sabato 28 aprile 2018

Repubblica 28.4.18
Werner Herzog “ Odio i fatti, amo i sogni e so che la vita è bella perché non è eterna”
Intervista di Jan Küveler


Allungare l’esistenza, come sperano i guru delle tecnologie?
Dovremmo sorbirci le stesse porcate per 400 anni
Internet è tutta fake news e porno, non possiamo cambiarla
Invece dovremmo batterci contro gli oceani di plastica

Un cineasta dev’essere come un ladro nella notte: lo ha detto Werner Herzog nel corso della nostra conversazione a Hong Kong, dove abbiamo parlato del cannibalismo su Internet, della vita eterna e dei suoi colloqui con Gorbaciov.
Lei sembra avere il dono magico di piegare la realtà alla sua drammaturgia. Un concetto di origini hegeliane: a chi gli chiedeva conto di alcune discrepanze tra sue teorie e realtà dei fatti, Hegel avrebbe risposto: “Tanto peggio per i fatti”.
«Ovviamente è solo una battuta, anche nelle intenzioni dell’autore.
Ma c’è una cosa che sarebbe bene non perdere mai di vista: non dobbiamo lasciarci condizionare solo dai fatti. Perché l’essere umano funziona al meglio sotto l’effetto di visioni, sogni, paure e così via».
Dall’esterno, lei dà un’impressione di straordinaria calma. Un po’ come un bruciatore a gas, che deve avere una certa stabilità per contenere le reazioni violente al suo interno. Un Werner Herzog calmissimo affinché un Klaus Kinski possa esplodere…
«Non sono in grado di descrivere me stesso. Ma ho notato spesso che altri mi vedono in modo contraddittorio, dato che alcuni dei miei personaggi sono anarchici, caotici, isterici, sull’orlo della follia; perciò si pensa che dovrebbe esserlo anche il regista, mentre io tendo alla calma, ai toni sommessi».
Una volta lei disse che l’uomo si riconosce soprattutto nelle situazioni estreme. È per questo che i suoi personaggi sono in genere sopra le righe?
«Certo, se si è interessati a ciò che ci fa essere come siamo, alla nostra condizione umana, non c‘è molto da scoprire su un personaggio ripreso mentre prepara i panni da mettere in lavatrice. Il cinema non può crescere su questo terreno».
Ma prenda ad esempio un autore come Marcel Proust: probabilmente sarebbe stato capace di dedicare anche cinque o sei pagine a una lavatrice.
«Può darsi, ma sempre attraverso la trasformazione operata dalla memoria. Per nostra fortuna i ricordi hanno vita propria, si configurano in maniera nuova e diversa; e in tal modo rendono sopportabile quella che è stata la nostra esistenza passata. Perché di fatto la natura è ben disposta nei nostri confronti, e tramuta i nostri ricordi indipendentemente da noi».
Ha appena detto che la natura è ben disposta verso di noi. Ma spesso lei non è tanto ottimista.
Nel suo film “Into the Inferno” ha detto la natura non ha interesse...
«...Per rettili deficienti ed esseri umani banali».
Pensa di potersi interessare a una grande realtà politica come questa della Cina per farne un film?
«Le idee e le analisi, comprese quelle politiche, funzionano in modo diverso dal cinema. Le idee sono idee, le storie sono storie. Un anno fa ho tenuto un workshop a Cuba. Ho proposto di immaginare un film nell’ambito di un contesto preciso. È intervenuto un giovane che veniva, credo, dall’Argentina.
Sembrava che avesse un progetto molto chiaro; parlava di una grande idea, del conflitto tra capitalismo e socialismo a Cuba. Gli ho detto: “Tutte queste sono idee. Puoi dirmi come vedi la prima scena del tuo film?”. È rimasto senza parole. In altri termini: le idee funzionano in modo diverso. La mia domanda — what’s your first shot?, com’è la tua prima inquadratura? — era una provocazione. Lo sviluppo della Cina, il ruolo che potrebbe avere Hong Kong… sono idee, concetti politici, non hanno nulla a che vedere col cinema».
Ma il suo film sulla nascita di Internet, “Lo and Behold”, visibile su Netflix, non è un tentativo in questo senso — quello di esporre una grande idea coi mezzi del cinema? Gli scrittori si dannano l’anima per dare espressione a temi come Internet o la crisi finanziaria.
«Sciocchezze. Sono tentativi destinati a fallire. Internet funziona secondo la propria natura: attraverso Instagram, i tweet e i pornofilm gratuiti da scaricare. Col sensazionalismo e le bufale più folli, che vengono a galla in brevissimo tempo. Un americano ha usato Internet per accusare i Clinton — sia Hillary che Bill — di far parte di una setta di pedofili dediti ai sacrifici rituali di bambini e al cannibalismo.
Nel giro di un’ora ha totalizzato due milioni di clic. È così che funziona».
Anche un film di Werner Herzog pubblicato su Netflix arriva presto a due milioni di clic.
«Sono cento milioni, non due. Cifre di un ordine al quale non siamo abituati — soprattutto nel cinema.
Di fatto, Internet sviluppa meccanismi e provoca stati d’eccitazione che ancora dobbiamo imparare a conoscere. Ma l’idea di fare di Internet il tema di un grande romanzo non ha senso, è destinata a fallire».
Crede che il mondo sarebbe migliore senza Internet?
«No. Allo stato attuale delle cose la nostra civiltà non può più farne a meno. Non sarebbe più possibile prenotare un posto in aereo in qualsiasi parte del mondo…».
In un docufilm del 1980 dal titolo “Werner Herzog isst seinen Schuh” (Werner Herzog mangia la sua scarpa) lei ha osservato che la nostra civiltà soffre della mancanza di immagini adeguate, e che crearle è compito dei cineasti. Cosa ne pensa oggi?
«Nulla di diverso».
E le ha create, queste immagini? Ne è soddisfatto?
«Sì. Certo, molte cose avrei potuto farle meglio. Ma in linea di principio, avevo un compito e non l’ho mai abbandonato».
Tra le sue conoscenze c’è Elon Musk. Se gruppi di scienziati e imprenditori riuscissero e realizzare il sogno della vita artificiale che tanto li appassiona, lei sarebbe interessato all’argomento?
«Credo che lo saremmo tutti.
Sicuramente la fabbricazione di nuovi microbi è nell’ambito del possibile; sarebbe però un po’ più difficile creare un nuovo tipo di dinosauri. Del resto non abbiamo alcun bisogno dei dinosauri: non sapremmo che farcene.»
Pensa che avremmo invece bisogno di prolungare indefinitamente la durata della nostra vita?
«È solo un’illusione. Perché la natura è un sistema dinamico, basato sul fatto che la durata della nostra vita è limitata — per nostra fortuna! Riesce a immaginare di continuare a vivere in mezzo alle stesse porcate per 400 anni?
Insopportabile! Per fortuna, un giorno moriremo».
Lei si è occupato tra l’altro del mito del vampiro. Sarà forse un incubo, ma è pur sempre un sogno di immortalità.
«Vada a vedere il mio Nosferatu: a differenza del vampiro di Murnau, privo di anima come un insetto, il mio un’anima ce l’ha, e soffre di non poter prendere parte alle vicende umane — ad esempio all’amore. Ma la cosa più terribile è non poter morire».
E i suoi documentari?
«Prendiamo quello su Gorbaciov: ho già girato due volte con lui, in ottobre e in dicembre. Si tratta di conversazioni. Ora Gorbaciov mi ha chiamato di nuovo; in qualche modo mi si è affezionato. È chiaro che questa sarà per lui l’ultima occasione per esprimersi pubblicamente. Gli fa piacere, credo, potersi rivolgere a qualcuno che non è un giornalista ma un poeta. Peraltro ci accomunano varie cose, come la provenienza da una lontana provincia e l’infanzia in campagna».
Nel corso della sua carriera, la sua popolarità non ha mai smesso di crescere, come del resto il pubblico che la segue. Si è chiesto perché sono in tanti e seguire il suo lavoro?
«Le ragioni sono probabilmente diverse. Intanto il fatto che prendo iniziative in piena autonomia, senza aspettare i finanziamenti di Hollywood. Mi rimbocco le maniche e vado. C’è poi il fatto che in un lungo arco di tempo i miei film non hanno mai perso in credibilità. Le altre ragioni potrebbero essere molto semplici, legate al fatto che non mi sento veramente a mio agio nel mondo consumistico. Possiedo un unico paio di scarpe, quelle che indosso. Siamo in troppi su questo pianeta, e troppo spesso prigionieri del consumismo; e per questo andiamo incontro alle catastrofi ecologiche. Gli oceani sono pieni di rifiuti di plastica».
– © Die Welt / LENA, Leading European Newspaper Alliance Traduzione di Elisabetta Horvat
La Stampa TuttoLibri 28.4.18
Ho indossato la vergogna delle donne di conforto
Duecentomila sudcoreane furono costrette a prostituirsi con i soldati giapponesi durante la Seconda guerra mondiale, un romanzo ricostruisce la loro tragedia a lungo nascosta
di Mary Lynn Bracht


Quando ero piccola, mia madre mi raccontava spesso episodi della sua giovinezza nella Corea del Sud. Era talmente brava che mi sembrava di essere lì con lei. Io sono cresciuta in America, dove non c’erano libri o documenti che parlassero di quella parte del mondo; forse da questo è nato dentro di me il desiderio di riempire questo vuoto, di scrivere qualcosa del paese natale di mia madre. Nel 2002 abbiamo fatto un viaggio insieme in Corea: era la prima volta che ci tornavo, dopo esserci stata quand’ero poco più che una neonata, e finalmente vedevo coi miei occhi un Paese che, fino a quel momento, avevo conosciuto solo attraverso le parole di mia madre. Abbiamo trascorso un mese intero viaggiando per tutta la penisola sudcoreana e incontrando parenti e amici d’infanzia di mia madre. Abbiamo fatto trekking sul monte Seorak, visitato monasteri buddisti, vagato per i villaggi di contadini nei pressi. Il giorno più toccante che ricordo è quello in cui ci siamo recate presso la tomba di mia nonna, sulla cima di una collina che veglia il villaggio di mia madre. Quel lungo viaggio mi ha aperto gli occhi, mi ha permesso di iniziare a comprendere davvero la storia della mia famiglia.
Durante le mie ricerche sulla storia della Corea trovai un articolo che parlava delle «donne di conforto», un eufemismo che in giapponese sostituisce il termine «prostitute», e di Kim Hak-Sun, la prima donna a farsi avanti e raccontare la sua storia, nel 1991. Sconvolta, scoprii così che oltre duecentomila donne coreane durante la seconda guerra mondiale erano state costrette a prostituirsi dal governo giapponese, rinchiuse in veri e propri bordelli militari. Era un lato oscuro della storia coreana di cui non avevo mai sentito parlare. Il Giappone aveva conquistato e annesso la Corea già nel 1910, e forte della sua posizione di dominio, trent’anni dopo, l’esercito giapponese conduceva razzie lungo la penisola coreana in cerca di donne e ragazze da trasformare in schiave sessuali per i soldati al fronte. Migliaia di donne morirono di malattia, altre furono trucidate e sepolte in fosse comuni alla fine della guerra. Per quasi cinquant’anni le poche vittime sopravvissute hanno tenuta nascosta la verità, temendo di subire le conseguenze dell’onta su di sè e sulle loro famiglie. Dopo anni e anni di dittatura militare, solo negli anni Novanta il clima sociopolitico della Corea del Sud è cambiato, con l’inizio della democrazia. E con l’emergere con essa di organizzazioni a sostegno dei diritti delle donne, che hanno finalmente dato alle prime «donne di conforto» la possibilità di farsi avanti.
Sono trascorsi più di dieci anni dal mio viaggio in Sud Corea e dal momento in cui ho appreso della loro esistenza, eppure ancora nulla è stato fatto per render loro giustizia di fronte alla Storia. Dopo quasi trent’anni di attivismo da parte delle associazioni delle «donne di conforto» e dei loro sostenitori, l’ostinazione del governo giapponese nel sottrarsi a qualsiasi atto riparatorio o di giustizia mi ha spinta a tornare alla loro lotta, alla loro sofferenza. Mi è quasi impossibile immaginare come ci si debba sentire a essere non soltanto una sopravvissuta all’orrore della schiavitù sessuale per un esercito, ma anche una donna costretta a lottare per decenni in vano per ottenere riconoscimento delle proprie sofferenze. Nel frattempo, una dopo l’altra, le sopravvissute iniziavano a invecchiare e a morire, col rischio di scomparire del tutto dalla Storia.
È stato allora che ho deciso che era proprio la loro vicenda che dovevo rimettere al centro dell’attenzione, prima che anche l’ultima di loro morisse.
Perché a definirci come esseri umani, in fondo, è il modo in cui veniamo ricordati.
Fino ai tempi più recenti, quando pensavamo alle conseguenze della guerra tendevamo a immaginare coraggiosi soldati intenti a combattere per la loro patria. Ricordavamo le loro gesta, e i caduti sul fronte, con monumenti: statue di soldati che imbracciano bandiere in cima a una collina, nobili condottieri o generali a cavallo. I musei di tutto il mondo espongono testimonianze di guerra e memento di battaglie, libri di Storia e romanzi raccontano epiche vittorie, poesie sono dedicate a immortalare la sofferenza e il coraggio dei combattenti, dipinti ne ritraggono l’orrore e la gloria. C’è un aspetto che accomuna tutte queste espressioni d’arte e di ricordo: parlano solo e unicamente dell’esperienza degli uomini.
Eppure, sono le donne sopravvissute alle guerre le vere custodi della cultura del proprio paese. Sono le donne a mantenere in vita storia e tradizioni, sono le donne a tramandare il ricordo di chi è perito in guerra parlandone a figli e nipoti e alla comunità intera. Occorre coraggio, forza e spesso anche la capacità di sopportare il dolore più feroce per sopravvivere a una guerra. Le donne sono sentinelle a guardia della loro storia, e della Storia stessa.
Tutto questo viene troppo spesso trascurato.
Il modo in cui ricordiamo le donne nella Storia è di fondamentale importanza. È in nome di questo che ancora oggi combattono le poche «donne di conforto» rimaste. In tutta la Corea del Sud ne restano soltanto ventinove. Quindici sono scomparse da quando ho completato l’ultima stesura di Figlie del mare, nel 2016. Svanendo, una a una, senza avere ottenuto la giustizia e il riconoscimento che meritano.
Monumenti come la Statua della Pace, eretta a Seul in nome delle centinaia di migliaia di «donne di conforto» che sono morte in quel periodo, ci aiutano a ricordare chi abbiamo perduto così come le poche che sono ancora vive e incessantemente lottano per ottenere il posto che spetta loro nella Storia. Ma perché quella statua fosse eretta, sono occorsi vent’anni di proteste, settimana dopo settimana. E a tutt’oggi, quel monumento è fonte di tensione diplomatica tra la Corea del Sud e il Giappone.
Figlie del mare è un omaggio a queste donne e alla loro storia, fatto nella speranza che parlando, scrivendo e dando ascolto alla loro devastante esperienza e alla loro forza nel lottare per la giustizia e la verità, le giovani generazioni se ne facciano testimoni e non dimentichino, mai.
La Stampa TuttoLibri 28.4.18
Anche i tedeschi diventarono vittime quando l’Armata Rossa sfondò il fronte
Il crollo della Germania nazista visto da un podere della Prussia orientale i profughi incalzati dai russi cercano scampo, ma il caos inghiotte tutti
di Luigi Forte


Nel podere Georgenhof con la casa padronale a due piani, il bel salone con grandi e anneriti ritratti di notabili alle pareti, i trofei di caccia e la sala da biliardo, sembrava che il tempo si fosse fermato. E dire che in quell’inverno del 1945, proprio là fra le cittadine di Mitkau e Elbing nella Prussia orientale, il fronte di guerra non era lontano e i russi potevano arrivare da un giorno all’altro. Mentre il mondo bruciava, qui la vita proseguiva senza grandi scossoni. Se si eccettua l’assenza del padrone di casa, Eberhard von Globig, ufficiale della Wehrmacht in Italia, e la presenza saltuaria di sfollati dall’est come l’invalido signor Schünemann esperto di economia, o la giovane violinista Gisela, in giro per gli ospedali della regione per offrire con la sua musica un po’ di svago ai feriti.
La porta di casa è sempre aperta e Katharina, moglie di Eberhard, chiusa nel suo mondo di fantasie, osserva con curiosità tutta quella gente in fuga. È una trasognata berlinese dagli occhi azzurri e dai folti capelli neri. Divora libri nel suo «rifugio» al primo piano e vaga col pensiero fra mille nostalgie: il marito lontano, che pure una volta ha tradito, la piccola Elfie morta di scarlattina e la giovinezza nella sua favolosa città. Qui lei ora è come sospesa nel tempo. Certo, c’è da pensare al figlio dodicenne Peter, un curioso ragazzo dalla testa affilata che s’aggira per il podere con un microscopio e il binocolo del padre. Ma alla casa bada la matura signora Harnisch, che tutti chiamano zietta e che fa parte - come dice lei - dell’inventario della famiglia. In cucina ci sono due ucraine, Sonja e Vera, e ai lavori più pesanti ci pensa il polacco Wladimir.
Se non fosse per quel fragore lontano, le sirene d’allarme o gli aerei che passano rombando, Georgenhof sarebbe un vero idillio. Ma dietro quel mondo, nel corso di una tremenda guerra scatenata dalla follia nazista, si ammucchiano migliaia di vittime e montagne di colpe.
È su quello sfondo che matura il romanzo del 2006 di Walter Kempowski, Tutto per nulla, pubblicato ora da Sellerio a cura di Mario Rubino. L’autore, nato a Rostock nel 1929 e scomparso nel 2007, non ebbe vita facile: fu arruolato giovanissimo, poi dopo il conflitto passò otto anni in carcere nella ex Rdt per spionaggio filoamericano. Col tempo la sua vecchia vocazione letteraria nata già sui banchi di scuola trovò ampio sbocco in un ciclo di romanzi autobiografici, La cronaca tedesca, mentre più tardi, nel corso degli anni Novanta, nacque una vasta ricostruzione documentaria degli anni di guerra, L’ecoscandaglio, basata su documenti e testimonianze di ogni genere.
Un po’ di quell’atmosfera ritorna anche qui nell’inesorabile fine che attende la piccola comunità attorno alla casa dei Globig proiettata sull’epico sfondo di una caotica evacuazione di massa. Come già Grass con Il passo del gambero, anche Kempowski prova a mettersi dalla parte dei profughi incalzati dalle truppe russe. Ma il dramma è per buona parte del romanzo proiettato a fondo scena, mentre in primo piano c’è un viavai di personaggi spesso gustosi e originali come il dottor Wagner, l’insegnante di Peter, che sogna la sua vecchia Königsberg, o il barone baltico che si porta appresso, oltre alla moglie, un pappagallo nero. E certo non mancano gli arcinazisti come Drygalski, che sogna la vittoria, odia la gentaglia dell’est e nutre sospetti verso la famiglia Globig. Non del tutto infondati, visto che Katharina, su pressione del pastore Brahms, accetta di ospitare per una notte un ebreo berlinese. Si verrà a sapere e la bella signora finirà in carcere per poi scomparire nel turbinio degli eventi, in fuga con tanti altri prigionieri. Si è ormai aperto il baratro in cui poco per volta tutti scompaiono. Perfino l’ufficiale Eberhard suicida nella lontana Italia.
Il talento epico di Kempowski si nutre di distanza, non di enfasi. Come il piccolo Peter rimasto solo per strada dopo la morte di zietta. Non ha lacrime ma occhi che scandagliano una realtà surreale. Vuoto e quasi indifferente davanti alla laguna della Vistola e a quel mare dove riuscirà a imbarcarsi. A lui, l’incolpevole, spetta un nuovo inizio. Per gli altri valgono solo le parole di Lutero preposte al romanzo: «Soltanto la tua grazia e il tuo favore/valgono a rimettere i peccati;/a nulla giova tutto il nostro agire/anche nella migliore delle vite».
Repubblica 28.4.18
Sangue a Gaza, i palestinesi spinti alle cariche


Nel corso della giornata di ieri alcuni dirigenti del gruppo hanno raggiunto migliaia di dimostranti, raccoltisi, come nelle settimane passate, in cinque punti di frizione lungo il confine, e da là hanno esortato al popolazione di Gaza a non desistere dalla lotta elaborata per forzare il blocco e rompere le linee di confine. Da Ramallah un consigliere del presidente Abu Mazen, Muhammad al-Habbash, ha fatto appello agli abitanti di Gaza perché non seguano la politica degli “avventurieri” e “non mandino i figli a morire”. L’alto bilancio di vittime e feriti fa temere che nelle giornate da qui al 15 maggio la tensione possa salire ancora.
Ancora sangue a Gaza: nel quinto venerdì di protesta lungo il reticolato che separa la Striscia da Israele tre palestinesi sono morti e almeno 600 sono rimasti feriti, colpiti dall’esercito israeliano.
Tutti i morti, secondo medici a Gaza, sono stati uccisi da proiettili alla testa.
Inizialmente pacifica, la protesta è degenerata quando - secondo testimoni citati dal New York Times - centinaia di manifestanti si sono lanciati contro la recinzione, incoraggiati da un leader di Hamas che ha detto loro di non temere il martirio. Alcuni di loro avrebbero tentato di appiccare un incendio e come risposta gli israeliani avrebbero lanciato delle granate: cosa che spiegherebbe l’altissimo numero di feriti. Il portavoce militare israeliano Jonathan Conricus ha spiegato che i soldati hanno reagito a «un tentativo di massa da parte di decine di facinorosi di sfondare i reticolati di confine al valico di Karni. Hanno cercato di appiccare il fuoco ma sono stati respinti dei militari».
Quello che è certo è che mai dall’inizio delle proteste i palestinesi erano riusciti ad arrivare tanto vicino ai militari con la Stella di David.
La “Marcia del ritorno” lungo la linea di demarcazione tra Gaza e Israele, è iniziata il 30 marzo: l’idea di una protesta pacifica contro le violazioni dei diritti dei palestinesi residenti nella Striscia e a favore del diritto di ritorno nei territori ora sotto controllo israeliano, è stata di diversi esponenti della società civile della Striscia, ma ha poi coinvolto tutti i gruppi e i movimenti presenti nell’area, compresa Hamas.
Dall’inizio delle proteste, secondo l’Onu, sono morti 44 palestinesi e 5.500 sono rimasti feriti: il calcolo non include le vittime di ieri. Le proteste continueranno ogni venerdì, per culminare nella giornata del 15 maggio, 70esimo anniversario della nascita di Israele.
L’alto numero di vittime ha provocato la reazione dell’Onu e di Amnesty international, che sono tornati separatamente ad accusare i militari israeliani di aver fatto «un uso sproporzionato della forza nei confronti di dimostranti disarmati». Da parte sua il Centro di informazione sull’ intelligence e il terrorismo (Iitc) di Tel Aviv ha pubblicato un’analisi, secondo cui l’80% dei primi 40 palestinesi uccisi sul confine erano «membri attivi o fiancheggiatori di gruppi terroristici».
La protesta sta contribuendo a riaccendere le tensioni interne al campo palestinese: gli organizzatori iniziali sono stati infatti messi da parte dai più organizzati membri di Hamas.
Il Sole 28.4.18
Stabilità asiatica
Pechino, l’ineludibile convitato di pietra
di Rita Fatiguso


La Cina è il convitato di pietra al tavolo del primo ricevimento dei cugini coreani da sessant’anni a questa parte. Non c’è storia tra l’incontro tra Kim e Moon e quello che, contestualmente, si svolgeva in Cina tra il core leader Xi Jinping e il primo ministro indiano Narendra Modi. «Dopo mesi di tensione tra i due vicini - hanno riportato i media statali - Pechino spera che l’incontro apra un nuovo capitolo per i legami bilaterali», ma il capitolo con l’India è storia minore.
Di certo i pensieri di Xi Jinping vagavano da tutt’altra parte, perché nel retrobottega cinese sta succedendo ciò che i suoi predecessori mai e poi mai si sarebbero augurati: una ripresa forte dei rapporti diplomatici tra le due Coree, congelati dall’armistizio degli anni Cinquanta, con la prospettiva concreta di ritrovarsi gli americani praticamente in casa. Difatti, fervono le trattative per organizzare l’atteso incontro in Nord Corea del presidente Donald Trump in casa di Kim Jong-un il che, inevitabilmente, materializzerà l’incubo di Pechino. La Casa Bianca ha fatto già sapere di avere tre-quattro opzioni.
Per neutralizzare l’incubo, il ministero degli Esteri cinese, laconico, ha fatto sapere attraverso il portavoce Lu Kang che «la Cina ha accolto con favore la dichiarazione congiunta della Corea del Nord e della Corea del Sud dopo che i loro leader si sono impegnati a lavorare per la completa denuclearizzazione della penisola coreana e dichiarare la fine ufficiale della guerra coreana del 1950-53. La Cina spera che tutte le parti possano mantenere lo slancio per il dialogo e promuovere congiuntamente il processo di risoluzione politica per la questione della penisola coreana. La Cina è disposta a continuare a svolgere un ruolo proattivo a questo proposito». Fine del comunicato.
Quali siano i veri sentimenti dei cinesi, lo si può solo intuire. Ricevendo il giovane scapestrato Kim Jong-un nella Great Hall of People per una cena protocollare con tanto di rispettive mogli al fianco ma in un clima molto disteso, Xi Jinping ha sapientemente giocato di anticipo. Non è stata, forse, la Cina, una strenua sostenitrice della denuclearizzazione della Provincia coreana?
Ora, però, il gioco si complica. Oltre lo storico incontro di ieri la Cina resta l’elemento cruciale della stabilità della penisola e dintorni, a patto che non ci siano ingerenze di altro tipo.
Non sappiamo nemmeno quanto i due leader coreani abbiano pensato a Xi Jinping, nella foga di stringersi ancora una volta la mano. Di certo l’accelerazione impressa agli eventi spinge il presidente cinese a concentrarsi sul suo vero e unico contraltare: il collega americano Donald Trump.
Consenziente al riavvicinamento delle due Coree, Xi Jinping punta al disimpegno degli Usa sul versante taiwanese, in modo tale da allentare i legami tra la Provincia ribelle e gli Usa, fino a indebolire ogni istanza di separatismo di Taipei.
Se il sangue coreano comincerà a scorrere in un corpo unico, questo deve poter succedere anche con quello cinese. La simmetria è implicita tra le righe del discorso di Xi al 19esimo Congresso. Xi, di conseguenza, non vuole ingerenze nel “suo” mar Cinese meridionale quindi, al netto delle dispute commerciali e delle accuse di ulteriori furti di segreti industriali, come attesta il monitoraggio lanciato ieri da Washington su tutte le joint ventures basate sull’intelligenza artificiale, Pechino si aspetta di poter pattugliare, come ha ripreso a fare, lo Stretto di Taiwan. Indisturbata. Com’è noto, così non è stato, gli americani non sono rimasti a guardare e l’ammiraglio Phil Davidson che prenderà il comando sull’area asiatica al posto di Harry Harris, ha un temperamento forte, proprio di quelli che piacciono a Donald Trump.
Il Sole 28.4.18
L’analisi
Ma il disarmo nucleare resta una grande incognita
di Ugo Tramballi


Chi sostiene che il vertice trans-coreano non ha portato risultati, non conosce la storia. Studiarla non garantisce un posto di lavoro ma aiuta a comprendere il tempo nel quale viviamo. Senza sapere cosa fu la guerra del 1950, un’estensione del secondo conflitto mondiale che avrebbe potuto portare al terzo; senza conoscere le violenze e le minacce alla stabilità asiatica alimentate nei decenni successivi, le immagini venute ieri dal 38° parallelo sembrano più comiche che memorabili.
Invece il piccolo salto verso Sud del nordista Kim Jong-un e quello in direzione Nord del sudista Moon Jae-in, con il seguito di scambio di fiori e posa dell’albero della pace, sono forse la fine positiva di un’era e la conferma che il Secolo Asiatico è iniziato. Mentre Jong-un e Jae-in univano due energie opposte, come lo Yin e lo Yang della filosofia taoista, a Wuhan in Cina Xi Jinping e Narendra Modi s’incontravano per sanare le dispute di frontiera che un anno fa avevano avvicinato un conflitto ancora più devastante. Cina e India: ieri a Wuhan con i due capi di stato c’erano un terzo dell’umanità e un quinto dell’economia planetaria.
Detto questo, per quanto storico, il vertice coreano di ieri non ha portato novità riguardo al nocciolo del problema: la diplomazia a quattro – le due Coree, Stati Uniti e Cina – per denuclearizzare il regime di Pyongyang e l’intera penisola. Ieri le dichiarazioni d’intenti erano piene d’ottimismo ma potrebbero nascondere un equivoco. La Corea del Nord è davvero pronta a rinunciare alla bomba o alla fine, ormai conseguita, offrirà solo il congelamento, la fine del suo programma di sviluppo militare ma non la distruzione del suo arsenale? Nella storia dell’era nucleare non si è mai visto un paese dalla geo-politica complicata, rinunciare allo status di potenza atomica. Lo fece il Sudafrica nel 1990 perché l’Urss non esisteva più e il Paese andava verso la fine dell’apartheid. L’Iran ha accettato di fermare il suo programma perché non aveva ancora la bomba e il raggiungimento di quell’ambizione era ancora lontano.
Con il realismo necessario per il successo di ogni negoziato, in questi mesi a Washington si proponeva di concentrare la trattativa sul programma missilistico della Corea del Nord: impedire che Pyongyang sviluppasse il vettore e la tecnologia necessaria per lanciare la bomba il più lontano possibile e con precisione. Quanto all’atomica, ad ogni latitudine terrestre quando il genio esce dalla lampada è quasi impossibile farlo rientrare. Dopo l’insegnamento dell’Iraq di Saddam Hussein che fu invaso perché non aveva la bomba, la Corea del Nord ha costruito la sua per sopravvivere, non per dominare l’Asia. Se oggi vi rinunciasse del tutto o se solo aprisse le sue frontiere normalizzando le relazioni con il Sud, milioni di nordisti fuggirebbero verso Seul. Il regno di Kim sopravvive se resta il regime chiuso, militarista e illiberale che è.
Gli Stati Uniti, il Giappone e la Corea del Sud si accontenterebbero del risultato di avere eliminato – probabilmente solo rinviato a data da destinarsi – la minaccia che rappresentava Pyongyang? Il Giappone no. Durante la campagna elettorale Donald Trump invitava gli alleati a Tokio e Seul a non contare più sull’ombrello nucleare americano, creando invece un loro arsenale.
Fino ad ora coerente con il suo programma da candidato, paradossalmente il presidente degli Stati Uniti potrebbe essere l’unico ad accontentarsi, fino ad accettare il ritiro delle truppe dalla Corea del Sud, in nome della sua “America first”. Se lo scopo è un successo della sua amministrazione traballante, questo dovrebbe bastare. Dalla Corea alla Siria alla Russia, l’incertezza sulle intenzioni di Trump è la costante delle relazioni internazionali. In ogni caso, fatta salva la legittimità storica di quanto accaduto ieri fra le due Coree, l’accordo finale è ancora lontano.
Repubblica 28.4.18
Quei 65 anni d’attesa
Ora la II Guerra mondiale è finita anche sul 38° parallelo
È stato il grande conflitto dimenticato. Fin dall’origine è stato spesso a un passo dal diventare uno scontro nucleare. Ora si avvia alla conclusione ma resta un non detto tra Cina e Stati Uniti
di Vittorio Zucconi


WASHINGTON Piccolo passo per due uomini in guerra che si tenevano per mano come fidanzatini, grande balzo per l’umanità che chiude l’ultima piaga rimasta aperta dalla Guerra mondiale e poi dalla Guerra fredda, la promessa di pace dei leader delle due mezze Coree è un viaggio lungo 65 anni e un milione di morti. Espressa ogni prudenza possibile, avanzata ogni diffidenza per questo vertiginoso e fulmineo rovesciamento del gioco, basterà ricordare come appena un anno fa si temesse da un’ora all’altra uno scontro nucleare fra Kim Jong-un e Donald Trump e ora si sottoscrivano impegni solenni e pur vaghi di “denuclearizzazione”, mentre lo stesso Trump si congratula e loda colui che aveva minacciato di polverizzare tra «furia e fiamme».
Quel conflitto permanente, quella guerra continua che viveva sospesa tra “fuoco e ghiaccio”, come fu definita, fra possibili cannonate e il gelo paralizzante degli inverni sul 38° parallelo, conosce un disgelo che ricorda altri momenti di grande speranza nella storia degli ultimi 100 anni e soprattutto del Dopoguerra.
Vedendo insieme Kim il Terzo, nipote e figlio di despoti che da tre generazioni bruciano più di un terzo del Pil nordcoreano in armamenti, e Moon Jae in, il presidente democraticamente eletto nel Sud, riportavano alla memoria altri celebri momenti di apparente, abbagliante riconciliazione fra inconciliabili.
Si ripensa, con qualche nostalgia e molta delusione, all’abbraccio di Menachem Begin e Anwar Sadat a Gerusalemme, che costò la vita al presidente egiziano. Alle strette di mano fra Ronald Reagan e Mikhail Gorbachëv, lui dell’“Impero del Male” a Ginevra, o fra Yasser Arafat e Ytzakh Rabin, un altro uomo di pace che pagò con il sangue la sua apertura, e la riconciliazione incruenta fra Nelson Mandela che alzò al cielo la propria mano con quella di Frederik de Klerk, l’ultimo presidente del regime di apartheid Sudafricano che lo aveva incarcerato. Ma chi di noi ha visto e sentito nelle ossa il gelo atmosferico e militare lungo la linea del cessate il fuoco, il 38° parallelo che riportò i combattenti esattamente da dove erano partiti dopo almeno un milione di morti caduti o assiderati resta sbalordito davanti alle carineria, al clima, letteralmente, di rimpatriata in trattoria fra coreani del sud attorno a banchetti a base di polipi alla griglia, verdure sottaceto, frittelle di patate alla maniera di Zurigo, il Rösti, per alludere agli studi del giovane Kim in Svizzera che lui non aveva mai ammesso. O il dolcetto di mango con fogliolina di zucchero per guarnizione con la sagoma della penisola coreana disegnata sopra che ha subito scatenato la collera dei giapponesi perché include alcuni isolotti che Tokyo pretende come suoi.
La Guerra in Corea, che ora sembra sciogliersi in “noodles”, in spaghetti freddi preparati da uno chef di Kim Jong-un arrivato con l’apposita macchinetta per filarli da Pyongyang, è stata, molto più del Vietnam, un mattatoio specialmente crudele, dove sono caduti in tre anni tanti soldati americani quanti ne furono uccisi nei tredici anni di combattimenti in Indocina. Fu, dopo l’inaspettata invasione del Sud oltre la linea di demarcazione tracciata nel 1950, dopo la liberazione dagli occupanti giapponesi da parte del nonno del paffuto giovanotto che ora brinda e tiene per la manina il sudcoreano, la prima e per ora ultima grande campagna militare di massa fra gli Stati Uniti, sotto la bandiera dell’Onu, e una grande nazione comunista, la Cina di Mao Zedong. Fu la prima guerra non vinta nella storia americana e portò, come non sarebbe più accaduto fino alla crisi dei missili sovietici a Cuba, a poche ore dall’impiego di bombe atomiche.
Il generalissimo Douglas MacArthur, che si era imprudentemente spinto all’estremo nord per spazzare via i resti del regime comunista e si era trovato di fronte un milione di soldati cinesi, aveva chiesto di annientarli con l’atomica. Soltanto il rifiuto del presidente Harry Truman e la destituzione su due piedi del generalissimo evitarono una seconda Hiroshima, alla quale i cinesi, e i loro alleati sovietici del tempo, avrebbero risposto con eguale rappresaglia. Per questo, per il terrore sfiorato, per l’insensatezza di un massacro che lasciò le cose come stavano prima della guerra e fu magistralmente ridicolizzato da Robert Altman nel suo film MASH, il conflitto coreano è stato “la guerra dimenticata”, quella che gli americani hanno per decenni preferito ignorare, senza averla capita e dunque mettendo le premesse per la catastrofe vietnamita. Ora Donald Trump si vanta della apparente riappacificazione, del disgelo prodotto dalle sue raffiche di tweet da vero duro, anche se appare più ragionevole pensare che siano stati i burattinai cinesi a tirare i fili e imporre a Kim, ormai più imbarazzante che utile, di sciogliersi e di scoprire le delizie dell’ospitalità e della cucina sudcoreana. Se la piaga finalmente si rimarginerà sarà una di meno, in un mondo afflitto da altre piaghe purulente, ma chi abbia vinto, 65 anni dopo, la Guerra dimenticata, resta da vedere. Una Corea “denuclearizzata” significa anche l’esclusione di ordigni americani, comporterebbe la fine della Maginot Usa sul 38° parallelo e, in prospettiva, il tramonto del protettorato di Washigton sull’Pacifico occidentale, imperniato sull’irrisolto nodo coreano. Una Corea riunificata, un Nord assorbito nella sfera di prosperità alla maniera cinese, nel segno della “dittatura di sviluppo” pseudo-comunista sarebbe un altro gigantesco e inevitabile passo verso l’egemonia cinese sull’Asia orientale.
Corriere 28.4.18
Kim e Moon: guerra finita
Le parole nuove sul tavolo di Trump (e Xi)
di Guido Santevecchi


È un personaggio teatrale, oltre che brutale, Kim Jong-un. Ma forse non recita e non esagera quando dice di essere venuto a Panmunjom, sul versante sudista della frontiera, per aprire una nuova era di pace. Bisogna guardare bene le immagini arrivate in una straordinaria diretta televisiva dal 38° Parallelo. C’è stato calore nell’incontro tra i due nemici, Kim sembrava sincero quando ha preso per mano Moon Jae-in, invitandolo a mettere piede sul territorio del Nord.
Tenendo le loro mani unite e strette i due uomini dell’Asia hanno riportato alla memoria il tedesco Kohl e il francese Mitterrand che seppellirono un’era di guerre nel cuore dell’Europa. È giusto avere speranza.
E sicuramente bisogna credere all’onestà intellettuale di Moon Jae-in, il presidente sudcoreano che da ragazzo è stato in carcere nella battaglia per i diritti civili e la democrazia a Seul e ora ha messo in gioco il suo futuro politico cercando il dialogo con il regime nemico. Moon non si è rassegnato nemmeno nei momenti della massima minacciosità nordcoreana, a costo di sentirsi accusare da Trump di «appeasement», la bolla di disonore politico che pesa sulla memoria occidentale fin dal 1938 quando con il Patto di Monaco le democrazie europee si piegarono a Hitler.
Ora arriva la Dichiarazione di Panmunjom. I leader dei Paesi separati, assurdamente fermi all’armistizio del 1953, quindi da 65 anni ancora tecnicamente in guerra, hanno promesso di trovare un accordo di pace entro la fine dell’anno e di lavorare verso l’obiettivo comune di «denuclearizzare la Penisola». La pace non c’è ancora e scriverla in pochi mesi non sarà facile, perché sotto il Trattato sarà necessaria anche la firma di Cina e Stati Uniti, avversari sul campo nella guerra 1950-1953 che portò gli americani a considerare l’uso dell’atomica per fermare le masse di «volontari» cinesi. E 65 anni dopo, l’arsenale nucleare nordcoreano è ancora al centro della sfida. Che non è finita ieri.
Il secondo tempo di questa partita si giocherà tra poche settimane, nel vertice tra Kim e Donald Trump, che diversamente da Moon non ha nessun motivo sentimentale per fraternizzare con il Maresciallo. Gli Stati Uniti vorrebbero la denuclearizzazione completa, verificata e irreversibile. Non bisogna dimenticare che ancora a gennaio Kim giurava con un ghigno da Dottor Stranamore di avere «il bottone di lancio sulla scrivania».
Sono passati meno di quattro mesi e Kim è venuto al Sud, primo leader nordcoreano a varcare la linea terribile del 38° Parallelo. Le parole concordate con Moon nel documento del vertice suonano anche ispirate e commoventi, quando i due leader si rivolgono «ai nostri ottanta milioni di coreani», per dire che «la nostra urgente missione storica è di mettere fine allo stato abnorme di cessate-il-fuoco e di stabilire la pace, entro la fine dell’anno».
Ma è l’impegno al ritiro delle armi nucleari dalla Penisola l’obiettivo più importante e difficile da mantenere e potrebbe far saltare tutto il progetto dei due coreani. La parola denuclearizzazione può avere diversi significati, a Seul, Pyongyang e Washington. Kim, nei sette anni da quando è al potere, ha fatto sviluppare missili intercontinentali capaci di colpire le città americane e ha ordinato di costruire ordigni nucleari come polizza di assicurazione contro attacchi al suo regime (e alla sua vita). Ha costretto il suo popolo a vivere sotto sanzioni internazionali sempre più strette per completare il piano di «sopravvivenza». E ora non vuole fare la fine di Gheddafi, che aveva rinunciato alle armi proibite e poi è stato bombardato e ucciso.
Resta ancora un alto grado di incertezza sulla bella Dichiarazione di Panmunjom. Vista dalla Casa Bianca è la cornice di un quadro che bisogna riempire con linee chiare e colori non sfumati e opachi. C’è il sospetto che Kim fosse disperato per la crisi devastante dell’economia nordcoreana e stia solo cercando di prendere tempo, ottenere qualche concessione immediata e dividere gli Stati Uniti dall’alleato sudcoreano. Denuclearizzazione della Penisola, come afferma l’impegno generico di Kim e Moon, può presumere come contropartita la chiusura dell’ombrello protettivo americano su Sud Corea e Giappone, il ritiro dei 28.500 militari del contingente Usa schierato dietro il 38° Parallelo. Potrebbe lasciare la Penisola pacificata nella sfera d’influenza esclusiva della Cina, la potenza emergente. Tutto andrà discusso e chiarito. Però senza ricadere in trattative estenuanti e inconcludenti com’è stato in passato. In questo senso, l’impetuosità di Trump può essere un vantaggio.
E anche se Trump ha cattiva stampa in patria e all’estero (e non senza ragione) bisogna dargli atto che la sua linea della «massima pressione» ha sicuramente aperto la via a questa svolta di Kim. Ed è stato abile quando alternava «fuoco e furia» a sorprendenti elogi per «quel tipo sveglio», non ha mai chiuso la porta a un accordo dell’ultima ora. Ha mostrato cautela e comprensione ieri nella sua prima reazione su Twitter: «La Guerra di Corea finisce, succedono buone cose, solo il tempo dirà».
E la Corea aspetta una pace stabile da troppo tempo, ha sofferto sotto il dominio coloniale giapponese dal 1910 al 1945; è stata divisa tra sovietici e americani «provvisoriamente»; è stata insanguinata dalla guerra d’aggressione ordinata dal nonno di Kim Jong-un nel 1950; dopo l’armistizio del 1953 ha vissuto in un clima di paura, segnato da minacce, attentati, cannonate sui villaggi di frontiera. Ora è giusto che le Due Coree dicano che la guerra è finita.
Il Fatto 28.7.18
La scuola non rende uguali poveri e ricchi
di Marco Morosini


L’Amaca del 20 aprile di Michele Serra ha suscitato un dibattito, purtroppo un po’ confuso, che vorrei semplificare. Lo spunto era un episodio di umiliazione verbale e ostentata a fini spettacolari (video in Internet) di adolescenti verso un professore, in una scuola tecnica. Secondo Serra, tali episodi hanno più probabilità di avvenire nelle scuole frequentate da ceti meno abbienti per reddito, cultura ed educazione. I loro studenti non sono “più cattivi” di per sé, ma vittime delle condizioni socio-economiche che li sfavoriscono nell’acquisizione di cultura e educazione.
Non trovo statistiche per suffragare questa osservazione di Serra. Forse ci sono, ma purtroppo è raro che includano dati sul reddito delle famiglie e sul livello di istruzione dei genitori (spesso un tabù, in Italia). Nella bella inchiesta “Comportamenti violenti nelle scuole” della Onlus Cittadinanza attiva, scolari e professori vedono nel “carattere” la causa principale delle violenze. “Condizioni sociali”, invece, è una delle altre otto cause nominate, ma senza percentuali.
Purtroppo molti commenti sono stati non sulle discriminazioni sociali e sulle loro conseguenze sulla violenza nelle scuole, ma su Serra, o sulla “sinistra” tout court. Processare il messaggero invece che argomentare sul messaggio ha così offuscato quest’ultimo. Il risultato è stato addensare il fumo ideologico che da un ventennio impedisce alla società di riconoscere le differenze di classe sociale e le loro conseguenze sui comportamenti. La “scuola di classe”, è quella che negli anni Sessanta Don Milani e i suoi scolari della scuola di Barbiana denunciavano nella Lettera a una professoressa. Ma parlare di scuola di classe ora è una tabù.
Per aiutare a capire il messaggio di Serra consideriamo uno strumento ideologicamente neutro, una bilancia pesa persone, invece che una (inesistente) bilancia pesa-bullismo. Studi rigorosi rilevano in sempre più Paesi che il peso medio pro capite dei poveri è superiore a quello dei ricchi: l’obesità ai poveri, la fitness ai ricchi. Il cibo-spazzatura (a buon mercato e ipercalorico) prodotto dalle fabbriche dei ricchi deve pur essere smaltito da qualcuno. Per esempio dai poveri. Altrimenti i ricchi non potrebbero esserlo e pagarsi sport e diete per pesare meno e vivere più a lungo dei poveri. C’è una forte correlazione tra povertà, obesità, le relative malattie, e la minor longevità, come indicano gli studi Obesity and poverty paradox in developed countries e Poverty and Obesity in the US .
L’obesità non è trasversale alle classi. E credo che le “obesità mentali” siano altrettanto poco trasversali. Per esempio le “obesità mentali” indotte dal diverso uso dei media: durata, qualità, nocività, potenziale di intossicazione dell’uso di Internet. Di conseguenza, ritengo che non lo sia nemmeno l’influenza di questi sull’educazione e il comportamento delle persone.
Secondo uno studio in Corea, la performance scolastica è associata positivamente a un maggiore uso di Internet per fini scolastici, ma negativamente al suo uso per fini non scolastici. Un altro studio ha un titolo eloquente: The Rich See a Different Internet Than the Poor (I poveri vedono un’Internet diversa da quella dei ricchi).
Se ci fossero misurazioni della durata e della qualità degli accessi a Internet dei figli dei ricchi e dei poveri (di soldi e di cultura) presumo che il numero di ore quotidiane e la buona o cattiva qualità degli accessi on-line e del “gaming” non risulterebbero distribuiti ugualmente tra le classi sociali. Niente di nuovo: da studi passati è nota la correlazione tra la durata della esposizione dei bambini alla Tv e la povertà delle famiglie.
Se è vero che tutti mangiamo e tutti (o molti) accediamo a Internet, non lo facciamo tutti nello stesso modo, nella stessa quantità, con la stessa capacità critica. E queste differenze non sono casuali tra individui, ma riflettono in buona parte (nella media) le differenze di ricchezza materiale e culturale.
Anche per l’Internet-spazzatura” e il “gaming” la fitness culturale è dei ricchi, l’obesità culturale dei poveri. Se ci fosse un censimento degli adolescenti patologicamente obesi e patologicamente Internet-dipendenti, vi aspettereste la stessa percentuale tra i ricchi e tra i poveri?
Questa distribuzione iniqua è solo una delle distribuzioni inique di quasi tutti i beni e i mali in una società di classi capitalista. Per ridurle, ci sono due modi. Primo, parlarne senza tabù. Secondo, rimboccarsi le maniche perché lo Stato crei forti correttivi sociali ed ecologici (all’estero la chiamano “economia eco-sociale di mercato”). Lo mettiamo nel programma del prossimo “contratto di governo”?
il manifesto 28.4.18
La seduzione fatale del narcisismo
Intervista. Parla il filosofo marxista Brian Leiter dell’università di Chicago. Come la «politica dell’identità» nella società americana fa dimenticare le disuguaglianze economiche. «Trump ha vinto perché 100mila operai hanno lasciato i Democratici. La sinistra è ostaggio di aspiranti borghesi in cerca di riconoscimento»
di Roberto Veneziani


Negli ultimi decenni, gli Stati Uniti sono stati caratterizzati da una crescente polarizzazione nella società e da forti oscillazioni elettorali. Da un lato, l’elezione del primo Presidente afro-americano e i movimenti di massa con piattaforme radicali (Occupy Wall Street, Black Lives Matter, e la campagna #metoo); dall’altro lato, l’elezione di Donald Trump e l’ascesa dell’estrema destra. Diverse nazioni sembrano convivere all’interno degli stessi confini, e la distanza tra esse cresce a vista d’occhio.
Due sono le spiegazioni ricorrenti di questa polarizzazione: il ritorno delle classi sociali al centro dell’arena politica (dimostrato dalla vittoria di Trump negli stati deindustrializzati della «Rust Belt») e i limiti della cosiddetta identity politics. La «politica dell’identità» è una strategia di definizione delle posizioni politiche e di costruzione dei blocchi sociali basata su elementi identitari quali etnia, genere, età, religione, orientamento sessuale. Nel tentativo di costruire una coalizione basata sulla politica dell’identità, il Partito democratico – e la sinistra Usa in generale – avrebbe perso di vista i problemi economici, consegnando il tema delle divisioni di classe alla destra.
Il ruolo delle classi sociali e dell’ideologia, e la relazione fra religione, etica e politica, sono al centro della ricerca di Brian Leiter. Filosofo della morale, della politica e del diritto, Leiter è professore ordinario alla Facoltà di giurisprudenza dell’università di Chicago. È anche un intellettuale pubblico e interviene regolarmente nei dibattiti accademici e politici, sui principali mezzi di comunicazione Usa e nella blogosfera. Il suo nuovo libro su Marx sta per essere pubblicato da Routledge.
Come definirebbe la politica dell’identità e quanto è centrale nella sinistra (mainstream e radicale) e nella società statunitense?
La politica dell’identità consiste nella richiesta di vari gruppi storicamente marginalizzati negli Usa – neri, donne, omosessuali – di essere «riconosciuti» e di ottenere rispetto per le proprie identità costruite su etnia/genere/sesso anche all’interno di relazioni di produzione di tipo capitalistico. La politica dell’identità è il narcisismo degli aspiranti borghesi, che desiderano sedersi alla tavola della società capitalista e ottenere la propria quota di riconoscimento nel linguaggio e nella cultura. (Si pensi alle controversie grottesche sul numero di artisti neri che hanno ricevuto l’Oscar.) Nella misura in cui è ostaggio della politica dell’identità, la cosiddetta sinistra negli Usa è impotente contro i veri ostacoli al progresso umano.
L’enfasi posta sulla politica dell’identità ha spesso portato a spostare l’attenzione dalle disuguaglianze economiche alla sfera culturale e linguistica. Quali sono i limiti di questo slittamento da un punto di vista politico? E possono spiegare, almeno in parte, il fenomeno Trump e la sconfitta della sinistra mainstream Usa?
La sinistra statunitense è defunta da decenni, a cominciare dalla caccia ai comunisti negli anni Cinquanta per continuare con la rivoluzione neoliberale e la guerra al movimento sindacale degli anni Ottanta. Trump è il sintomo e non la causa dell’assenza della sinistra negli Usa. Non c’è un’unica causa che spieghi la sua vittoria, ma un fattore determinante è stato la diffusa insicurezza economica delle vittime della globalizzazione – per lo più membri della classe operaia. Trump ha vinto perché circa 100mila operai hanno abbandonato i Democratici in tre stati industriali. Trump ha offerto una «spiegazione» dell’insicurezza economica: i posti di lavoro sono andati a migranti, minoranze, e lavoratori di altri paesi. Aveva ragione su questi ultimi, ma è troppo stupido per capire che nel capitalismo è inevitabile: se la manodopera costa meno in altri paesi, le imprese delocalizzano. Puntando il dito contro migranti e minoranze, ha giocato anche sulla retorica a volte ottusa dei sostenitori della politica dell’identità, ma non è stato un fattore determinante in questa elezione, al confronto con le ampie sacche di razzismo che ancora persistono. Bisogna ricordare che negli Stati uniti sono passate solo due generazioni da quello che era un vero e proprio regime di apartheid.
La politica dell’identità ha svolto un ruolo anche in recenti dibattiti all’interno della sinistra, generando controversie su temi come l’etica nella ricerca e la libertà di opinione. La tendenza è quella di sorvegliare i confini disciplinari e gli argomenti di discussione considerati legittimi…
Se si tiene a mente che la politica dell’identità è il narcisismo degli aspiranti borghesi, questo fenomeno è meno sorprendente. Negli Usa la stragrande maggioranza degli accademici proviene da famiglie benestanti, e, da un punto di vista economico, le loro vite sono molto diverse da quelle della classe lavoratrice; alcuni accademici poi sono membri, o aspiranti tali, delle classi dominanti. Come altri componenti della loro classe sociale fuori dall’accademia – nel mondo degli affari, per esempio, – vogliono la loro quota del capitale culturale, di rispetto e riconoscimento. La tragedia è che in America l’unico posto in cui posizioni di dissenso radicale sono possibili è proprio l’università. I narcisisti della politica dell’identità conducono una guerra sulla lingua e contro le idee che urtano la loro sensibilità nell’accademia. Non si rendono conto che questo semplicemente legittimerà l’esclusione delle idee che non si limitano a urtare le suscettibilità ma minacciano realmente lo status quo e il sistema economico dominante. Come diceva Marcuse, le università devono essere luoghi di «tolleranza indiscriminata» di tutte le idee che sono parte di una scienza (Wissenschaft).
Ma se un appello a concetti normativi, quali uguaglianza, solidarietà e libertà, non può spingere gli oppressi a ribellarsi contro il sistema capitalista, allora cosa può farlo?
Gli ideali politici e morali sono molto importanti per gli esseri umani, ma non c’è alcuna prova che gli scritti teorici (spesso incomprensibili) degli accademici su questi temi facciano alcuna differenza. Marx, che era un ottimo scrittore (a differenza di Habermas), catturò l’immaginazione dei rivoluzionari del XIX secolo perché spiegò loro le cause di fenomeni a loro visibili e indicò una strada da seguire; non dovette convincerli che stavano soffrendo. Nessuno che legga Marx può confonderlo con Habermas. Ma tornando alla sua domanda: cosa può motivare una resistenza al capitalismo? Su questo concordo con Marx: la miseria. E tuttavia Marx sottovalutò i capitalisti in un aspetto cruciale: essi riconobbero presto la necessità di evitare che la ricerca del profitto spingesse troppe persone in miseria, almeno non nei loro paesi (da questo punto di vista, Trump è in piena continuità). Ovviamente, la miseria da sola non basta: la gente deve comprendere le cause reali della propria situazione. Ed è per questo che Marx è importante, mentre Habermas è importante solo per i professori universitari.
Lei ha scritto che una delle cose su cui «Marx ha avuto ragione ben più dei suoi critici è la secolare tendenza nelle società capitaliste all’impoverimento della maggioranza delle persone» e il compromesso socialdemocratico del secondo dopoguerra si rivelerà presto una mera parentesi. Perché, dunque, la sinistra è in piena crisi in quasi tutti i paesi avanzati?
Siamo solo agli inizi, e non dobbiamo ripetere l’errore di Marx di sovrastimare il ritmo dello sviluppo storico. Si ricordi che Marx, come molti utopisti del XIX secolo impressionati dalla rivoluzione industriale, pensava che l’era dell’abbondanza fosse dietro l’angolo. Aveva torto. Siamo più vicini adesso di quanto lo fossimo un secolo fa, ma allo stesso tempo solo ora cominciano a crollare le barriere imposte per limitare le distorsioni dello sviluppo capitalista nei paesi più avanzati. Avevano lo scopo di celare la logica del capitale, e cioè la ricerca costante del profitto attraverso la sostituzione del lavoro vivo con le macchine, con il conseguente impoverimento di chi ha solo il proprio lavoro da vendere. Quando avvocati, dottori, e manager scopriranno che il loro lavoro non è più necessario, vedremo cosa succederà. Internet rende tutto più difficile: la rete è il disastro epistemologico del XXI secolo, perché non filtra né l’ideologia capitalista né il semplice rumore di fondo. Ma Marx è un illuminista, e la trasformazione dell’economia richiede una comprensione delle cause e degli effetti. È possibile nell’era del web? Non lo sappiamo ancora.
Il Fatto 28.4.18
La critica radicale del presente: l’eredità di Marx
di Maurizio Viroli


Non saprei dire quanti altri giovani della mia generazione misero in soffitta Karl Marx dopo aver letto l’articolo Esiste una teoria marxista dello Stato? che Norberto Bobbio pubblicò nel 1975 su Mondoperaio, e ripubblicò nel 1976 nel libro Quale socialismo?, ma sospetto siano stati molti.
La risposta di Bobbio era netta: negli scritti di Marx e di Friedrich Engels, “una vera e propria teoria socialistica dello Stato non esiste”. A nulla valsero le centinaia di pagine scritte dagli intellettuali ‘organici’, come si diceva allora, al Partito comunista per confutare Bobbio e salvare Marx. Se Marx non aveva fornito una teoria dello Stato, come poteva essere guida intellettuale di un partito che aspirava a guidare lo Stato democratico?
Messo da parte Marx, cercammo altri maestri che potessero aiutarci a credere nel socialismo senza essere marxisti. Trovammo per nostra fortuna Carlo Rosselli e il suo Socialismo liberale che proprio Bobbio aveva curato in una bella edizione Einaudi del 1973. La prima pagina di quel libro aveva il valore di una rivelazione o di una conferma di quanto già pensavamo, vale a dire che il limite maggiore della teoria sociale e politica di Marx era la pretesa (rafforzata e popolarizzata dal buon Friedrich Engels) di essere dottrina scientifica : “L’orgoglioso proposito di Marx fu quello di assicurare al socialismo una base scientifica, di trasformare il socialismo in una scienza, anzi nella scienza sociale per definizione […] Doveva avverarsi, non poteva non avverarsi; e si sarebbe avverato non per opera di una immaginaria volontà libera degli uomini, ma di quelle forze trascendenti e dominanti gli uomini e i loro rapporti che sono le forze produttive nel loro incessante svilupparsi e progredire.”
Rosselli capì che il Manifesto del Partito comunista aveva immensa forza d’ispirazione perché era profezia travestita da scienza: “Quale pace, quale certezza dava il suo linguaggio profetico ai primi apostoli perseguitati! “
Ma già agli inizi del Novecento, dopo la disputa sul revisionismo aperta dal libro di Eduard Bernstein, uscito nel 1899 (che Laterza ha pubblicato in traduzione italiana nel 1974 con il titolo I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia), i più intelligenti giudicarono la scienza di Marx del tutto incapace di spiegare la realtà economica e sociale, e non trovarono più né conforto né guida nella profezia ormai irrigidita in stanche formule ripetute meccanicamente. Eppure, molte pagine di Marx, soprattutto del giovane Marx, offrono ancora, se le leggiamo senza i vecchi condizionamenti ideologici, elementi per una teoria dell’emancipazione sociale.
La lettera che Marx spedisce ad Arnold Ruge da Kreuznach, nel settembre del 1843, poi pubblicata nei Deutsch-Französische Jahrbücher del 1844, ad esempio, è un testo che ci insegna i lineamenti di una critica sociale e politica intransigente: “Costruire il futuro – scrive Marx – e trovare una ricetta valida perennemente non è affar nostro, ma è certo più evidente ciò che dobbiamo fare nel presente: la critica radicale di tutto l’esistente”. Critica radicale perché senza riguardi, senza paura né dei suoi risultati né del conflitto coi poteri attuali. E ci insegna che la lotta per la libertà e per la giustizia deve essere in primo luogo lavoro paziente di educazione delle coscienze: “Indi il nostro motto sarà: riforma della coscienza, non con dogmi, bensì con l’analisi della coscienza mistica, oscura a se stessa, in qualunque modo si presenti (religioso o politico)”.
L’emancipazione politica e sociale non era per il giovane Marx risultato di tendenze oggettive della storia, ma conquista di coscienze emancipate che sanno riscoprire il sogno o la profezia di giustizia che l’umanità ha coltivato in varie forme nella sua lunga storia: “così si vedrà che da tempo il mondo sogna una cosa, di cui deve solo aver la coscienza per averla realmente. Si vedrà che non si tratta di tracciare una linea fra passato e futuro, ma di realizzare le idee del passato. Si vedrà infine come l’umanità non inizi un lavoro nuovo, bensì attui consapevolmente il suo antico lavoro”.
Nello stesso fascicolo (l’unico che vide la luce) Marx pubblicò anche un’Introduzione a Per la critica della Filosofia del diritto di Hegel, dove sostiene che il proletariato è la sola classe sociale che emancipando se stessa emancipa l’intera società e che la filosofia può trovare nel proletariato “le sue armi materiali”. La filosofia (ovvero gli intellettuali) è dunque la “testa di questa emancipazione”; “il suo cuore è il proletariato”. Due illusioni nobili, queste del giovane Marx, ma pur sempre illusioni.
Il proletariato, allora come oggi, è una classe oppressa e umiliata, ma resta una classe particolare che nella sua storia ha lottato e sofferto per finalità di emancipazione generale, ma ha anche sostenuto demagoghi autoritari. Attribuire al proletariato il semplice ruolo di cuore e forza materiale dello sforzo di emancipazione e agli intellettuali quello di cervello, significa aprire la strada, come la storia ha abbondantemente dimostrato, a freddi professionisti della rivoluzione e del governo, incapaci di condividere le sofferenze e le speranze degli oppressi e dunque pronti a diventare non compagni di lotta, ma nuovi dominatori.
In questo saggio, nato in un contesto segnato da appassionati dibattiti su religione e emancipazione sociale (ben documentato dalla recente biografia scritta da Gareth Stedman Jones, Karl Marx. Greatness and Illusion, Harvard University Press, 2016) Marx ha consegnato alla storia la sua celebre critica dell’alienazione religiosa: “L’uomo fa la religione, e non la religione l’uomo. […] Essa è la realizzazione fantastica dell’essenza umana, poiché l’essenza umana non possiede una realtà vera. La lotta contro la religione è dunque mediatamente la lotta contro quel mondo, del quale la religione è l’aroma spirituale. La miseria religiosa è insieme l’espressione della miseria reale e la protesta contro la miseria reale. La religione è il sospiro della creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, così come è lo spirito di una condizione senza spirito. Essa è l’oppio del popolo”. Sarebbe facile osservare che la religione, in particolare la religione cristiana, ha sostenuto importanti esperienze di liberazione politica e sociale. Ma dalla critica alla religione, Marx trae due conclusioni di straordinario valore morale e politico: la prima consiste nel principio che “l’uomo è per l’uomo l’essere supremo”; la seconda nell’“imperativo categorico di rovesciare tutti i rapporti nei quali l’uomo è un essere degradato, assoggettato, abbandonato, spregevole”. Un principio e un imperativo da riscoprire in questo nostro tempo che ha completamente perso l’idea stessa, e anche la speranza, dell’emancipazione sociale.
Repubblica 28.4.18
L’inchiesta
Unità, Soru indagato per bancarotta
Il patron di Tiscali avrebbe trasferito soldi senza una valida ragione per truccare i bilanci e garantirsi dei crediti
di Giuseppe Scarpa


Roma Il crack della società che ha pubblicato l’Unità dal 2008 al 2015 arriva in procura. I magistrati romani puntano il dito contro l’allora maggiore azionista, l’eurodeputato dem Renato Soru accusato di bancarotta fraudolenta aggravata.
L’ex governatore della Sardegna e patron di Tiscali avrebbe trasferito azioni di sua proprietà, per un valore che sfiora i 3 milioni di euro, tra due società che in tempi diversi hanno controllato il giornale fondato da Antonio Gramsci, la Nuova iniziativa editoriale ( Nie) e la Nuova società editrice finanziaria ( Nsef). Operazioni definite dagli stessi magistrati, si legge nelle carte della procura, « prive di una valida ragione economica » . Utili solo a creare modifiche ingannevoli dei bilanci. Creando finti aumenti di capitale e futuri crediti in capo allo stesso Soru. Questa la tesi degli inquirenti. L’avviso di conclusione indagini è stato notificato nei giorni scorsi anche ad altre undici persone che in tempi diversi hanno fatto parte del Cda della Nie spa.
Il capo d’imputazione è soprattutto un atto d’accusa nei confronti di Soru. Il pm Stefano Rocco Fava scrive che l’eurodeputato è «l’istigatore, essendo socio di riferimento della Nie spa, della distrazione e dissipazione (…) del patrimonio della società». Il magistrato poi passa ad elencare quelle che considera le operazioni che ne hanno provocato il dissesto: «Non aver ridotto i costi fissi della Nie spa rappresentati prevalentemente dalla pubblicazione dell’Unità (…) continuando a stampare mediamente 65mila copie a fronte della vendita di 18.405 copie».
Ci sono poi tutta una serie di favoritismi, secondo gli investigatori, che la Nie Spa, società dissestata avviata dal settembre del 2014 sulla strada del concordato preventivo, ha operato nei confronti di alcuni creditori. Avrebbe in questo modo pagato debiti solo ad alcune società penalizzandone altre. Per gli inquirenti non è Soru l’artefice di questa manovra. Bensì il presidente e uno dei consiglieri di amministrazione della società che pubblicava l’Unità, Fabrizio Meli e Edoardo Bene. Tra il dicembre del 2009 e il giugno del 2014 la Nuova iniziativa editoriale avrebbe trasferito alcuni milioni di euro che vantava con lo Stato, per via dei finanziamenti sull’editoria, sui conti correnti di due società nonostante versasse in uno stato di crisi e malgrado fosse riuscita ad ottenere dal tribunale il via libera ad un progetto di risanamento spalmato in diversi anni (il concordato preventivo). Un controsenso e con lo scopo – per il pm - di favorire le due società a danno degli altri creditori.
Repubblica 28.4.18
L’inchiesta
Unità, Soru indagato per bancarotta
Il patron di Tiscali avrebbe trasferito soldi senza una valida ragione per truccare i bilanci e garantirsi dei crediti
di Giuseppe Scarpa


Roma Il crack della società che ha pubblicato l’Unità dal 2008 al 2015 arriva in procura. I magistrati romani puntano il dito contro l’allora maggiore azionista, l’eurodeputato dem Renato Soru accusato di bancarotta fraudolenta aggravata.
L’ex governatore della Sardegna e patron di Tiscali avrebbe trasferito azioni di sua proprietà, per un valore che sfiora i 3 milioni di euro, tra due società che in tempi diversi hanno controllato il giornale fondato da Antonio Gramsci, la Nuova iniziativa editoriale ( Nie) e la Nuova società editrice finanziaria ( Nsef). Operazioni definite dagli stessi magistrati, si legge nelle carte della procura, « prive di una valida ragione economica » . Utili solo a creare modifiche ingannevoli dei bilanci. Creando finti aumenti di capitale e futuri crediti in capo allo stesso Soru. Questa la tesi degli inquirenti. L’avviso di conclusione indagini è stato notificato nei giorni scorsi anche ad altre undici persone che in tempi diversi hanno fatto parte del Cda della Nie spa.
Il capo d’imputazione è soprattutto un atto d’accusa nei confronti di Soru. Il pm Stefano Rocco Fava scrive che l’eurodeputato è «l’istigatore, essendo socio di riferimento della Nie spa, della distrazione e dissipazione (…) del patrimonio della società». Il magistrato poi passa ad elencare quelle che considera le operazioni che ne hanno provocato il dissesto: «Non aver ridotto i costi fissi della Nie spa rappresentati prevalentemente dalla pubblicazione dell’Unità (…) continuando a stampare mediamente 65mila copie a fronte della vendita di 18.405 copie».
Ci sono poi tutta una serie di favoritismi, secondo gli investigatori, che la Nie Spa, società dissestata avviata dal settembre del 2014 sulla strada del concordato preventivo, ha operato nei confronti di alcuni creditori. Avrebbe in questo modo pagato debiti solo ad alcune società penalizzandone altre. Per gli inquirenti non è Soru l’artefice di questa manovra. Bensì il presidente e uno dei consiglieri di amministrazione della società che pubblicava l’Unità, Fabrizio Meli e Edoardo Bene. Tra il dicembre del 2009 e il giugno del 2014 la Nuova iniziativa editoriale avrebbe trasferito alcuni milioni di euro che vantava con lo Stato, per via dei finanziamenti sull’editoria, sui conti correnti di due società nonostante versasse in uno stato di crisi e malgrado fosse riuscita ad ottenere dal tribunale il via libera ad un progetto di risanamento spalmato in diversi anni (il concordato preventivo). Un controsenso e con lo scopo – per il pm - di favorire le due società a danno degli altri creditori.

Il Fatto 28.4.18
La critica radicale del presente: l’eredità di Marx
di Maurizio Viroli


Non saprei dire quanti altri giovani della mia generazione misero in soffitta Karl Marx dopo aver letto l’articolo Esiste una teoria marxista dello Stato? che Norberto Bobbio pubblicò nel 1975 su Mondoperaio, e ripubblicò nel 1976 nel libro Quale socialismo?, ma sospetto siano stati molti.
La risposta di Bobbio era netta: negli scritti di Marx e di Friedrich Engels, “una vera e propria teoria socialistica dello Stato non esiste”. A nulla valsero le centinaia di pagine scritte dagli intellettuali ‘organici’, come si diceva allora, al Partito comunista per confutare Bobbio e salvare Marx. Se Marx non aveva fornito una teoria dello Stato, come poteva essere guida intellettuale di un partito che aspirava a guidare lo Stato democratico?
Messo da parte Marx, cercammo altri maestri che potessero aiutarci a credere nel socialismo senza essere marxisti. Trovammo per nostra fortuna Carlo Rosselli e il suo Socialismo liberale che proprio Bobbio aveva curato in una bella edizione Einaudi del 1973. La prima pagina di quel libro aveva il valore di una rivelazione o di una conferma di quanto già pensavamo, vale a dire che il limite maggiore della teoria sociale e politica di Marx era la pretesa (rafforzata e popolarizzata dal buon Friedrich Engels) di essere dottrina scientifica : “L’orgoglioso proposito di Marx fu quello di assicurare al socialismo una base scientifica, di trasformare il socialismo in una scienza, anzi nella scienza sociale per definizione […] Doveva avverarsi, non poteva non avverarsi; e si sarebbe avverato non per opera di una immaginaria volontà libera degli uomini, ma di quelle forze trascendenti e dominanti gli uomini e i loro rapporti che sono le forze produttive nel loro incessante svilupparsi e progredire.”
Rosselli capì che il Manifesto del Partito comunista aveva immensa forza d’ispirazione perché era profezia travestita da scienza: “Quale pace, quale certezza dava il suo linguaggio profetico ai primi apostoli perseguitati! “
Ma già agli inizi del Novecento, dopo la disputa sul revisionismo aperta dal libro di Eduard Bernstein, uscito nel 1899 (che Laterza ha pubblicato in traduzione italiana nel 1974 con il titolo I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia), i più intelligenti giudicarono la scienza di Marx del tutto incapace di spiegare la realtà economica e sociale, e non trovarono più né conforto né guida nella profezia ormai irrigidita in stanche formule ripetute meccanicamente. Eppure, molte pagine di Marx, soprattutto del giovane Marx, offrono ancora, se le leggiamo senza i vecchi condizionamenti ideologici, elementi per una teoria dell’emancipazione sociale.
La lettera che Marx spedisce ad Arnold Ruge da Kreuznach, nel settembre del 1843, poi pubblicata nei Deutsch-Französische Jahrbücher del 1844, ad esempio, è un testo che ci insegna i lineamenti di una critica sociale e politica intransigente: “Costruire il futuro – scrive Marx – e trovare una ricetta valida perennemente non è affar nostro, ma è certo più evidente ciò che dobbiamo fare nel presente: la critica radicale di tutto l’esistente”. Critica radicale perché senza riguardi, senza paura né dei suoi risultati né del conflitto coi poteri attuali. E ci insegna che la lotta per la libertà e per la giustizia deve essere in primo luogo lavoro paziente di educazione delle coscienze: “Indi il nostro motto sarà: riforma della coscienza, non con dogmi, bensì con l’analisi della coscienza mistica, oscura a se stessa, in qualunque modo si presenti (religioso o politico)”.
L’emancipazione politica e sociale non era per il giovane Marx risultato di tendenze oggettive della storia, ma conquista di coscienze emancipate che sanno riscoprire il sogno o la profezia di giustizia che l’umanità ha coltivato in varie forme nella sua lunga storia: “così si vedrà che da tempo il mondo sogna una cosa, di cui deve solo aver la coscienza per averla realmente. Si vedrà che non si tratta di tracciare una linea fra passato e futuro, ma di realizzare le idee del passato. Si vedrà infine come l’umanità non inizi un lavoro nuovo, bensì attui consapevolmente il suo antico lavoro”.
Nello stesso fascicolo (l’unico che vide la luce) Marx pubblicò anche un’Introduzione a Per la critica della Filosofia del diritto di Hegel, dove sostiene che il proletariato è la sola classe sociale che emancipando se stessa emancipa l’intera società e che la filosofia può trovare nel proletariato “le sue armi materiali”. La filosofia (ovvero gli intellettuali) è dunque la “testa di questa emancipazione”; “il suo cuore è il proletariato”. Due illusioni nobili, queste del giovane Marx, ma pur sempre illusioni.
Il proletariato, allora come oggi, è una classe oppressa e umiliata, ma resta una classe particolare che nella sua storia ha lottato e sofferto per finalità di emancipazione generale, ma ha anche sostenuto demagoghi autoritari. Attribuire al proletariato il semplice ruolo di cuore e forza materiale dello sforzo di emancipazione e agli intellettuali quello di cervello, significa aprire la strada, come la storia ha abbondantemente dimostrato, a freddi professionisti della rivoluzione e del governo, incapaci di condividere le sofferenze e le speranze degli oppressi e dunque pronti a diventare non compagni di lotta, ma nuovi dominatori.
In questo saggio, nato in un contesto segnato da appassionati dibattiti su religione e emancipazione sociale (ben documentato dalla recente biografia scritta da Gareth Stedman Jones, Karl Marx. Greatness and Illusion, Harvard University Press, 2016) Marx ha consegnato alla storia la sua celebre critica dell’alienazione religiosa: “L’uomo fa la religione, e non la religione l’uomo. […] Essa è la realizzazione fantastica dell’essenza umana, poiché l’essenza umana non possiede una realtà vera. La lotta contro la religione è dunque mediatamente la lotta contro quel mondo, del quale la religione è l’aroma spirituale. La miseria religiosa è insieme l’espressione della miseria reale e la protesta contro la miseria reale. La religione è il sospiro della creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, così come è lo spirito di una condizione senza spirito. Essa è l’oppio del popolo”. Sarebbe facile osservare che la religione, in particolare la religione cristiana, ha sostenuto importanti esperienze di liberazione politica e sociale. Ma dalla critica alla religione, Marx trae due conclusioni di straordinario valore morale e politico: la prima consiste nel principio che “l’uomo è per l’uomo l’essere supremo”; la seconda nell’“imperativo categorico di rovesciare tutti i rapporti nei quali l’uomo è un essere degradato, assoggettato, abbandonato, spregevole”. Un principio e un imperativo da riscoprire in questo nostro tempo che ha completamente perso l’idea stessa, e anche la speranza, dell’emancipazione sociale.

il manifesto 28.4.18
La seduzione fatale del narcisismo
Intervista. Parla il filosofo marxista Brian Leiter dell’università di Chicago. Come la «politica dell’identità» nella società americana fa dimenticare le disuguaglianze economiche. «Trump ha vinto perché 100mila operai hanno lasciato i Democratici. La sinistra è ostaggio di aspiranti borghesi in cerca di riconoscimento»
di Roberto Veneziani


Negli ultimi decenni, gli Stati Uniti sono stati caratterizzati da una crescente polarizzazione nella società e da forti oscillazioni elettorali. Da un lato, l’elezione del primo Presidente afro-americano e i movimenti di massa con piattaforme radicali (Occupy Wall Street, Black Lives Matter, e la campagna #metoo); dall’altro lato, l’elezione di Donald Trump e l’ascesa dell’estrema destra. Diverse nazioni sembrano convivere all’interno degli stessi confini, e la distanza tra esse cresce a vista d’occhio.
Due sono le spiegazioni ricorrenti di questa polarizzazione: il ritorno delle classi sociali al centro dell’arena politica (dimostrato dalla vittoria di Trump negli stati deindustrializzati della «Rust Belt») e i limiti della cosiddetta identity politics. La «politica dell’identità» è una strategia di definizione delle posizioni politiche e di costruzione dei blocchi sociali basata su elementi identitari quali etnia, genere, età, religione, orientamento sessuale. Nel tentativo di costruire una coalizione basata sulla politica dell’identità, il Partito democratico – e la sinistra Usa in generale – avrebbe perso di vista i problemi economici, consegnando il tema delle divisioni di classe alla destra.
Il ruolo delle classi sociali e dell’ideologia, e la relazione fra religione, etica e politica, sono al centro della ricerca di Brian Leiter. Filosofo della morale, della politica e del diritto, Leiter è professore ordinario alla Facoltà di giurisprudenza dell’università di Chicago. È anche un intellettuale pubblico e interviene regolarmente nei dibattiti accademici e politici, sui principali mezzi di comunicazione Usa e nella blogosfera. Il suo nuovo libro su Marx sta per essere pubblicato da Routledge.
Come definirebbe la politica dell’identità e quanto è centrale nella sinistra (mainstream e radicale) e nella società statunitense?
La politica dell’identità consiste nella richiesta di vari gruppi storicamente marginalizzati negli Usa – neri, donne, omosessuali – di essere «riconosciuti» e di ottenere rispetto per le proprie identità costruite su etnia/genere/sesso anche all’interno di relazioni di produzione di tipo capitalistico. La politica dell’identità è il narcisismo degli aspiranti borghesi, che desiderano sedersi alla tavola della società capitalista e ottenere la propria quota di riconoscimento nel linguaggio e nella cultura. (Si pensi alle controversie grottesche sul numero di artisti neri che hanno ricevuto l’Oscar.) Nella misura in cui è ostaggio della politica dell’identità, la cosiddetta sinistra negli Usa è impotente contro i veri ostacoli al progresso umano.
L’enfasi posta sulla politica dell’identità ha spesso portato a spostare l’attenzione dalle disuguaglianze economiche alla sfera culturale e linguistica. Quali sono i limiti di questo slittamento da un punto di vista politico? E possono spiegare, almeno in parte, il fenomeno Trump e la sconfitta della sinistra mainstream Usa?
La sinistra statunitense è defunta da decenni, a cominciare dalla caccia ai comunisti negli anni Cinquanta per continuare con la rivoluzione neoliberale e la guerra al movimento sindacale degli anni Ottanta. Trump è il sintomo e non la causa dell’assenza della sinistra negli Usa. Non c’è un’unica causa che spieghi la sua vittoria, ma un fattore determinante è stato la diffusa insicurezza economica delle vittime della globalizzazione – per lo più membri della classe operaia. Trump ha vinto perché circa 100mila operai hanno abbandonato i Democratici in tre stati industriali. Trump ha offerto una «spiegazione» dell’insicurezza economica: i posti di lavoro sono andati a migranti, minoranze, e lavoratori di altri paesi. Aveva ragione su questi ultimi, ma è troppo stupido per capire che nel capitalismo è inevitabile: se la manodopera costa meno in altri paesi, le imprese delocalizzano. Puntando il dito contro migranti e minoranze, ha giocato anche sulla retorica a volte ottusa dei sostenitori della politica dell’identità, ma non è stato un fattore determinante in questa elezione, al confronto con le ampie sacche di razzismo che ancora persistono. Bisogna ricordare che negli Stati uniti sono passate solo due generazioni da quello che era un vero e proprio regime di apartheid.
La politica dell’identità ha svolto un ruolo anche in recenti dibattiti all’interno della sinistra, generando controversie su temi come l’etica nella ricerca e la libertà di opinione. La tendenza è quella di sorvegliare i confini disciplinari e gli argomenti di discussione considerati legittimi…
Se si tiene a mente che la politica dell’identità è il narcisismo degli aspiranti borghesi, questo fenomeno è meno sorprendente. Negli Usa la stragrande maggioranza degli accademici proviene da famiglie benestanti, e, da un punto di vista economico, le loro vite sono molto diverse da quelle della classe lavoratrice; alcuni accademici poi sono membri, o aspiranti tali, delle classi dominanti. Come altri componenti della loro classe sociale fuori dall’accademia – nel mondo degli affari, per esempio, – vogliono la loro quota del capitale culturale, di rispetto e riconoscimento. La tragedia è che in America l’unico posto in cui posizioni di dissenso radicale sono possibili è proprio l’università. I narcisisti della politica dell’identità conducono una guerra sulla lingua e contro le idee che urtano la loro sensibilità nell’accademia. Non si rendono conto che questo semplicemente legittimerà l’esclusione delle idee che non si limitano a urtare le suscettibilità ma minacciano realmente lo status quo e il sistema economico dominante. Come diceva Marcuse, le università devono essere luoghi di «tolleranza indiscriminata» di tutte le idee che sono parte di una scienza (Wissenschaft).
Ma se un appello a concetti normativi, quali uguaglianza, solidarietà e libertà, non può spingere gli oppressi a ribellarsi contro il sistema capitalista, allora cosa può farlo?
Gli ideali politici e morali sono molto importanti per gli esseri umani, ma non c’è alcuna prova che gli scritti teorici (spesso incomprensibili) degli accademici su questi temi facciano alcuna differenza. Marx, che era un ottimo scrittore (a differenza di Habermas), catturò l’immaginazione dei rivoluzionari del XIX secolo perché spiegò loro le cause di fenomeni a loro visibili e indicò una strada da seguire; non dovette convincerli che stavano soffrendo. Nessuno che legga Marx può confonderlo con Habermas. Ma tornando alla sua domanda: cosa può motivare una resistenza al capitalismo? Su questo concordo con Marx: la miseria. E tuttavia Marx sottovalutò i capitalisti in un aspetto cruciale: essi riconobbero presto la necessità di evitare che la ricerca del profitto spingesse troppe persone in miseria, almeno non nei loro paesi (da questo punto di vista, Trump è in piena continuità). Ovviamente, la miseria da sola non basta: la gente deve comprendere le cause reali della propria situazione. Ed è per questo che Marx è importante, mentre Habermas è importante solo per i professori universitari.
Lei ha scritto che una delle cose su cui «Marx ha avuto ragione ben più dei suoi critici è la secolare tendenza nelle società capitaliste all’impoverimento della maggioranza delle persone» e il compromesso socialdemocratico del secondo dopoguerra si rivelerà presto una mera parentesi. Perché, dunque, la sinistra è in piena crisi in quasi tutti i paesi avanzati?
Siamo solo agli inizi, e non dobbiamo ripetere l’errore di Marx di sovrastimare il ritmo dello sviluppo storico. Si ricordi che Marx, come molti utopisti del XIX secolo impressionati dalla rivoluzione industriale, pensava che l’era dell’abbondanza fosse dietro l’angolo. Aveva torto. Siamo più vicini adesso di quanto lo fossimo un secolo fa, ma allo stesso tempo solo ora cominciano a crollare le barriere imposte per limitare le distorsioni dello sviluppo capitalista nei paesi più avanzati. Avevano lo scopo di celare la logica del capitale, e cioè la ricerca costante del profitto attraverso la sostituzione del lavoro vivo con le macchine, con il conseguente impoverimento di chi ha solo il proprio lavoro da vendere. Quando avvocati, dottori, e manager scopriranno che il loro lavoro non è più necessario, vedremo cosa succederà. Internet rende tutto più difficile: la rete è il disastro epistemologico del XXI secolo, perché non filtra né l’ideologia capitalista né il semplice rumore di fondo. Ma Marx è un illuminista, e la trasformazione dell’economia richiede una comprensione delle cause e degli effetti. È possibile nell’era del web? Non lo sappiamo ancora.

Il Fatto 28.7.18
La scuola non rende uguali poveri e ricchi
di Marco Morosini


L’Amaca del 20 aprile di Michele Serra ha suscitato un dibattito, purtroppo un po’ confuso, che vorrei semplificare. Lo spunto era un episodio di umiliazione verbale e ostentata a fini spettacolari (video in Internet) di adolescenti verso un professore, in una scuola tecnica. Secondo Serra, tali episodi hanno più probabilità di avvenire nelle scuole frequentate da ceti meno abbienti per reddito, cultura ed educazione. I loro studenti non sono “più cattivi” di per sé, ma vittime delle condizioni socio-economiche che li sfavoriscono nell’acquisizione di cultura e educazione.
Non trovo statistiche per suffragare questa osservazione di Serra. Forse ci sono, ma purtroppo è raro che includano dati sul reddito delle famiglie e sul livello di istruzione dei genitori (spesso un tabù, in Italia). Nella bella inchiesta “Comportamenti violenti nelle scuole” della Onlus Cittadinanza attiva, scolari e professori vedono nel “carattere” la causa principale delle violenze. “Condizioni sociali”, invece, è una delle altre otto cause nominate, ma senza percentuali.
Purtroppo molti commenti sono stati non sulle discriminazioni sociali e sulle loro conseguenze sulla violenza nelle scuole, ma su Serra, o sulla “sinistra” tout court. Processare il messaggero invece che argomentare sul messaggio ha così offuscato quest’ultimo. Il risultato è stato addensare il fumo ideologico che da un ventennio impedisce alla società di riconoscere le differenze di classe sociale e le loro conseguenze sui comportamenti. La “scuola di classe”, è quella che negli anni Sessanta Don Milani e i suoi scolari della scuola di Barbiana denunciavano nella Lettera a una professoressa. Ma parlare di scuola di classe ora è una tabù.
Per aiutare a capire il messaggio di Serra consideriamo uno strumento ideologicamente neutro, una bilancia pesa persone, invece che una (inesistente) bilancia pesa-bullismo. Studi rigorosi rilevano in sempre più Paesi che il peso medio pro capite dei poveri è superiore a quello dei ricchi: l’obesità ai poveri, la fitness ai ricchi. Il cibo-spazzatura (a buon mercato e ipercalorico) prodotto dalle fabbriche dei ricchi deve pur essere smaltito da qualcuno. Per esempio dai poveri. Altrimenti i ricchi non potrebbero esserlo e pagarsi sport e diete per pesare meno e vivere più a lungo dei poveri. C’è una forte correlazione tra povertà, obesità, le relative malattie, e la minor longevità, come indicano gli studi Obesity and poverty paradox in developed countries e Poverty and Obesity in the US .
L’obesità non è trasversale alle classi. E credo che le “obesità mentali” siano altrettanto poco trasversali. Per esempio le “obesità mentali” indotte dal diverso uso dei media: durata, qualità, nocività, potenziale di intossicazione dell’uso di Internet. Di conseguenza, ritengo che non lo sia nemmeno l’influenza di questi sull’educazione e il comportamento delle persone.
Secondo uno studio in Corea, la performance scolastica è associata positivamente a un maggiore uso di Internet per fini scolastici, ma negativamente al suo uso per fini non scolastici. Un altro studio ha un titolo eloquente: The Rich See a Different Internet Than the Poor (I poveri vedono un’Internet diversa da quella dei ricchi).
Se ci fossero misurazioni della durata e della qualità degli accessi a Internet dei figli dei ricchi e dei poveri (di soldi e di cultura) presumo che il numero di ore quotidiane e la buona o cattiva qualità degli accessi on-line e del “gaming” non risulterebbero distribuiti ugualmente tra le classi sociali. Niente di nuovo: da studi passati è nota la correlazione tra la durata della esposizione dei bambini alla Tv e la povertà delle famiglie.
Se è vero che tutti mangiamo e tutti (o molti) accediamo a Internet, non lo facciamo tutti nello stesso modo, nella stessa quantità, con la stessa capacità critica. E queste differenze non sono casuali tra individui, ma riflettono in buona parte (nella media) le differenze di ricchezza materiale e culturale.
Anche per l’Internet-spazzatura” e il “gaming” la fitness culturale è dei ricchi, l’obesità culturale dei poveri. Se ci fosse un censimento degli adolescenti patologicamente obesi e patologicamente Internet-dipendenti, vi aspettereste la stessa percentuale tra i ricchi e tra i poveri?
Questa distribuzione iniqua è solo una delle distribuzioni inique di quasi tutti i beni e i mali in una società di classi capitalista. Per ridurle, ci sono due modi. Primo, parlarne senza tabù. Secondo, rimboccarsi le maniche perché lo Stato crei forti correttivi sociali ed ecologici (all’estero la chiamano “economia eco-sociale di mercato”). Lo mettiamo nel programma del prossimo “contratto di governo”?

Corriere 28.4.18
Kim e Moon: guerra finita
Le parole nuove sul tavolo di Trump (e Xi)
di Guido Santevecchi


È un personaggio teatrale, oltre che brutale, Kim Jong-un. Ma forse non recita e non esagera quando dice di essere venuto a Panmunjom, sul versante sudista della frontiera, per aprire una nuova era di pace. Bisogna guardare bene le immagini arrivate in una straordinaria diretta televisiva dal 38° Parallelo. C’è stato calore nell’incontro tra i due nemici, Kim sembrava sincero quando ha preso per mano Moon Jae-in, invitandolo a mettere piede sul territorio del Nord.
Tenendo le loro mani unite e strette i due uomini dell’Asia hanno riportato alla memoria il tedesco Kohl e il francese Mitterrand che seppellirono un’era di guerre nel cuore dell’Europa. È giusto avere speranza.
E sicuramente bisogna credere all’onestà intellettuale di Moon Jae-in, il presidente sudcoreano che da ragazzo è stato in carcere nella battaglia per i diritti civili e la democrazia a Seul e ora ha messo in gioco il suo futuro politico cercando il dialogo con il regime nemico. Moon non si è rassegnato nemmeno nei momenti della massima minacciosità nordcoreana, a costo di sentirsi accusare da Trump di «appeasement», la bolla di disonore politico che pesa sulla memoria occidentale fin dal 1938 quando con il Patto di Monaco le democrazie europee si piegarono a Hitler.
Ora arriva la Dichiarazione di Panmunjom. I leader dei Paesi separati, assurdamente fermi all’armistizio del 1953, quindi da 65 anni ancora tecnicamente in guerra, hanno promesso di trovare un accordo di pace entro la fine dell’anno e di lavorare verso l’obiettivo comune di «denuclearizzare la Penisola». La pace non c’è ancora e scriverla in pochi mesi non sarà facile, perché sotto il Trattato sarà necessaria anche la firma di Cina e Stati Uniti, avversari sul campo nella guerra 1950-1953 che portò gli americani a considerare l’uso dell’atomica per fermare le masse di «volontari» cinesi. E 65 anni dopo, l’arsenale nucleare nordcoreano è ancora al centro della sfida. Che non è finita ieri.
Il secondo tempo di questa partita si giocherà tra poche settimane, nel vertice tra Kim e Donald Trump, che diversamente da Moon non ha nessun motivo sentimentale per fraternizzare con il Maresciallo. Gli Stati Uniti vorrebbero la denuclearizzazione completa, verificata e irreversibile. Non bisogna dimenticare che ancora a gennaio Kim giurava con un ghigno da Dottor Stranamore di avere «il bottone di lancio sulla scrivania».
Sono passati meno di quattro mesi e Kim è venuto al Sud, primo leader nordcoreano a varcare la linea terribile del 38° Parallelo. Le parole concordate con Moon nel documento del vertice suonano anche ispirate e commoventi, quando i due leader si rivolgono «ai nostri ottanta milioni di coreani», per dire che «la nostra urgente missione storica è di mettere fine allo stato abnorme di cessate-il-fuoco e di stabilire la pace, entro la fine dell’anno».
Ma è l’impegno al ritiro delle armi nucleari dalla Penisola l’obiettivo più importante e difficile da mantenere e potrebbe far saltare tutto il progetto dei due coreani. La parola denuclearizzazione può avere diversi significati, a Seul, Pyongyang e Washington. Kim, nei sette anni da quando è al potere, ha fatto sviluppare missili intercontinentali capaci di colpire le città americane e ha ordinato di costruire ordigni nucleari come polizza di assicurazione contro attacchi al suo regime (e alla sua vita). Ha costretto il suo popolo a vivere sotto sanzioni internazionali sempre più strette per completare il piano di «sopravvivenza». E ora non vuole fare la fine di Gheddafi, che aveva rinunciato alle armi proibite e poi è stato bombardato e ucciso.
Resta ancora un alto grado di incertezza sulla bella Dichiarazione di Panmunjom. Vista dalla Casa Bianca è la cornice di un quadro che bisogna riempire con linee chiare e colori non sfumati e opachi. C’è il sospetto che Kim fosse disperato per la crisi devastante dell’economia nordcoreana e stia solo cercando di prendere tempo, ottenere qualche concessione immediata e dividere gli Stati Uniti dall’alleato sudcoreano. Denuclearizzazione della Penisola, come afferma l’impegno generico di Kim e Moon, può presumere come contropartita la chiusura dell’ombrello protettivo americano su Sud Corea e Giappone, il ritiro dei 28.500 militari del contingente Usa schierato dietro il 38° Parallelo. Potrebbe lasciare la Penisola pacificata nella sfera d’influenza esclusiva della Cina, la potenza emergente. Tutto andrà discusso e chiarito. Però senza ricadere in trattative estenuanti e inconcludenti com’è stato in passato. In questo senso, l’impetuosità di Trump può essere un vantaggio.
E anche se Trump ha cattiva stampa in patria e all’estero (e non senza ragione) bisogna dargli atto che la sua linea della «massima pressione» ha sicuramente aperto la via a questa svolta di Kim. Ed è stato abile quando alternava «fuoco e furia» a sorprendenti elogi per «quel tipo sveglio», non ha mai chiuso la porta a un accordo dell’ultima ora. Ha mostrato cautela e comprensione ieri nella sua prima reazione su Twitter: «La Guerra di Corea finisce, succedono buone cose, solo il tempo dirà».
E la Corea aspetta una pace stabile da troppo tempo, ha sofferto sotto il dominio coloniale giapponese dal 1910 al 1945; è stata divisa tra sovietici e americani «provvisoriamente»; è stata insanguinata dalla guerra d’aggressione ordinata dal nonno di Kim Jong-un nel 1950; dopo l’armistizio del 1953 ha vissuto in un clima di paura, segnato da minacce, attentati, cannonate sui villaggi di frontiera. Ora è giusto che le Due Coree dicano che la guerra è finita.

Repubblica 28.4.18
Quei 65 anni d’attesa
Ora la II Guerra mondiale è finita anche sul 38° parallelo
È stato il grande conflitto dimenticato. Fin dall’origine è stato spesso a un passo dal diventare uno scontro nucleare. Ora si avvia alla conclusione ma resta un non detto tra Cina e Stati Uniti
di Vittorio Zucconi


WASHINGTON Piccolo passo per due uomini in guerra che si tenevano per mano come fidanzatini, grande balzo per l’umanità che chiude l’ultima piaga rimasta aperta dalla Guerra mondiale e poi dalla Guerra fredda, la promessa di pace dei leader delle due mezze Coree è un viaggio lungo 65 anni e un milione di morti. Espressa ogni prudenza possibile, avanzata ogni diffidenza per questo vertiginoso e fulmineo rovesciamento del gioco, basterà ricordare come appena un anno fa si temesse da un’ora all’altra uno scontro nucleare fra Kim Jong-un e Donald Trump e ora si sottoscrivano impegni solenni e pur vaghi di “denuclearizzazione”, mentre lo stesso Trump si congratula e loda colui che aveva minacciato di polverizzare tra «furia e fiamme».
Quel conflitto permanente, quella guerra continua che viveva sospesa tra “fuoco e ghiaccio”, come fu definita, fra possibili cannonate e il gelo paralizzante degli inverni sul 38° parallelo, conosce un disgelo che ricorda altri momenti di grande speranza nella storia degli ultimi 100 anni e soprattutto del Dopoguerra.
Vedendo insieme Kim il Terzo, nipote e figlio di despoti che da tre generazioni bruciano più di un terzo del Pil nordcoreano in armamenti, e Moon Jae in, il presidente democraticamente eletto nel Sud, riportavano alla memoria altri celebri momenti di apparente, abbagliante riconciliazione fra inconciliabili.
Si ripensa, con qualche nostalgia e molta delusione, all’abbraccio di Menachem Begin e Anwar Sadat a Gerusalemme, che costò la vita al presidente egiziano. Alle strette di mano fra Ronald Reagan e Mikhail Gorbachëv, lui dell’“Impero del Male” a Ginevra, o fra Yasser Arafat e Ytzakh Rabin, un altro uomo di pace che pagò con il sangue la sua apertura, e la riconciliazione incruenta fra Nelson Mandela che alzò al cielo la propria mano con quella di Frederik de Klerk, l’ultimo presidente del regime di apartheid Sudafricano che lo aveva incarcerato. Ma chi di noi ha visto e sentito nelle ossa il gelo atmosferico e militare lungo la linea del cessate il fuoco, il 38° parallelo che riportò i combattenti esattamente da dove erano partiti dopo almeno un milione di morti caduti o assiderati resta sbalordito davanti alle carineria, al clima, letteralmente, di rimpatriata in trattoria fra coreani del sud attorno a banchetti a base di polipi alla griglia, verdure sottaceto, frittelle di patate alla maniera di Zurigo, il Rösti, per alludere agli studi del giovane Kim in Svizzera che lui non aveva mai ammesso. O il dolcetto di mango con fogliolina di zucchero per guarnizione con la sagoma della penisola coreana disegnata sopra che ha subito scatenato la collera dei giapponesi perché include alcuni isolotti che Tokyo pretende come suoi.
La Guerra in Corea, che ora sembra sciogliersi in “noodles”, in spaghetti freddi preparati da uno chef di Kim Jong-un arrivato con l’apposita macchinetta per filarli da Pyongyang, è stata, molto più del Vietnam, un mattatoio specialmente crudele, dove sono caduti in tre anni tanti soldati americani quanti ne furono uccisi nei tredici anni di combattimenti in Indocina. Fu, dopo l’inaspettata invasione del Sud oltre la linea di demarcazione tracciata nel 1950, dopo la liberazione dagli occupanti giapponesi da parte del nonno del paffuto giovanotto che ora brinda e tiene per la manina il sudcoreano, la prima e per ora ultima grande campagna militare di massa fra gli Stati Uniti, sotto la bandiera dell’Onu, e una grande nazione comunista, la Cina di Mao Zedong. Fu la prima guerra non vinta nella storia americana e portò, come non sarebbe più accaduto fino alla crisi dei missili sovietici a Cuba, a poche ore dall’impiego di bombe atomiche.
Il generalissimo Douglas MacArthur, che si era imprudentemente spinto all’estremo nord per spazzare via i resti del regime comunista e si era trovato di fronte un milione di soldati cinesi, aveva chiesto di annientarli con l’atomica. Soltanto il rifiuto del presidente Harry Truman e la destituzione su due piedi del generalissimo evitarono una seconda Hiroshima, alla quale i cinesi, e i loro alleati sovietici del tempo, avrebbero risposto con eguale rappresaglia. Per questo, per il terrore sfiorato, per l’insensatezza di un massacro che lasciò le cose come stavano prima della guerra e fu magistralmente ridicolizzato da Robert Altman nel suo film MASH, il conflitto coreano è stato “la guerra dimenticata”, quella che gli americani hanno per decenni preferito ignorare, senza averla capita e dunque mettendo le premesse per la catastrofe vietnamita. Ora Donald Trump si vanta della apparente riappacificazione, del disgelo prodotto dalle sue raffiche di tweet da vero duro, anche se appare più ragionevole pensare che siano stati i burattinai cinesi a tirare i fili e imporre a Kim, ormai più imbarazzante che utile, di sciogliersi e di scoprire le delizie dell’ospitalità e della cucina sudcoreana. Se la piaga finalmente si rimarginerà sarà una di meno, in un mondo afflitto da altre piaghe purulente, ma chi abbia vinto, 65 anni dopo, la Guerra dimenticata, resta da vedere. Una Corea “denuclearizzata” significa anche l’esclusione di ordigni americani, comporterebbe la fine della Maginot Usa sul 38° parallelo e, in prospettiva, il tramonto del protettorato di Washigton sull’Pacifico occidentale, imperniato sull’irrisolto nodo coreano. Una Corea riunificata, un Nord assorbito nella sfera di prosperità alla maniera cinese, nel segno della “dittatura di sviluppo” pseudo-comunista sarebbe un altro gigantesco e inevitabile passo verso l’egemonia cinese sull’Asia orientale.

Il Sole 28.4.18
L’analisi
Ma il disarmo nucleare resta una grande incognita
di Ugo Tramballi


Chi sostiene che il vertice trans-coreano non ha portato risultati, non conosce la storia. Studiarla non garantisce un posto di lavoro ma aiuta a comprendere il tempo nel quale viviamo. Senza sapere cosa fu la guerra del 1950, un’estensione del secondo conflitto mondiale che avrebbe potuto portare al terzo; senza conoscere le violenze e le minacce alla stabilità asiatica alimentate nei decenni successivi, le immagini venute ieri dal 38° parallelo sembrano più comiche che memorabili.
Invece il piccolo salto verso Sud del nordista Kim Jong-un e quello in direzione Nord del sudista Moon Jae-in, con il seguito di scambio di fiori e posa dell’albero della pace, sono forse la fine positiva di un’era e la conferma che il Secolo Asiatico è iniziato. Mentre Jong-un e Jae-in univano due energie opposte, come lo Yin e lo Yang della filosofia taoista, a Wuhan in Cina Xi Jinping e Narendra Modi s’incontravano per sanare le dispute di frontiera che un anno fa avevano avvicinato un conflitto ancora più devastante. Cina e India: ieri a Wuhan con i due capi di stato c’erano un terzo dell’umanità e un quinto dell’economia planetaria.
Detto questo, per quanto storico, il vertice coreano di ieri non ha portato novità riguardo al nocciolo del problema: la diplomazia a quattro – le due Coree, Stati Uniti e Cina – per denuclearizzare il regime di Pyongyang e l’intera penisola. Ieri le dichiarazioni d’intenti erano piene d’ottimismo ma potrebbero nascondere un equivoco. La Corea del Nord è davvero pronta a rinunciare alla bomba o alla fine, ormai conseguita, offrirà solo il congelamento, la fine del suo programma di sviluppo militare ma non la distruzione del suo arsenale? Nella storia dell’era nucleare non si è mai visto un paese dalla geo-politica complicata, rinunciare allo status di potenza atomica. Lo fece il Sudafrica nel 1990 perché l’Urss non esisteva più e il Paese andava verso la fine dell’apartheid. L’Iran ha accettato di fermare il suo programma perché non aveva ancora la bomba e il raggiungimento di quell’ambizione era ancora lontano.
Con il realismo necessario per il successo di ogni negoziato, in questi mesi a Washington si proponeva di concentrare la trattativa sul programma missilistico della Corea del Nord: impedire che Pyongyang sviluppasse il vettore e la tecnologia necessaria per lanciare la bomba il più lontano possibile e con precisione. Quanto all’atomica, ad ogni latitudine terrestre quando il genio esce dalla lampada è quasi impossibile farlo rientrare. Dopo l’insegnamento dell’Iraq di Saddam Hussein che fu invaso perché non aveva la bomba, la Corea del Nord ha costruito la sua per sopravvivere, non per dominare l’Asia. Se oggi vi rinunciasse del tutto o se solo aprisse le sue frontiere normalizzando le relazioni con il Sud, milioni di nordisti fuggirebbero verso Seul. Il regno di Kim sopravvive se resta il regime chiuso, militarista e illiberale che è.
Gli Stati Uniti, il Giappone e la Corea del Sud si accontenterebbero del risultato di avere eliminato – probabilmente solo rinviato a data da destinarsi – la minaccia che rappresentava Pyongyang? Il Giappone no. Durante la campagna elettorale Donald Trump invitava gli alleati a Tokio e Seul a non contare più sull’ombrello nucleare americano, creando invece un loro arsenale.
Fino ad ora coerente con il suo programma da candidato, paradossalmente il presidente degli Stati Uniti potrebbe essere l’unico ad accontentarsi, fino ad accettare il ritiro delle truppe dalla Corea del Sud, in nome della sua “America first”. Se lo scopo è un successo della sua amministrazione traballante, questo dovrebbe bastare. Dalla Corea alla Siria alla Russia, l’incertezza sulle intenzioni di Trump è la costante delle relazioni internazionali. In ogni caso, fatta salva la legittimità storica di quanto accaduto ieri fra le due Coree, l’accordo finale è ancora lontano.

Il Sole 28.4.18
Stabilità asiatica
Pechino, l’ineludibile convitato di pietra
di Rita Fatiguso


La Cina è il convitato di pietra al tavolo del primo ricevimento dei cugini coreani da sessant’anni a questa parte. Non c’è storia tra l’incontro tra Kim e Moon e quello che, contestualmente, si svolgeva in Cina tra il core leader Xi Jinping e il primo ministro indiano Narendra Modi. «Dopo mesi di tensione tra i due vicini - hanno riportato i media statali - Pechino spera che l’incontro apra un nuovo capitolo per i legami bilaterali», ma il capitolo con l’India è storia minore.
Di certo i pensieri di Xi Jinping vagavano da tutt’altra parte, perché nel retrobottega cinese sta succedendo ciò che i suoi predecessori mai e poi mai si sarebbero augurati: una ripresa forte dei rapporti diplomatici tra le due Coree, congelati dall’armistizio degli anni Cinquanta, con la prospettiva concreta di ritrovarsi gli americani praticamente in casa. Difatti, fervono le trattative per organizzare l’atteso incontro in Nord Corea del presidente Donald Trump in casa di Kim Jong-un il che, inevitabilmente, materializzerà l’incubo di Pechino. La Casa Bianca ha fatto già sapere di avere tre-quattro opzioni.
Per neutralizzare l’incubo, il ministero degli Esteri cinese, laconico, ha fatto sapere attraverso il portavoce Lu Kang che «la Cina ha accolto con favore la dichiarazione congiunta della Corea del Nord e della Corea del Sud dopo che i loro leader si sono impegnati a lavorare per la completa denuclearizzazione della penisola coreana e dichiarare la fine ufficiale della guerra coreana del 1950-53. La Cina spera che tutte le parti possano mantenere lo slancio per il dialogo e promuovere congiuntamente il processo di risoluzione politica per la questione della penisola coreana. La Cina è disposta a continuare a svolgere un ruolo proattivo a questo proposito». Fine del comunicato.
Quali siano i veri sentimenti dei cinesi, lo si può solo intuire. Ricevendo il giovane scapestrato Kim Jong-un nella Great Hall of People per una cena protocollare con tanto di rispettive mogli al fianco ma in un clima molto disteso, Xi Jinping ha sapientemente giocato di anticipo. Non è stata, forse, la Cina, una strenua sostenitrice della denuclearizzazione della Provincia coreana?
Ora, però, il gioco si complica. Oltre lo storico incontro di ieri la Cina resta l’elemento cruciale della stabilità della penisola e dintorni, a patto che non ci siano ingerenze di altro tipo.
Non sappiamo nemmeno quanto i due leader coreani abbiano pensato a Xi Jinping, nella foga di stringersi ancora una volta la mano. Di certo l’accelerazione impressa agli eventi spinge il presidente cinese a concentrarsi sul suo vero e unico contraltare: il collega americano Donald Trump.
Consenziente al riavvicinamento delle due Coree, Xi Jinping punta al disimpegno degli Usa sul versante taiwanese, in modo tale da allentare i legami tra la Provincia ribelle e gli Usa, fino a indebolire ogni istanza di separatismo di Taipei.
Se il sangue coreano comincerà a scorrere in un corpo unico, questo deve poter succedere anche con quello cinese. La simmetria è implicita tra le righe del discorso di Xi al 19esimo Congresso. Xi, di conseguenza, non vuole ingerenze nel “suo” mar Cinese meridionale quindi, al netto delle dispute commerciali e delle accuse di ulteriori furti di segreti industriali, come attesta il monitoraggio lanciato ieri da Washington su tutte le joint ventures basate sull’intelligenza artificiale, Pechino si aspetta di poter pattugliare, come ha ripreso a fare, lo Stretto di Taiwan. Indisturbata. Com’è noto, così non è stato, gli americani non sono rimasti a guardare e l’ammiraglio Phil Davidson che prenderà il comando sull’area asiatica al posto di Harry Harris, ha un temperamento forte, proprio di quelli che piacciono a Donald Trump.

Repubblica 28.4.18
Sangue a Gaza, i palestinesi spinti alle cariche


Nel corso della giornata di ieri alcuni dirigenti del gruppo hanno raggiunto migliaia di dimostranti, raccoltisi, come nelle settimane passate, in cinque punti di frizione lungo il confine, e da là hanno esortato al popolazione di Gaza a non desistere dalla lotta elaborata per forzare il blocco e rompere le linee di confine. Da Ramallah un consigliere del presidente Abu Mazen, Muhammad al-Habbash, ha fatto appello agli abitanti di Gaza perché non seguano la politica degli “avventurieri” e “non mandino i figli a morire”. L’alto bilancio di vittime e feriti fa temere che nelle giornate da qui al 15 maggio la tensione possa salire ancora.
Ancora sangue a Gaza: nel quinto venerdì di protesta lungo il reticolato che separa la Striscia da Israele tre palestinesi sono morti e almeno 600 sono rimasti feriti, colpiti dall’esercito israeliano.
Tutti i morti, secondo medici a Gaza, sono stati uccisi da proiettili alla testa.
Inizialmente pacifica, la protesta è degenerata quando - secondo testimoni citati dal New York Times - centinaia di manifestanti si sono lanciati contro la recinzione, incoraggiati da un leader di Hamas che ha detto loro di non temere il martirio. Alcuni di loro avrebbero tentato di appiccare un incendio e come risposta gli israeliani avrebbero lanciato delle granate: cosa che spiegherebbe l’altissimo numero di feriti. Il portavoce militare israeliano Jonathan Conricus ha spiegato che i soldati hanno reagito a «un tentativo di massa da parte di decine di facinorosi di sfondare i reticolati di confine al valico di Karni. Hanno cercato di appiccare il fuoco ma sono stati respinti dei militari».
Quello che è certo è che mai dall’inizio delle proteste i palestinesi erano riusciti ad arrivare tanto vicino ai militari con la Stella di David.
La “Marcia del ritorno” lungo la linea di demarcazione tra Gaza e Israele, è iniziata il 30 marzo: l’idea di una protesta pacifica contro le violazioni dei diritti dei palestinesi residenti nella Striscia e a favore del diritto di ritorno nei territori ora sotto controllo israeliano, è stata di diversi esponenti della società civile della Striscia, ma ha poi coinvolto tutti i gruppi e i movimenti presenti nell’area, compresa Hamas.
Dall’inizio delle proteste, secondo l’Onu, sono morti 44 palestinesi e 5.500 sono rimasti feriti: il calcolo non include le vittime di ieri. Le proteste continueranno ogni venerdì, per culminare nella giornata del 15 maggio, 70esimo anniversario della nascita di Israele.
L’alto numero di vittime ha provocato la reazione dell’Onu e di Amnesty international, che sono tornati separatamente ad accusare i militari israeliani di aver fatto «un uso sproporzionato della forza nei confronti di dimostranti disarmati». Da parte sua il Centro di informazione sull’ intelligence e il terrorismo (Iitc) di Tel Aviv ha pubblicato un’analisi, secondo cui l’80% dei primi 40 palestinesi uccisi sul confine erano «membri attivi o fiancheggiatori di gruppi terroristici».
La protesta sta contribuendo a riaccendere le tensioni interne al campo palestinese: gli organizzatori iniziali sono stati infatti messi da parte dai più organizzati membri di Hamas.

La Stampa TuttoLibri 28.4.18
Anche i tedeschi diventarono vittime quando l’Armata Rossa sfondò il fronte
Il crollo della Germania nazista visto da un podere della Prussia orientale i profughi incalzati dai russi cercano scampo, ma il caos inghiotte tutti
di Luigi Forte


Nel podere Georgenhof con la casa padronale a due piani, il bel salone con grandi e anneriti ritratti di notabili alle pareti, i trofei di caccia e la sala da biliardo, sembrava che il tempo si fosse fermato. E dire che in quell’inverno del 1945, proprio là fra le cittadine di Mitkau e Elbing nella Prussia orientale, il fronte di guerra non era lontano e i russi potevano arrivare da un giorno all’altro. Mentre il mondo bruciava, qui la vita proseguiva senza grandi scossoni. Se si eccettua l’assenza del padrone di casa, Eberhard von Globig, ufficiale della Wehrmacht in Italia, e la presenza saltuaria di sfollati dall’est come l’invalido signor Schünemann esperto di economia, o la giovane violinista Gisela, in giro per gli ospedali della regione per offrire con la sua musica un po’ di svago ai feriti.
La porta di casa è sempre aperta e Katharina, moglie di Eberhard, chiusa nel suo mondo di fantasie, osserva con curiosità tutta quella gente in fuga. È una trasognata berlinese dagli occhi azzurri e dai folti capelli neri. Divora libri nel suo «rifugio» al primo piano e vaga col pensiero fra mille nostalgie: il marito lontano, che pure una volta ha tradito, la piccola Elfie morta di scarlattina e la giovinezza nella sua favolosa città. Qui lei ora è come sospesa nel tempo. Certo, c’è da pensare al figlio dodicenne Peter, un curioso ragazzo dalla testa affilata che s’aggira per il podere con un microscopio e il binocolo del padre. Ma alla casa bada la matura signora Harnisch, che tutti chiamano zietta e che fa parte - come dice lei - dell’inventario della famiglia. In cucina ci sono due ucraine, Sonja e Vera, e ai lavori più pesanti ci pensa il polacco Wladimir.
Se non fosse per quel fragore lontano, le sirene d’allarme o gli aerei che passano rombando, Georgenhof sarebbe un vero idillio. Ma dietro quel mondo, nel corso di una tremenda guerra scatenata dalla follia nazista, si ammucchiano migliaia di vittime e montagne di colpe.
È su quello sfondo che matura il romanzo del 2006 di Walter Kempowski, Tutto per nulla, pubblicato ora da Sellerio a cura di Mario Rubino. L’autore, nato a Rostock nel 1929 e scomparso nel 2007, non ebbe vita facile: fu arruolato giovanissimo, poi dopo il conflitto passò otto anni in carcere nella ex Rdt per spionaggio filoamericano. Col tempo la sua vecchia vocazione letteraria nata già sui banchi di scuola trovò ampio sbocco in un ciclo di romanzi autobiografici, La cronaca tedesca, mentre più tardi, nel corso degli anni Novanta, nacque una vasta ricostruzione documentaria degli anni di guerra, L’ecoscandaglio, basata su documenti e testimonianze di ogni genere.
Un po’ di quell’atmosfera ritorna anche qui nell’inesorabile fine che attende la piccola comunità attorno alla casa dei Globig proiettata sull’epico sfondo di una caotica evacuazione di massa. Come già Grass con Il passo del gambero, anche Kempowski prova a mettersi dalla parte dei profughi incalzati dalle truppe russe. Ma il dramma è per buona parte del romanzo proiettato a fondo scena, mentre in primo piano c’è un viavai di personaggi spesso gustosi e originali come il dottor Wagner, l’insegnante di Peter, che sogna la sua vecchia Königsberg, o il barone baltico che si porta appresso, oltre alla moglie, un pappagallo nero. E certo non mancano gli arcinazisti come Drygalski, che sogna la vittoria, odia la gentaglia dell’est e nutre sospetti verso la famiglia Globig. Non del tutto infondati, visto che Katharina, su pressione del pastore Brahms, accetta di ospitare per una notte un ebreo berlinese. Si verrà a sapere e la bella signora finirà in carcere per poi scomparire nel turbinio degli eventi, in fuga con tanti altri prigionieri. Si è ormai aperto il baratro in cui poco per volta tutti scompaiono. Perfino l’ufficiale Eberhard suicida nella lontana Italia.
Il talento epico di Kempowski si nutre di distanza, non di enfasi. Come il piccolo Peter rimasto solo per strada dopo la morte di zietta. Non ha lacrime ma occhi che scandagliano una realtà surreale. Vuoto e quasi indifferente davanti alla laguna della Vistola e a quel mare dove riuscirà a imbarcarsi. A lui, l’incolpevole, spetta un nuovo inizio. Per gli altri valgono solo le parole di Lutero preposte al romanzo: «Soltanto la tua grazia e il tuo favore/valgono a rimettere i peccati;/a nulla giova tutto il nostro agire/anche nella migliore delle vite».

La Stampa TuttoLibri 28.4.18
Ho indossato la vergogna delle donne di conforto
Duecentomila sudcoreane furono costrette a prostituirsi con i soldati giapponesi durante la Seconda guerra mondiale, un romanzo ricostruisce la loro tragedia a lungo nascosta
di Mary Lynn Bracht


Quando ero piccola, mia madre mi raccontava spesso episodi della sua giovinezza nella Corea del Sud. Era talmente brava che mi sembrava di essere lì con lei. Io sono cresciuta in America, dove non c’erano libri o documenti che parlassero di quella parte del mondo; forse da questo è nato dentro di me il desiderio di riempire questo vuoto, di scrivere qualcosa del paese natale di mia madre. Nel 2002 abbiamo fatto un viaggio insieme in Corea: era la prima volta che ci tornavo, dopo esserci stata quand’ero poco più che una neonata, e finalmente vedevo coi miei occhi un Paese che, fino a quel momento, avevo conosciuto solo attraverso le parole di mia madre. Abbiamo trascorso un mese intero viaggiando per tutta la penisola sudcoreana e incontrando parenti e amici d’infanzia di mia madre. Abbiamo fatto trekking sul monte Seorak, visitato monasteri buddisti, vagato per i villaggi di contadini nei pressi. Il giorno più toccante che ricordo è quello in cui ci siamo recate presso la tomba di mia nonna, sulla cima di una collina che veglia il villaggio di mia madre. Quel lungo viaggio mi ha aperto gli occhi, mi ha permesso di iniziare a comprendere davvero la storia della mia famiglia.
Durante le mie ricerche sulla storia della Corea trovai un articolo che parlava delle «donne di conforto», un eufemismo che in giapponese sostituisce il termine «prostitute», e di Kim Hak-Sun, la prima donna a farsi avanti e raccontare la sua storia, nel 1991. Sconvolta, scoprii così che oltre duecentomila donne coreane durante la seconda guerra mondiale erano state costrette a prostituirsi dal governo giapponese, rinchiuse in veri e propri bordelli militari. Era un lato oscuro della storia coreana di cui non avevo mai sentito parlare. Il Giappone aveva conquistato e annesso la Corea già nel 1910, e forte della sua posizione di dominio, trent’anni dopo, l’esercito giapponese conduceva razzie lungo la penisola coreana in cerca di donne e ragazze da trasformare in schiave sessuali per i soldati al fronte. Migliaia di donne morirono di malattia, altre furono trucidate e sepolte in fosse comuni alla fine della guerra. Per quasi cinquant’anni le poche vittime sopravvissute hanno tenuta nascosta la verità, temendo di subire le conseguenze dell’onta su di sè e sulle loro famiglie. Dopo anni e anni di dittatura militare, solo negli anni Novanta il clima sociopolitico della Corea del Sud è cambiato, con l’inizio della democrazia. E con l’emergere con essa di organizzazioni a sostegno dei diritti delle donne, che hanno finalmente dato alle prime «donne di conforto» la possibilità di farsi avanti.
Sono trascorsi più di dieci anni dal mio viaggio in Sud Corea e dal momento in cui ho appreso della loro esistenza, eppure ancora nulla è stato fatto per render loro giustizia di fronte alla Storia. Dopo quasi trent’anni di attivismo da parte delle associazioni delle «donne di conforto» e dei loro sostenitori, l’ostinazione del governo giapponese nel sottrarsi a qualsiasi atto riparatorio o di giustizia mi ha spinta a tornare alla loro lotta, alla loro sofferenza. Mi è quasi impossibile immaginare come ci si debba sentire a essere non soltanto una sopravvissuta all’orrore della schiavitù sessuale per un esercito, ma anche una donna costretta a lottare per decenni in vano per ottenere riconoscimento delle proprie sofferenze. Nel frattempo, una dopo l’altra, le sopravvissute iniziavano a invecchiare e a morire, col rischio di scomparire del tutto dalla Storia.
È stato allora che ho deciso che era proprio la loro vicenda che dovevo rimettere al centro dell’attenzione, prima che anche l’ultima di loro morisse.
Perché a definirci come esseri umani, in fondo, è il modo in cui veniamo ricordati.
Fino ai tempi più recenti, quando pensavamo alle conseguenze della guerra tendevamo a immaginare coraggiosi soldati intenti a combattere per la loro patria. Ricordavamo le loro gesta, e i caduti sul fronte, con monumenti: statue di soldati che imbracciano bandiere in cima a una collina, nobili condottieri o generali a cavallo. I musei di tutto il mondo espongono testimonianze di guerra e memento di battaglie, libri di Storia e romanzi raccontano epiche vittorie, poesie sono dedicate a immortalare la sofferenza e il coraggio dei combattenti, dipinti ne ritraggono l’orrore e la gloria. C’è un aspetto che accomuna tutte queste espressioni d’arte e di ricordo: parlano solo e unicamente dell’esperienza degli uomini.
Eppure, sono le donne sopravvissute alle guerre le vere custodi della cultura del proprio paese. Sono le donne a mantenere in vita storia e tradizioni, sono le donne a tramandare il ricordo di chi è perito in guerra parlandone a figli e nipoti e alla comunità intera. Occorre coraggio, forza e spesso anche la capacità di sopportare il dolore più feroce per sopravvivere a una guerra. Le donne sono sentinelle a guardia della loro storia, e della Storia stessa.
Tutto questo viene troppo spesso trascurato.
Il modo in cui ricordiamo le donne nella Storia è di fondamentale importanza. È in nome di questo che ancora oggi combattono le poche «donne di conforto» rimaste. In tutta la Corea del Sud ne restano soltanto ventinove. Quindici sono scomparse da quando ho completato l’ultima stesura di Figlie del mare, nel 2016. Svanendo, una a una, senza avere ottenuto la giustizia e il riconoscimento che meritano.
Monumenti come la Statua della Pace, eretta a Seul in nome delle centinaia di migliaia di «donne di conforto» che sono morte in quel periodo, ci aiutano a ricordare chi abbiamo perduto così come le poche che sono ancora vive e incessantemente lottano per ottenere il posto che spetta loro nella Storia. Ma perché quella statua fosse eretta, sono occorsi vent’anni di proteste, settimana dopo settimana. E a tutt’oggi, quel monumento è fonte di tensione diplomatica tra la Corea del Sud e il Giappone.
Figlie del mare è un omaggio a queste donne e alla loro storia, fatto nella speranza che parlando, scrivendo e dando ascolto alla loro devastante esperienza e alla loro forza nel lottare per la giustizia e la verità, le giovani generazioni se ne facciano testimoni e non dimentichino, mai.

Repubblica 28.4.18
Werner Herzog “ Odio i fatti, amo i sogni e so che la vita è bella perché non è eterna”
Intervista di Jan Küveler


Allungare l’esistenza, come sperano i guru delle tecnologie?
Dovremmo sorbirci le stesse porcate per 400 anni
Internet è tutta fake news e porno, non possiamo cambiarla
Invece dovremmo batterci contro gli oceani di plastica

Un cineasta dev’essere come un ladro nella notte: lo ha detto Werner Herzog nel corso della nostra conversazione a Hong Kong, dove abbiamo parlato del cannibalismo su Internet, della vita eterna e dei suoi colloqui con Gorbaciov.
Lei sembra avere il dono magico di piegare la realtà alla sua drammaturgia. Un concetto di origini hegeliane: a chi gli chiedeva conto di alcune discrepanze tra sue teorie e realtà dei fatti, Hegel avrebbe risposto: “Tanto peggio per i fatti”.
«Ovviamente è solo una battuta, anche nelle intenzioni dell’autore.
Ma c’è una cosa che sarebbe bene non perdere mai di vista: non dobbiamo lasciarci condizionare solo dai fatti. Perché l’essere umano funziona al meglio sotto l’effetto di visioni, sogni, paure e così via».
Dall’esterno, lei dà un’impressione di straordinaria calma. Un po’ come un bruciatore a gas, che deve avere una certa stabilità per contenere le reazioni violente al suo interno. Un Werner Herzog calmissimo affinché un Klaus Kinski possa esplodere…
«Non sono in grado di descrivere me stesso. Ma ho notato spesso che altri mi vedono in modo contraddittorio, dato che alcuni dei miei personaggi sono anarchici, caotici, isterici, sull’orlo della follia; perciò si pensa che dovrebbe esserlo anche il regista, mentre io tendo alla calma, ai toni sommessi».
Una volta lei disse che l’uomo si riconosce soprattutto nelle situazioni estreme. È per questo che i suoi personaggi sono in genere sopra le righe?
«Certo, se si è interessati a ciò che ci fa essere come siamo, alla nostra condizione umana, non c‘è molto da scoprire su un personaggio ripreso mentre prepara i panni da mettere in lavatrice. Il cinema non può crescere su questo terreno».
Ma prenda ad esempio un autore come Marcel Proust: probabilmente sarebbe stato capace di dedicare anche cinque o sei pagine a una lavatrice.
«Può darsi, ma sempre attraverso la trasformazione operata dalla memoria. Per nostra fortuna i ricordi hanno vita propria, si configurano in maniera nuova e diversa; e in tal modo rendono sopportabile quella che è stata la nostra esistenza passata. Perché di fatto la natura è ben disposta nei nostri confronti, e tramuta i nostri ricordi indipendentemente da noi».
Ha appena detto che la natura è ben disposta verso di noi. Ma spesso lei non è tanto ottimista.
Nel suo film “Into the Inferno” ha detto la natura non ha interesse...
«...Per rettili deficienti ed esseri umani banali».
Pensa di potersi interessare a una grande realtà politica come questa della Cina per farne un film?
«Le idee e le analisi, comprese quelle politiche, funzionano in modo diverso dal cinema. Le idee sono idee, le storie sono storie. Un anno fa ho tenuto un workshop a Cuba. Ho proposto di immaginare un film nell’ambito di un contesto preciso. È intervenuto un giovane che veniva, credo, dall’Argentina.
Sembrava che avesse un progetto molto chiaro; parlava di una grande idea, del conflitto tra capitalismo e socialismo a Cuba. Gli ho detto: “Tutte queste sono idee. Puoi dirmi come vedi la prima scena del tuo film?”. È rimasto senza parole. In altri termini: le idee funzionano in modo diverso. La mia domanda — what’s your first shot?, com’è la tua prima inquadratura? — era una provocazione. Lo sviluppo della Cina, il ruolo che potrebbe avere Hong Kong… sono idee, concetti politici, non hanno nulla a che vedere col cinema».
Ma il suo film sulla nascita di Internet, “Lo and Behold”, visibile su Netflix, non è un tentativo in questo senso — quello di esporre una grande idea coi mezzi del cinema? Gli scrittori si dannano l’anima per dare espressione a temi come Internet o la crisi finanziaria.
«Sciocchezze. Sono tentativi destinati a fallire. Internet funziona secondo la propria natura: attraverso Instagram, i tweet e i pornofilm gratuiti da scaricare. Col sensazionalismo e le bufale più folli, che vengono a galla in brevissimo tempo. Un americano ha usato Internet per accusare i Clinton — sia Hillary che Bill — di far parte di una setta di pedofili dediti ai sacrifici rituali di bambini e al cannibalismo.
Nel giro di un’ora ha totalizzato due milioni di clic. È così che funziona».
Anche un film di Werner Herzog pubblicato su Netflix arriva presto a due milioni di clic.
«Sono cento milioni, non due. Cifre di un ordine al quale non siamo abituati — soprattutto nel cinema.
Di fatto, Internet sviluppa meccanismi e provoca stati d’eccitazione che ancora dobbiamo imparare a conoscere. Ma l’idea di fare di Internet il tema di un grande romanzo non ha senso, è destinata a fallire».
Crede che il mondo sarebbe migliore senza Internet?
«No. Allo stato attuale delle cose la nostra civiltà non può più farne a meno. Non sarebbe più possibile prenotare un posto in aereo in qualsiasi parte del mondo…».
In un docufilm del 1980 dal titolo “Werner Herzog isst seinen Schuh” (Werner Herzog mangia la sua scarpa) lei ha osservato che la nostra civiltà soffre della mancanza di immagini adeguate, e che crearle è compito dei cineasti. Cosa ne pensa oggi?
«Nulla di diverso».
E le ha create, queste immagini? Ne è soddisfatto?
«Sì. Certo, molte cose avrei potuto farle meglio. Ma in linea di principio, avevo un compito e non l’ho mai abbandonato».
Tra le sue conoscenze c’è Elon Musk. Se gruppi di scienziati e imprenditori riuscissero e realizzare il sogno della vita artificiale che tanto li appassiona, lei sarebbe interessato all’argomento?
«Credo che lo saremmo tutti.
Sicuramente la fabbricazione di nuovi microbi è nell’ambito del possibile; sarebbe però un po’ più difficile creare un nuovo tipo di dinosauri. Del resto non abbiamo alcun bisogno dei dinosauri: non sapremmo che farcene.»
Pensa che avremmo invece bisogno di prolungare indefinitamente la durata della nostra vita?
«È solo un’illusione. Perché la natura è un sistema dinamico, basato sul fatto che la durata della nostra vita è limitata — per nostra fortuna! Riesce a immaginare di continuare a vivere in mezzo alle stesse porcate per 400 anni?
Insopportabile! Per fortuna, un giorno moriremo».
Lei si è occupato tra l’altro del mito del vampiro. Sarà forse un incubo, ma è pur sempre un sogno di immortalità.
«Vada a vedere il mio Nosferatu: a differenza del vampiro di Murnau, privo di anima come un insetto, il mio un’anima ce l’ha, e soffre di non poter prendere parte alle vicende umane — ad esempio all’amore. Ma la cosa più terribile è non poter morire».
E i suoi documentari?
«Prendiamo quello su Gorbaciov: ho già girato due volte con lui, in ottobre e in dicembre. Si tratta di conversazioni. Ora Gorbaciov mi ha chiamato di nuovo; in qualche modo mi si è affezionato. È chiaro che questa sarà per lui l’ultima occasione per esprimersi pubblicamente. Gli fa piacere, credo, potersi rivolgere a qualcuno che non è un giornalista ma un poeta. Peraltro ci accomunano varie cose, come la provenienza da una lontana provincia e l’infanzia in campagna».
Nel corso della sua carriera, la sua popolarità non ha mai smesso di crescere, come del resto il pubblico che la segue. Si è chiesto perché sono in tanti e seguire il suo lavoro?
«Le ragioni sono probabilmente diverse. Intanto il fatto che prendo iniziative in piena autonomia, senza aspettare i finanziamenti di Hollywood. Mi rimbocco le maniche e vado. C’è poi il fatto che in un lungo arco di tempo i miei film non hanno mai perso in credibilità. Le altre ragioni potrebbero essere molto semplici, legate al fatto che non mi sento veramente a mio agio nel mondo consumistico. Possiedo un unico paio di scarpe, quelle che indosso. Siamo in troppi su questo pianeta, e troppo spesso prigionieri del consumismo; e per questo andiamo incontro alle catastrofi ecologiche. Gli oceani sono pieni di rifiuti di plastica».
– © Die Welt / LENA, Leading European Newspaper Alliance Traduzione di Elisabetta Horvat