazebo al mondo della destra
di Lina Palmerini

Cade anche a destra il muro del “no” alle primarie. Comunque vada l’iniziativa dei banchetti leghisti a Roma per affidare ai cittadini la scelta del candidato sindaco, si apre una breccia in un mondo che aveva sempre lasciato a Berlusconi l’ultima parola. Si ricordano ancora i manifesti di Giorgia Meloni che aveva creduto alle primarie del centro-destra – e che non arrivarono mai – mentre ora Salvini passa alle vie di fatto senza chiedere permesso al Cavaliere. Anzi. Il risultato potrebbe anche essere quello di smontargli la candidatura di Bertolaso – così fortemente voluta dal leader di Forza Italia – e dividere la destra in nome di un interesse tutto leghista. Quello di tentare un radicamento a Roma, a dispetto del partito della Meloni e con l’ambizione di prendere voti a sinistra nelle borgate romane.
Da un lato si potrebbe dire che è inevitabile il contagio delle primarie anche nel campo del centro-destra. In fondo sono rimasti soli. Il Pd da tempo ricorre ai gazebo per la scelta dei candidati, i 5 Stelle usano il web con meno successo di popolo ma pur sempre seguendo un principio di selezione affidata agli iscritti. Quanto siano manipolati i dati non è chiaro ma comunque vale un modo di procedere che finora è sempre stato rinnegato dal mondo berlusconiano. Dunque, la mossa di Salvini scardina un metodo, quello delle cene ad Arcore o a Palazzo Grazioli, in cui solo i leader avevano facoltà di scelta senza che i loro elettori avessero parte in commedia. Fin dove porterà questa breccia non è chiaro perché sarà proprio il test di Roma – il successo o l’insuccesso – a verificare se il metodo fa altrettanto presa tra chi vota a destra.
Quello che è certo è che non c’è stata una folgorazione di Salvini per i gazebo. Il suo è un calcolo meramente politico nel senso che i banchetti sono stati soprattutto un modo per il leader leghista di fare i suoi giochi smarcandosi dagli alleati. E soprattutto senza il vincolo di Berlusconi. Alleanze che ha voluto variabili come si vede dal patto di Milano, teatro di una mossa ipocrita quanto opportunista dei leghisti. Dal «mai con Alfano», pronunciato da Salvini in tutti questi mesi, si è passati al «mai sul palco» con Alfano che è un po’ una messinscena per non testimoniare con un’immagine una giravolta politica.
Che in Lombardia il Carroccio abbia più bisogno del centro-destra è evidente per due ragioni. La prima è che Milano deve rispecchiare l’alleanza che già esiste in Regione e che sostiene Maroni. La seconda – e più importante ragione – è che bisogna reggere l’urto delle inchieste sulla sanità lombarda. Ieri è stato fermato a Miami quello che è considerato il socio in affari del leghista Fabio Rizzi, Stefano Lorusso, ma è chiaro che la storia dominerà la campagna elettorale a Milano. Dunque, in terra lombarda non è opportuno dividersi dal centro-destra con iniziative personalistiche visto che già il Pd e i 5 Stelle spareranno a zero sugli affari di esponenti della Lega. Finire pure nel tritacarne del fuoco amico sarebbe sciocco.
A Roma, invece, è un’altra storia. C’è un forte bacino elettorale di destra ma, come dimostrano i sondaggi, non si riconosce nella candidatura di Bertolaso. È uno spazio di opportunità di Salvini per radicarsi nella Capitale a spese di Forza Italia e di Fratelli d’Italia della Meloni. Sempre che i romani abbiano dimenticato e superato gli slogan con cui la Lega si è affermata. A cominciare da “Roma ladrona”.
Il Sole 27.2.16
Chiesa ed economia
Nelle parole del cardinale Ravasi la condanna del predominio della finanza
«La ricchezza senza lavoro distrugge l’uomo»
di Carlo Marroni

Cita don Lorenzo Milani, il priore di Barbiana che più di altri in Italia, e controcorrente, disse parole che oggi risuonano forti con la voce di Jorge Mario Bergoglio: «Non c’è nulla che sia ingiusto quanto far parti uguali tra disuguali». La frase, citata dal cardinale Ravasi, è scritta nella storia della Chiesa ed è un’immagine a tinte forti delle disuguaglianze del pianeta che tengono ai margini del pianeta oltre 800 milioni di persone, che vivono con meno 1,25 dollari al giorno. Non c'è via di uscita per l’intera umanità, che pur avendo beneficiato della globalizzazione - dice Romano Prodi, che conosce bene il Sud del mondo, dall’Asia all’Africa - stenta ad avviare una seria redistribuzione della ricchezza. Ravasi parla di ciò che “distrugge l’uomo”, e focalizza la «ricchezza senza lavoro, gli affari senza la morale» e in primis «il predominio della finanza sull’economia». Il tema della finanziarizzazione aleggia sull’intero seminario di Confindustria, in sintonia con la pastorale, sia di Benedetto XVI che soprattutto di Francesco, che alla «idolatria del denaro» ha dedicato un intero capitolo del fondamentale Evangelii Gaudium. «Non è possibile che non faccia notizia il fatto che muoia assiderato un anziano ridotto a vivere per strada, mentre lo sia il ribasso di due punti in borsa. Questa è esclusione» dice il “manifesto” del pontificato del 2013, che condanna la speculazione finanziaria che concentra in pochissime mani una ricchezza smodata e riduce larghe fasce della popolazione in miseria. Le cifre che emergono dal convegno lasciano in silenzio l’uditorio: a fronte di una ricchezza reale prodotta al mondo di 80 triliardi di dollari all’anno, i prodotti finanziari sono dieci volte tanto. Nessuno condanna la finanza, che anzi ha un ruolo decisivo nel processo economico, ma la sua degenerazione, i cui effetti si stanno pagando cari a tutte le latitudini, pochi esclusi (molti dei quali sono nel pullman citato da Prodi). «Bisogna distinguere tra chi fa banca e chi fa finanza. Il ruolo delle banche è sostenere le imprese» ha detto Gabriele Piccini, country chairman per l’Italia di Unicredit, «ma le banche non possono limitarsi al credito, devono andare oltre, aiutare le imprese a crescere, essere vicine alle famiglie, sia per l’abitazione ma anche per la protezione del loro risparmio». Già, il risparmio. Il pensiero va alle quattro banche coinvolte nel processo di risoluzione: in molti casi, dice Giuseppe Guzzetti, presidente dell’Acri e della Fondazione Cariplo, è stata tradita la fiducia di famiglie e pensionati, ridotti sul lastrico «con un sorriso falso. La vicenda ha interessato centinaia di migliaia di investitori e risparmiatori e a pagarne le spese sono state persone che hanno riposto la loro fiducia in altre persone che incontravano ogni giorno dietro lo sportello e che con un sorriso falso hanno portato famiglie e pensionati sul lastrico».
Bergoglio e Squinzi
Le “nuove” (?) forme dell’ideologia del dominio
Il Sole 27.2.16
La solidarietà creativa
di Alberto Quadrio Curzio

La solidarietà creativa è stato il paradigma ideale ed operativo del seminario che si è tenuto ieri a Roma quale momento di riflessione propedeutica all’incontro di oggi tra Papa Francesco e la Confindustria guidata da Giorgio Squinzi.
Il seminario ha posto al centro il «Fare insieme» ovvero la coniugazione tra “etica ed impresa nella società connessa e globale”. Titolazione, anche interrogativa, alla quale abbiamo tentato una nostra risposta. Prima di illustrarla è bene richiamare un enunciato di una Enciclica di Giovanni Paolo II: la Centesimus Annus del 1991. Nella stessa è scritto «La Chiesa non ha modelli da proporre. I modelli reali e veramente efficaci possono solo nascere nel quadro delle diverse situazioni storiche, grazie allo sforzo di tutti i responsabili che affrontino i problemi concreti in tutti i loro aspetti sociali, economici, politici e culturali che si intrecciano tra loro». Ma è scritto anche, con una precisazione specifica e forte, «… la Chiesa offre, come indispensabile orientamento ideale, la propria dottrina sociale». Si pone allora il problema di combinare ideali con modelli operativi caratterizzati da una concretezza dinamica ed approssimante i principi. A tal fine scegliamo tre categorie presenti sia del pensiero sociale cattolico sia in correnti del pensiero istituzionale, sociale ed economico: la solidarietà, la sussidiarietà, lo sviluppo.
La solidarietà. Spesso con questo termine-concetto si intende la rinuncia di chi più ha a favore di chi meno ha. Ovvero la solidarietà redistributiva ed erogativa a tutela dei più deboli che in prevalenza è compito delle Istituzioni. Ma è anche un’opera dei tanti soggetti non profit che aggiungono al profilo retributivo quello della prossimità per cui gli assistiti sentono di essere parte di una comunità di persone.
Esiste però anche la solidarietà creativa che è non meno importante. Compito delle imprese è quello di realizzare questa solidarietà dando lavoro e professionalità, conoscenze e competenze, innovando e quindi rendendo l’attività produttiva solida e durevole. L’impresa che opera così, che consegue profitti da creatività (e non rendite di posizione come accade a chi opera in condizioni di monopolio), che riesce a stare sui mercati compresi quelli internazionali, svolge un’opera di solidarietà economica con forti riflessi sociali.
Tra le due forme di solidarietà (redistributiva e creativa) si possono creare talvolta delle tensioni la cui risoluzione non è semplice in quanto mentre la solidarietà creativa guarda molto allo sviluppo nel tempo e quindi alle nuove generazioni, quella redistributiva guarda soprattutto alle generazioni presenti disagiate. In varie parti dei Trattati europei si trovano queste due forme di solidarietà come meritevoli, entrambe, di essere perseguite.
La sussidiarietà. È una categoria meno nota ma ampiamente presente sia nel pensiero sociale cattolico sia nei trattati europei sia nella analisi e nella pratica politica, economica e sociale. Si tratta di un criterio che ripartisce poteri e funzioni in verticale tra le istituzioni ovvero tra vari livelli di governo e in orizzontale tra le tre componenti di una buona democrazia ovvero tra le istituzioni, la società e l’economia. La sussidiarietà significa libertà, autonomia e decentramento ma anche responsabilità di tutti gli operatori in quanto parti di un sistema democratico.
Tra i molti punti di vista per guardare alla sussidiarietà scegliamo quello della distinzione tra democrazia rappresentativa e partecipativa per evidenziare il ruolo delle associazioni di imprese che in questo seminario sono attori tramite Confindustria. Queste associazioni nascono nell’ambito economico dove principalmente vivono, ma svolgono anche funzioni sociali e intrattengono rapporti con le Istituzioni. Il significato di questa portata socio-istituzionale risalta meglio pensando per contrasto alle democrazie dirigiste-liberiste che si polarizzano su Stato e mercato e che possono passare dal dirigismo al liberismo con oscillazioni del pendolo. In esse talvolta è troppo forte lo Stato e in altre il mercato. Il centro concettuale della democrazia partecipativa di tipo economico-sociale europeo è invece più l’impresa con i suoi sistemi associativi. In queste associazioni di liberi imprenditori si configura una comunità che cerca di raggiungere, attraverso la creatività e la cooperazione, un fine economicamente sostenibile che non è principalmente la massimizzazione del profitto di breve termine. È un’impostazione dove l’homo faber precede l’homo oeconomicus.
Lo sviluppo. È un’entità complessa che non si esprime solo in termini di reddito nazionale ma attraverso molti altri indicatori di benessere. Tra questi ne scegliamo uno che rende possibile la durata dello sviluppo nel tempo e cioè gli investimenti e le infrastrutture. L’Europa si troverebbe in questo momento storico nella necessità di attuare un grande programma di investimenti per riassorbire la disoccupazione, per evitare la distruzione di capacità produttiva e quindi di obsolescenza delle risorse umane, per rendere ecocompatibili tante infrastrutture vecchie. Tuttavia non lo fa perché sta perdendo la fiducia in se stessa e quindi ritiene che solo un rigido controllo della spesa pubblica possa assicurare la sostenibilità delle economie europee. Intanto nella sola Eurozona ci sono 3,5 milioni di disoccupati sotto i 25 anni di età. Se le Istituzioni europee avessero coraggio sarebbe possibile trovare quelle risorse di alcune migliaia di miliardi di euro per rinnovare nei prossimi 20 anni con gli investimenti tutto il sistema economico ed ambientale europeo.
L’Unione europea nata dalla solidarietà creativa e lungimirante delle istituzioni e degli stati, dei popoli e delle società, delle economie e delle imprese rischia adesso di implodere per grettezza conservatrice.
Corriere 27.2.16
Lingua fatta di tante lingue: è l’italiano in cerca di autori
di Alessia Rastelli

La parola opzione sta mettendo all’angolo scelta . Evento fagocita manifestazione . Scenario riduce l’uso di scena , panorama , quadro , ipotesi , progetto , situazione . «Vi ho visto uscire» vale quanto «vi ho viste uscire», «le do» quanto «gli do». «Dico che è un bene» sostituisce «dico che sia un bene».
Meno alternative e rigidità normative, maggiore semplificazione e vicinanza tra scritto e orale, contagio dell’inglese e delle altre lingue dei «nuovi italiani», influenza della sintassi — «orizzontale», con poche subordinate — di Internet e dei social newtork: istantanee dell’italiano che cambia, così come viene fotografato nel numero in uscita il primo marzo della rivista «Nuovi Argomenti» (Mondadori), curato da Giuseppe Antonelli. Che lingua fa? è il titolo del volume, che raccoglie gli interventi dei linguisti più autorevoli (tra i quali Tullio De Mauro, Gian Luigi Beccaria, Vittorio Coletti, Michele Cortelazzo, Nicoletta Maraschio, Claudio Marazzini, Luca Serianni, Pietro Trifone), ma anche l’esperienza diretta di chi con le parole lavora ogni giorno, contribuendo alla loro vitalità ed evoluzione. Editor e traduttori, poeti e scrittori (tra i quali Andrea Camilleri, Nicola Lagioia, Emanuele Trevi).
Il punto di partenza, per tutti, è una ricognizione su come stia oggi l’italiano. Il modello è quanto fece, poco più di cinquant’anni fa, nelle Nuove questioni linguistiche (1964), Pier Paolo Pasolini, teorizzando la nascita di un italiano «tecnologico», nutrito non più dai letterati, ma dai protagonisti dell’economia neocapitalistica.
Ora come allora, la lingua non è solo fonetica e morfologia, sintassi e lessico: intrattiene strette correlazioni con la realtà e il contesto storico-sociale di chi la usa. Una prospettiva che la rassegna curata da Antonelli non perde mai, risultando avvincente anche per i non addetti ai lavori. Tra i vari articoli, ad esempio, quello dello scrittore Giorgio Vasta, dal titolo La sagacia. Appunti sul discorso politico nazionale attraverso la social top ten di Gazebo , la trasmissione di Raitre condotta da Diego Bianchi, in arte Zoro, in cui occupa uno spazio decisivo la rilettura dei fatti attraverso Twitter. D’altra parte, come nota nel suo intervento lo studioso Paolo D’Achille, lo stesso Bruno Migliorini concludeva la fondamentale Storia della lingua (1960), sostenendo che «l’italiano sarà ciò che sapranno essere gli italiani».
Numerosi, nel volume di «Nuovi Argomenti», gli articoli che toccano il ruolo della scuola, sia per quanto riguarda l’integrazione (anche linguistica) di chi arriva da altri Paesi, sia l’insegnamento ai ragazzi italiani. Dei quali — scrive tra gli altri Rita Librandi — «è centrale e preoccupante la progressiva regressione delle competenze lessicali e della capacità di adoperare una lingua in grado di argomentare ogni questione».
Sintetizza la situazione nel suo complesso, con uno sguardo al futuro, Nicoletta Maraschio: «I giovani che parleranno e scriveranno l’italiano di domani rispecchiano le contraddizioni dell’Italia linguistica di oggi; leggono di più dei loro genitori e usano quasi tutti Internet e i social network, ma spesso lo fanno per funzionalità ridotte e la percentuale dei non lettori è ancora troppo elevata; conoscono meglio l’inglese ma sono indifferenti all’abuso di anglismi che rende poco trasparente l’italiano di oggi». Quindi l’attenzione si sposta sugli studenti di origine straniera: «Tra i giovani ci sono naturalmente anche i migranti, che hanno conoscenze molto differenziate», fino a concludere che quella «dei diritti e dei doveri dell’integrazione linguistica è una questione centrale che coinvolge molti soggetti, a cominciare dalla scuola e dalla politica».
E anche chi, soprattutto, la convivenza di italiano e idioma d’origine la sperimenta in primo luogo dentro di sé. «C’è una lingua della conoscenza — testimonia Igiaba Scego, autrice nata nel nostro Paese da genitori somali, che nei suoi romanzi si esprime in italiano — e c’è una lingua del cuore. Le storie devono essere sempre scritte in una lingua che le contiene entrambe».
Corriere 27.2.16
Tanta memoria super mente? No
Il metodo per migliorare il meccanismo del ricordo esiste e funziona
Ma diventare un genio non è così facile
di Anna Meldolesi

Simonide di Ceo, il poeta greco utilizzò la tecnica dei «loci» per identificare i commensali morti
L’ippocampo immagazzina dati rapidamente, ma poi vanno consolidati Ireneo
Funes è un indimenticabile personaggio ipermnestico creato da Borges

«Metti il turbo alla tua mente». «Genio in 21 giorni». «Il segreto di una memoria prodigiosa». «L’arte di ricordare tutto». A giudicare dai titoli in vendita su Amazon, sgobbare sui libri è out. L’apprendimento è diventato smart. Manuali, dunque, ma anche software, corsi dal vivo, campionati della mente. Tutto cospira per farci credere che intestardirsi a leggere, sottolineare, rileggere e ripetere sia un’inutile perdita di tempo. Che armati delle giuste tecniche mnemoniche avremmo potuto laurearci in metà tempo, scalare la gerarchia aziendale, sbalordire gli amici recitando libri interi.
La maggior parte delle persone è convinta che l’affermazione «usiamo solo il 10% del cervello» sia validata dalla scienza, ma è solo una leggenda. Credere di avere un enorme potenziale non sfruttato è confortante, come sperare di ereditare una fortuna da un lontano parente. Il sogno della memoria perfetta, in particolare, ha una lunga storia, che inizia nel V secolo a.C. con Simonide di Ceo. Il poeta greco, racconta Cicerone, fu l’unico sopravvissuto a un catastrofico crollo durante un banchetto. Per identificare i corpi chiuse gli occhi richiamando alla mente l’immagine dei commensali ancora vivi a tavola. In questo modo sarebbe nata la tecnica dei “loci” e del “palazzo della memoria”, tuttora raccomandata dai campioni dell’apprendimento rapido come Matteo Salvo, che memorizzando un mazzo di carte in apnea si è guadagnato un posto nel Guinness dei primati. Il metodo consiste nell’associare le cose da ricordare a immagini vivaci, organizzandole in uno spazio architettonico che può essere ripercorso mentalmente ritrovando i ricordi belli in fila. Per molto tempo - prima di internet e dei libri stampati - avere una memoria infallibile doveva essere la più preziosa delle qualità. Oggi disponiamo di memorie esterne infinitamente capienti ma continuiamo a volere una marcia in più, per competere e per rallentare l’invecchiamento cerebrale. Nel business del potenziamento mentale c’è posto per farmaci, dispositivi di stimolazione magnetica, videogame, meditazione e anche per le mnemotecniche che erano in voga secoli fa.
Secondo uno studio pubblicato su Nature Neuroscience 9 campioni di memoria su 10 usano il sistema dei loci per ricordare. Scientific American ha passato in rassegna i dati sul metodo, concludendo che potrebbe davvero migliorare le prestazioni, anche se metterlo in pratica non è poi così facile, soprattutto se non si è più tanto giovani. «L’associazione con posti, immagini, emozioni rende più salienti le tracce mnemoniche facilitandone il recupero», ci spiega Salvatore Maria Aglioti della Sapienza di Roma. «Non è detto però che le informazioni così immagazzinate nel sistema rapido dell’ippocampo, poi vengano consolidate a lungo termine nella corteccia cerebrale», ragiona Alessandro Treves, neuroscienziato della Sissa di Trieste. Sappiamo che alcune persone dalla memoria eccezionale usano spontaneamente dei trucchi, ma questo non significa che emulando i loro metodi otterremo gli stessi risultati. «Non basta ricordare di più per avere una comprensione profonda o per collegare le informazioni in modo creativo», aggiunge Piergiorgio Strata dell’Università di Torino. Usare le immagini anziché i significati può rivelarsi un fardello se si tratta di elaborare i dati anziché limitarsi a ricordare. La super memoria non è super intelligenza, concordano i ricercatori.
Il Signor S. descritto dal pioniere della neuropsicologia Aleksander R. Lurija, ad esempio, aveva una memoria mirabile, che gli permetteva di fare il giornalista senza prendere note, ma anche una bizzarra serie di distorsioni percettive che gli complicavano la vita. Probabilmente certe facoltà straordinarie si presentano quando il sistema nervoso non matura del tutto e conserva connessioni che normalmente verrebbero sfoltite. Ireneo Funes è l’indimenticabile ipermnestico uscito dalla penna di Borges. Un personaggio letterario, certo, ma sorprendentemente credibile dal punto di vista scientifico. Con un’occhiata registrava tutti i tralci, i grappoli e gli acini d’una pergola. Sapeva le forme delle nubi australi dell’alba del 30 aprile 1882 e poteva confrontarle, nel ricordo, con le spume che sollevò un remo, nel Rio Negro, la vigilia della battaglia di Quebracho. «Era il solitario e lucido spettatore d’un mondo multiforme, istantaneo e quasi intollerabilmente preciso». Incapace di idee generali, probabilmente non molto bravo a pensare.
Repubblica 27.2.16
Pechino rassicura “Non svalutiamo” Berlino: più rigore
Al G20 Schaeuble rifiuta l’idea Usa di stimoli fiscali. Fmi chiede riforme
di Giampaolo Visetti

SHANGHAI. I Grandi concordano sulla diagnosi, ma non condividono la terapia. L’economia globale è oggi «altamente vulnerabile » e la crescita «più debole del previsto»: per guarire però alcuni invocano «riforme strutturali» e basta, mentre altri aprono a «tutti gli strumenti a disposizione», da quelli monetari alla leva fiscale. Così a Shanghai, cuore della bolla finanziaria cinese che preoccupa le Borse mondiali, il G20 si spacca. Il fronte del rigore è guidato dalla Germania. Quello della flessibilità ha come leader Usa e Giappone, ma conta anche il Fondo monetario, l’Italia e le economie in via di sviluppo, più esposte alla frenata. Ministri delle Finanze e governatori centrali, riuniti sulle rive dello Yangtze, lavorano per un documento comune, da presentare oggi. I mercati in fibrillazione pretendono un accordo, ma si annuncia una mediazione senza slanci, per affrontare insieme nel breve periodo le emergenze più acute e non far deragliare in partenza il G20 dei leader, sempre in Cina a settembre.
Dai grattacieli di Pudong suona però forte l’allarme. La crescita mondiale 2016 continua a rallentare, dal 3,4% si è scesi al 3,3 e presto si potrebbe atterrare al 3%. La volatilità dei mercati resta estrema, per le Borse è il peggior primo bimestre dell’anno dal 2009. Il rallentamento della crescita cinese, tra il 6 e il 6,5%, trascina giù tutti gli emergenti e le materie prime, con il petrolio crollato a 30 dollari il barile, nonostante il parziale recupero di ieri. Sotto i riflettori c’è Pechino: le sue Borse da luglio hanno perso il 40%, agosto e gennaio sono stati segnati dagli shock della svalutazione dello yuan, il pressing per «migliorare la comunicazione» sottende il sospetto che anche i dati della crescita, minata dalla sovra-capacità, siano truccati. Tocca al governatore della Banca centrale Zhou Xiaochuan rassicurare ospiti che rappresentano oltre l’80 dell’economia globale. «I fondamentali cinesi restano solidi – dice – non ci sono le condizioni per una svalutazione dello yuan che rilanci l’export. La Cina è nella nuova normalità, la velocità della crescita rallenta, ma qualità e sostenibilità migliorano. Le riforme monetarie e finanziarie proseguono, sostenute dai consumi interni ».
Le Borse europee apprezzano la smentita di una corsa globale alla svalutazione competitiva, ma Usa e Ue diffidano: Pechino non esclude un nuovo intervento sui tassi, la fuga di capitali all’estero sembra imporre uno yuan debole per essere fermata. Il messaggio della Cina è che la seconda economia mondiale non è più nelle condizioni di trainare la crescita da sola e chiede «più coordinamento ». Stesso avvertimento dagli Usa, con Jack Lew che avverte come la ripresa americana «non può risolvere i problemi per tutti». Assieme a Parigi, Washington nega «che lo scenario sia da crisi» e dunque frena sulle «risposte da crisi». Ma chiede di usare «gli strumenti, fiscali, monetari e politici per sostenere economia e domanda».
La posizione è condivisa dalla Bce e anche dall’Italia. «La Banca centrale europea – dice il governatore Ignazio Visco anticipando le misure promesse da Draghi per il 10 marzo – vigilerà sull’inflazione e userà tutti gli strumenti a disposizione per mantenere una politica monetaria accomodante, con l’obbiettivo di assicurare la stabilità dei prezzi e contro i rischi al ribasso per l’attività reale». È la risposta ai richiami al rigore del ministro delle Finanze tedesco: «Berlino è contro un nuovo piano di stimoli fiscali del G20 – dice Schaeuble – scorciatoia controproducente che distrae dal vero compito. È l’ora delle riforme strutturali, non quella di una finta crescita fondata sui debiti». A Shanghai lo scontro è su questo: allentamento fiscale e monetario tramite l’indebitamento di Stato, oppure riforme strutturali e finanziamento di grandi infrastrutture, con il sostegno al piano Juncker per la Ue. «Basta trucchi, i governi facciano le riforme», prova a mediare il direttore del Fondo monetario Christine Lagarde. Per poi aggiungere: «Servono azioni multilaterali coraggiose per stimolare la crescita e contenere i rischi macro-economici e politici ».
Londra, ostile ai tassi negativi di Ue e Giappone, preme così affinché nel documento finale entri anche un riferimento contro la Brexit, mentre Pechino lavora per una mediazione accettabile per tutti e rassicurante per le Borse. La Cina vuole oggi una «ricetta G20» per «una crescita globale forte, sostenibile ed equilibrata». Qualcosa cederanno tutti: a Shanghai lo spettro estremo di una «guerra delle valute», visto il quadro pronta a trasformarsi nella «tempesta perfetta», non risparmia nessuno.
Repubblica 27.2.16
Bulgaria
Misteriosa morte di un palestinese: “È il Mossad”
di Fabio Scuto

Misteri bulgari e trame balcaniche scuotono la Muqata, Abu Mazen ordina ai suoi 007 un’inchiesta chiara, efficace e rapida. Una trinità sconosciuta in Medio Oriente.
E’ un giallo internazionale la morte di un palestinese a Sofia, nel cortile dell’ambasciata dell’Anp nella capitale bulgara e rilancia le accuse contro Israele. Perché Omar Nayef Zayed era un uomo in fuga, su cui pendeva una richiesta di estradizione avviata in dicembre da Israele per una condanna all’ergastolo per l’omicidio di un colono nel 1986. Zayed riuscì a fuggire nel 1990. In Bulgaria era arrivato nel 1994, qui aveva trovato moglie ed era padre di tre figli, tutti cittadini bulgari. Una vita nuova, fino alla richiesta di estradizione.
Zayed, militante del Fplp, aveva chiesto aiuto all’ambasciata dove si era rifugiato da metà dicembre. Non riusciva a farsi una ragione di quel mandato di arresto. Nel 1986 venne condannato anche suo fratello Hamza con un altro miliziano. Il fratello venne scarcerato da Israele nell’ambito di uno scambio di prigionieri nel 2011. E allora perché perseguire solo lui 30 anni dopo?
Zayed è stato trovato morente nel cortile della sede diplomatica palestinese, che non era sorvegliata dalla polizia bulgara e non dispone di telecamere di sorveglianza. Dai primi riscontri potrebbe essere caduto o stato spinto da un piano alto dello stabile. «E’ un martire», dice l’ambasciatore palestinese a Sofia, «crediamo che coloro che lo stavano perseguitando possano aver agito contro di lui».
E il Mossad per gli arabi è in grado di fare tutto, o quasi.
Repubblica 27.2.16
Can Dundar.
“La mia prigionia ha fatto conoscere al mondo la Turchia della censura”
Il direttore del giornale Cumhuriyet in carcere dopo lo scoop sui traffici di armi verso l’Is protetti dai servizi di Ankara parla dopo il rilascio
di Marco Ansaldo

«QUALE sarà il titolo della nostra prima pagina? Naturalmente “Grazie, signor Presidente”. Grazie per l’aiuto che ci ha dato mettendoci in prigione e portando il caso del passaggio segreto di armi dalla Turchia alla Siria sotto gli occhi dell’opinione pubblica mondiale».

Ride ora Can Dundar, il direttore del quotidiano Cumhuriyet, libero dopo 92 giorni in cella passati assieme al capo della redazione di Ankara, Erdem Gul. E l’ironia del titolo sul suo giornale brucia tremendamente a Tayyip Erdogan, che si è visto sorpassare da una decisione della Corte Costituzionale: la detenzione dei due giornalisti vìola i «diritti individuali, la libertà di espressione e di stampa». La Presidenza della Repubblica schiuma rabbia, se si leggono le parole del portavoce Ibrahim Kalin: «Questa decisione non è un’assoluzione. Il caso resta aperto. La presidenza turca lo segue da vicino. Quando i Paesi occidentali prendono misure in casi simili, vengono definite come parte della lotta al terrorismo. Distorsioni dello stesso tipo non possono essere accettate in Turchia», ha concluso Kalin paragonando la vicenda a WikiLeaks e riferendosi ai casi fatti emergere da Julian Assange e Edward Snowden.
Adesso Can Dundar è tornato al suo giornale, portato in trionfo da tutta la redazione su un pullman che alle due dell’altra notte l’ha prelevato dal carcere alla periferia di Istanbul.
«Grazie. Grazie a voi di Repubblica che avete pubblicato il mio articolo dalla prigione e il nostro appello alla libertà di stampa in Turchia».
L’avrebbe fatto ogni giornalista. Come ha saputo la notizia del vostro rilascio?
«Ci siamo trovati fuori. E ieri era il deserto, oggi il paradiso. Per me è cambiato il mondo. Ogni cosa ora ha un colore. E la libertà è come l’acqua quando hai sete».
Come ha speso questo periodo dentro?
«Scrivendo. Articoli per la stampa internazionale e un libro sui miei giorni nella prigione di Silivri. Poi ho letto molto».
Che cosa?
«Tutto quello che avevo saltato prima (ride ancora, ndr): il Don Chisciotte di Cervantes, libri di autori che hanno fatto la galera, scrittori turchi».
La reazione della Presidenza della Repubblica non è stata esattamente positiva. Si parla di contrasti interni nel partito al potere, fra Erdogan e il suo predecessore Abdullah Gul. A lei che pare?
«Forse è andata così. E comunque è Erdogan ad averci messo dentro. Poi oggi è il suo compleanno. Siamo felici di festeggiarlo con questa decisione, con un regalo per lui. Il suo portavoce ci ha paragonato ad Assange, però non è corretto: il fondatore di WikiLeaks non è un giornalista. Noi invece abbiamo l’obbligo di fare il nostro mestiere ».
Dunque ripubblicherebbe lo scoop che ha rivelato il traffico di armi dalla Turchia alla Siria su camion protetti dai servizi segreti turchi, e che vi è costato il carcere?
«Abbiamo seguito molto quella storia, ma ci siamo dovuti fermare. Quel servizio ha mostrato il coinvolgimento del nostro Paese nella guerra in Siria. Ora sappiamo quanto questa trama sia importante».
Come vede la situazione della stampa da voi?
«Per la maggior parte non è libera. Ha grosse difficoltà di carattere politico ed economico. Dunque, per me, provare la solidarietà dei media collocati all’opposizione è stato confortante. E l’appoggio della stampa mondiale è stato sorprendente, questo il governo turco non lo ha potuto arginare. Così Erdogan ci ha fatto diventare degli eroi. Davvero grazie, signor Presidente».
Repubblica 27.2.16
Se Orbán convoca il referendum
di Massimo Riva

L’UNIONE europea morirà di democrazia diretta? In attesa di vedere che cosa succederà con la chiamata alle urne degli elettori britannici, ecco che ora un nuovo referendum viene annunciato dal primo ministro ungherese. Quel Viktor Orbán che da tempo sta facendo il possibile e l’impossibile per far rinverdire nel suo Paese la nefasta stagione nazional- populista del famigerato ammiraglio Horthy. Non pago di aver fatto pesanti interventi restrittivi in tema di libertà di stampa e di informazione — per altro pavidamente tollerati dagli altri soci dell’Unione — ora l’infaticabile Orbán dice di voler ricorrere al principe degli strumenti della democrazia sul terreno più fertile per la demagogia: l’accoglimento dei migranti extraeuropei.
«È d’accordo sul fatto che, senza l’autorizzazione del Parlamento nazionale, l’Unione europea possa obbligare l’Ungheria ad accogliere ricollocamenti di cittadini stranieri sul suo territorio?». Questa la domanda che verrebbe rivolta agli elettori. Gli svizzeri, maestri in materia, dicono che il vero potere nei referendum sta dalla parte di chi pone l’interrogativo. Il caso ungherese ne è la conferma: con un quesito così formulato, non si possono avere dubbi sull’esito della consultazione.
A questo punto il problema si sposta da Budapest a Bruxelles. Che intendono fare le pregiate istituzioni comunitarie? Si spera che la scelta non sia quella di aprire una trattativa come s’è fatto con l’inglese Cameron: perseverare sarebbe diabolico. Qualcuno, piuttosto, dovrebbe approfittare dell’occasione per ricordare all’Ungheria che quello dell’Unione non è un bancomat dove si esercita soltanto un comodo diritto di prelievo. Gli oltre cinque miliardi e mezzo di euro che Budapest riceve da Bruxelles sono un aiuto generoso ma anche un vincolo ad accettare le regole comuni. Quando il nostro premier ha richiamato questo elementare principio, Viktor Orbán ha parlato di «ricatto politico». Come definire allora il suo referendum: un’estorsione?
Repubblica 27.2.16
L’emergenza migranti e il “deficit” democratico in Europa
Con la libera circolazione globale dei beni si scavano divari sempre più profondi nella sfera sociale
di Slavoj Zizek

TRA le domande poste di recente dai lettori della Süddeutsche Zeitung sulla crisi dei profughi, quella che ha suscitato maggiore interesse in Germania concerneva la democrazia, ma con accenti populisti di destra: di quale legittimazione godeva Angela Merkel quando ha invitato pubblicamente centinaia di migliaia di profughi a entrare in Germania? Che diritto aveva di apportare un cambiamento così radicale alla realtà tedesca in assenza di una consultazione democratica? Non intendo con questo ovviamente sostenere i populisti contrari all’immigrazione, ma indicare chiaramente i limiti della legittimazione democratica. Lo stesso vale per i fautori di una radicale apertura dei confini: si rendono conto che avanzare un’istanza del genere equivale a revocare la democrazia, a permettere che il Paese sia oggetto di un colossale cambiamento senza previa consultazione democratica della popolazione?
E forse non vale lo stesso per la richiesta di trasparenza delle decisioni Ue? Dato che in molti Paesi la maggioranza dell’opinione pubblica era contraria alla riduzione del debito greco, rendere pubblici i negoziati avrebbe portato i rappresentanti di quei Paesi a richiedere misure ancor più rigide nei confronti della Grecia. Ci troviamo di fronte a un annoso problema: che ne è della democrazia quando la maggioranza tende a votare leggi razziste e sessiste? Non temo di trarne la conclusione che la politica tesa all’emancipazione non debba essere subordinata a procedure di legittimazione formali-democratiche. Spesso la gente non sa cosa vuole, oppure sbaglia scelta. Non esistono scorciatoie in questo caso e non è difficile immaginare un’Europa democratizzata in cui la maggioranza dei governi è formata da partiti populisti anti-immigrati.
Chi a sinistra critica l’Ue si trova in situazione di grave imbarazzo: da un lato condannano il “deficit democratico” dell’Unione e propongono progetti per dare maggior trasparenza alle decisioni di Bruxelles, dall’altro appoggiano gli amministratori “non democratici” europei quando esercitano pressioni contro le nuove tendenze “fasciste” (democraticamente legittimate). Il contesto in cui ha luogo questo impasse è lo spauracchio della sinistra europea progressista: il rischio di un nuovo fascismo incarnato dal populismo di destra anti immigrati. Si dipinge l’Europa come un continente in regressione verso un nuovo fascismo che si nutre dell’odio e del timore paranoico del nemico etnico-religioso esterno (in genere i musulmani).
Ma si tratta di vero fascismo? Spesso si ricorre al termine “fascismo” per sottrarsi all’analisi approfondita della realtà. Il politico olandese Pim Fortuyn, ucciso all’inizio del maggio 2002, due settimane prima delle elezioni in cui i sondaggi gli attribuivano un quinto dei voti, fu una figura paradossale e sintomatica, un populista di destra che per le sue caratteristiche personali e addirittura, (in gran parte) per le opinioni manifestate, rientrava quasi alla perfezione nella categoria del “politicamente corretto”: era gay, era in buoni rapporti con molti immigrati, possedeva un innato senso ironico – in breve era un buon liberale, tollerante sotto qualsiasi aspetto, ma non nel suo fondamentale programma politico. Si opponeva infatti agli immigrati fondamentalisti per l’odio che esprimevano nei confronti degli omosessuali, il disprezzo che manifestavano per i diritti delle donne, ecc. Fortuyn incarnava il punto di incontro tra il populismo di destra e il politicamente corretto progressista.
Inoltre, molti liberali di sinistra (come Habermas) che lamentano l’attuale declino dell’Ue sembrano idealizzarne il passato: l’Unione “democratica” di cui piangono la scomparsa non è mai esistita. La politica recente dell’Ue si limita al disperato tentativo di adattare l’Europa al nuovo capitalismo globale. La consueta critica mossa all’Ue dai liberali di sinistra – va tutto bene a parte il “deficit democratico” – tradisce la stessa ingenuità dei critici dei Paesi ex comunisti, che di base li sostenevano, lamentando soltanto l’assenza di democrazia: in entrambi i casi il “deficit democratico” faceva necessariamente parte della struttura globale.
Ovviamente, l’unica azione per contrastare il “deficit democratico” del capitalismo globale avrebbe dovuto avvenire per il tramite di un’entità trans-nazionale – non fu forse Kant a individuare, più di duecento anni fa, la necessità di un ordine giuridico trans-nazionale, fondato sull’ascesa della società globale? «Ora dal momento che grazie alla comunanza (più o meno stretta) tra i popoli della Terra estesasi ormai dappertutto si è giunti ad un punto tale che la violazione di un diritto perpetrata in un luogo della Terra è sentita in tutte le parti, ecco che l’idea di un diritto cosmopolitico non è più un modo fantastico, esagerato, di rappresentarsi il diritto». Questo tuttavia ci conduce alla “principale contraddizione” del Nuovo Ordine Mondiale, ossia l’impossibilità strutturale di individuare un ordine politico globale che sia conforme all’economia capitalista globale. E se per ragioni strutturali non potesse esistere una democrazia mondiale o un governo mondiale rappresentativo? Il problema strutturale (antinomia) del capitalismo globale consta nell’impossibilità (e al contempo, nella necessità) dell’esistenza di un ordine socio-politico ad esso conforme: l’economia di mercato globale non può essere organizzata direttamente come democrazia liberale globale con tanto di elezioni in tutto il mondo. In politica torna il “represso” dell’economia globale: ossessioni arcaiche, identità particolari sostanziali (etniche, religiose, culturali). Questa tensione definisce l’attuale paradosso: con la libera circolazione globale dei beni si scavano divari sempre più profondi nella sfera sociale. Mentre i beni circolano sempre più liberamente, nuovi muri sorgono a separare le persone.
Slavoj Zizek è uno scrittore e filosofo sloveno Traduzione di Emilia Benghi
Repubblica 27.2.16
Il piano della Commissione per aggirare il no dell’Est
“Ripartizione obbligatoria”
Ma Bruxelles valuta anche il piano B: limitarsi a prevedere deroghe valutate caso per caso
di Alberto D’argenio

ROMA. Sarà l’8 marzo, festa della donna, il giorno decisivo per l’Europa. Tra due martedì la Commissione europea di Jean-Claude Juncker presenterà il nuovo, ultimo, piano per cercare di risolvere la crisi dei migranti. Un estremo tentativo di salvare Schengen e di evitare la disintegrazione politica dell’Unione. E nel farlo, questo l’accordo di ferro raggiunto ieri a Palazzo Chigi tra Renzi e Juncker, Bruxelles potrà contare sull’appoggio italiano.
La situazione sul terreno ormai è disperata tra muri, quote di ingresso e governi spaccati. In pochi giorni l’Europa si gioca le speranze di trovare una soluzione. Il 7 marzo a Bruxelles il vertice tra i capi di Stato e di governo dell’Unione e il premier turco Ahmet Davutoglu. Ankara ha ricevuto 3 miliardi dall’Ue per ospitare i due milioni di siriani sul suo territorio e chiudere la rotta dell’Egeo che li porta in Grecia e da lì nel resto del continente. Ma finora i flussi non si sono arrestati. Dunque gli europei presseranno Davutoglu perché tenga fede agli impegni sponsorizzati direttamente da Angela Merkel, che sui migranti si gioca la carriera.
Ma il giorno successivo sarà quello del tentativo di rimettere insieme i cocci di un’Europa spaccata, con i governi dell’Est che hanno bloccato ogni soluzione comunitaria alla crisi portando capitali ospitali, come Vienna, a chiudersi e peggiorare la situazione. Nel chiuso di Palazzo Chigi Juncker ha annunciato a Renzi che l’8 marzo la Commissione approverà una nuova Comunicazione sui migranti. L’obiettivo è quello di abolire le regole di Dublino che impongono al Paese di primo ingresso (Grecia e Italia) l’obbligo di processare le richieste di asilo, ospitare chi ha diritto allo status di rifugiato e rimpatriare gli altri. Il tema più controverso tra i governi, osteggiato da Polonia, Ungheria, Slovacchia e baltici che hanno affondato la ripartizione d’emergenza di 160mila migranti approvata a ottobre. Ora Juncker punta ad andare oltre, a rendere obbligatorie ed efficaci le riallocazioni. Superare il principio di Dublino, redistribuzione automatica tra i 28 appena i rifugiati entrano in Europa. Il secondo Paese ne processa le domande di asilo e poi procede ai rimpatri o smista i rifugiati sul suo territorio o su quello di un terzo Paese secondo regole ferree. Ma il clima politico in Europa è pessimo. Ragion per cui in queste ore a Bruxelles si pensa di inserire nella Comunicazione anche un’altra opzione, decisamente meno ambiziosa, per europeizzare la crisi: il principio del Paese di prima accoglienza resta valido, ma può essere derogato caso per caso. Il che significherebbe andare a sbattere ogni volta contro i paesi dell’Est. Le opzioni sarebbero poi testate al vertice dei leader del 18 marzo. Quindi, a seconda dell’esito politico del summit, ad aprile una delle due soluzioni sarà adotata come vera e propria proposta legislativa dalla Commissione e presentata ai governi, che la dovranno approvare. Ieri Renzi ha garantito a Juncker l’appoggio italiano e lo ha spinto a scegliere la via più ambiziosa. Con lui ci sarà anche la Merkel.
La partita è aperta, il premier ha anche chiesto garanzie sul fatto che se a maggio Schengen verrà sospesa per due anni Bruxelles vigili affinché non ci siano abusi nella chiusura delle frontiere da parte degli altri paesi (l’Italia teme di rimanere isolata come la Grecia). Juncker non solo ha dato garanzie, ma ha anche annunciato che nei prossimi giorni lancerà una dura iniziativa politica contro chi prende decisioni unilaterali, respinge i migranti, chiude le frontiere e lavora a una mini-Schengen. Ha anche assicurato che in caso di ripristino dei controlli alle frontiere interne per due anni avrà un piano per evitare che Schengen venga spazzata per sempre.
E intanto Bruxelles lavora a un piano di aiuti umanitario per la Grecia da lanciare, se necessario, già nei prossimi giorni: la Commissione finanzierà il governo Tsipras, l’Unhcr e le Ong per aumentare le strutture di accoglienza, per pagare gli alberghi che ospitano i migranti e per garantire loro vestiti e medicinali. La prima volta dalla seconda guerra mondiale che un paese europeo riceve aiuti umanitari.